Digitized by the Internet Archive
in 2010 with funding from
University of Toronto
http://www.archive.org/details/gliidealidiunecoOOeina
aA^
1
■y
'■■ .-,:-..-, -**'"
LUIGI EINAUDI
nato a Carrù (Cuneo) il 24 Marzo 1874.
Senatore del Regno, Professore di scienza delle finanze
nella Università di torino e nella Università Bocconi di Milano
Condirettore della RIFORMA SOCIALE.
PUBBLICAZIONI PRINCIPALI.
Un principe mercante, Torino, Bocca, 1900.
Corso di scienza delle finanze, Torino, presso l'au-
tore, 1914.
Il problema delle abitazioni, Milano, Treves, 1920.
// problema della finanza post-bellica, Milano, Treves,
1921.
Prediche, Bari, Laterza, 1921.
QUADERNI DELLA VOCE
RACCOLTI DA GIUSEPPE PREZZOLIMI
LUIGI EINAUDI
GLI IDEALI
DI UN ECONOMISTA
PUBBLICAZIONE DELLA SOC. AN. ED. " LA VOCE ,,
QUADERNO 50-51, SERIE QUARTA-FIRENZE 1921
PROPRIETÀ RISERVATA
MB
177
Ess~
DI QUESTO LIBRO SONO STATE STAMPATE 25 COPIE
NUMERATE SU CARTA A MANO CHE SI VENDONO A
LIRE TRENTASEI CIASCUNA
INDICE
Avvertenza Pag. 7
I. — Scienza e scuola.
Salvatore Cognetti de Martiis » n
La crisi scolastica e la superstizione degli orari lunghi . » 23
Scuola educativa 0 scuola caleidoscopio? (A proposito del
disegno di legge Credaro) . » 33
II. — Politica, Impero Britannico
e Società delle Nazioni.
Ostruzionismo, chiusura, ghigliottina e canguro. ...» 45
Il valore italiano del trattato di Losanna » 57
L'abolizione delle capitolazioni in Turchia » 69
Decadenza inglese? *....» 77
Le due vie dell' imperialismo » 83
Che cosa è l' Impero Britannico » 91
Apologia di Wilson » 113
Democrazia, collettivismo e guerra » 123
Gli ideali dell' incapacità » 135
Germanofìli ed anglofili » 145
La teoria inglese dell'equilibrio europeo » 155
L' idea dello Stato come forza » 163
Le cause dello scisma e le tendenze verso una intesa dei
popoli di lingua inglese . . » 171
Il ritorno della « Fior di maggio » » 179
11 problema finanziario della Società delle Nazioni . . . Pag. 187
Federazione europea 0 Società delle Nazioni? .... » 195
Il governo delle « cose » » 205
La Società delle Nazioni e il governo delle cose ... » 219
Popoli dominatori e popoli oppressi » 229
Come si giunse al trattato di Versailles » 239
III. — La guerra italiana.
L'educazione politica del Conte di Cavour » 253
La conquista dei confini naturali dalla parte d'occidente
ed i suoi insegnamenti » 265
Per le porte d'Italia. Soldati piemontesi! Soldati italiani! » 275
Che cosa significa la lotta sul Trentino » 281
Achille Necco » 291
Cesare Jarach .*.... » 303
Ammonimenti » 309
I disfattisti della vittoria » 323
Contro la svalutazione della vittoria » 331
Verso la città divina. » 341
IV. — Regole di galateo.
Torniamo al « signor !» » 349
— 7
AVVERTENZA.
Questa è una raccolta di articoli d' indole non strettamente
economica, di quegli scritti al margine della scienza in particolar
modo coltivata, che ognuno di noi di tanto in tanto sente il biso-
gno di mandare per il mondo, quasi a testimoniare che non ci
sentiamo soltanto economisti o geologi o chimici, ma viviamo an-
che la vita di tutti, e specialmente quella della nostra nazione.
La raccolta non è compiuta, per non crescere inutilmente la
mole del volume; ma è forse bastevole ad indicare quali siano i
miei ideali — il titolo del volume non è di mia fattura, ma fu
trovato dall'amico Prezzolini ~- quali siano, io direi più sempli-
cemente, le mie fissazioni : la scuola educativa, V Inghilterra, la
formazione dell'Italia attraverso alla storia piemontese, la neces-
sità di governi supernazionali limitati per ora a quelle che si dicono
" cose ,,. Si discorre anche della guerra e vorrei sperare con atteg-
giamento logico rispetto alle predilezioni di prima, con rispetto
verso i nemici e con sguardo intento alle tradizioni della storia
paesana.
Torino, fine del 1920.
LUIGI EINAUDI.
I.
SCIENZA E SCUOLA
SALVATORE COGNETTI DE MARTIIS
Salvatore Cognetti De Martiis era nato a Bari il 19
gennaio 1844. Dopo aver compiuto gli studi universi-
tari a Pisa dal 1861 al 1866 ed aver ivi ottenuta la lau-
rea in giurisprudenza fu coi volontari garibaldini nel
Tirolo nel 1866. E combattè virilmente per la causa
dell' indipendenza nazionale a Monte Suello ed a Con-
dino.
Dopo, la scienza e l'insegnamento lo attrassero, né
mai più li abbandonò. Nel 1867, a 23 anni, fu nomi-
nato direttore delle scuole municipali di Bari e nell'anno
seguente professore di economia politica nell'Istituto
tecnico che allora si era fondato nella sua città nativa.
Nel 1868 fu chiamato ad insegnare Economia politica
nell'Istituto tecnico provinciale di Mantova, dove ri-
mase sino al 1876. A Mantova sposò la signora che fu
l'angelo consolatore della sua vita e diresse la quoti-
diana Gazzetta di Mantova, nella quale difese le
dottrine politiche conservatrici con grande calore d'a-
nimo e con bella temperanza di forma. Dalla direzione
della Gazzetta di Mantova passò alla redazione della
parte economica nella Perseveranza, nell'epoca in cui
il vecchio giornale moderato lombardo raccoglieva in-
tomo a se il fiore degli ingegni di parte sua. Ma nel
frattempo, essendosi rese vacanti le cattedre di Econo-
mia politica nelle Università di Siena e di Torino, il
12
Cognetti le vinse entrambe in pubblico concorsa. La
sua scelta fu per Torino, dove rimase, prima in qualità
di professore straordinario e poi di ordinario, dal 1° gen-
naio del 1878 e dove gli fu conferito altresì l'insegna-
mento dell'Economia e Legislazione industriale nel Mu-
seo Industriale.
Ed a Torino fondava nel novembre 1893 quel Labo-
ratorio di Economia politica che fu la cura precipua
degli ultimi anni della sua vita e che egli ebbe la sod-
disfazione suprema di vedere riconosciuto con decreto
reale come Istituto universitario pochi mesi prima della
sua morte. La quale sopravvenne improvvisa dopo una
crudele malattia che lo avea a lungo travagliato crudel-
mente durante il 1900 e dopo parecchi- mesi di conva-
lescenza, che gli amici ed i discepoli speravano fosse
davvero ristoratrice, passati a Roma nell'inverno de-
corso. Alla fine di Aprile, impaziente di rivedere la
scuola ed il Laboratorio che egli tanto amava, ritornò
a Torino, dove tenne la sua prelezione, parlando della
Idea economica nel Gioberti; ed i colleghi ed i disce-
poli, che erano accorsi numerosi a salutare il ritomo
del professore amato, si lusingarono che per lunghi
anni ancora Salvatore Cognetti De Martiis potesse im-
partire dalla cattedra il consueto insegnamento. Fu
breve speranza; pochi giorni dopo egli era ripreso dal
male, solo apparentemente vinto; e dopo una opera-
zione virilmente sopportata, dovette soccombere 1*8
Giugno.
Salvatore Cognetti De Martiis accanto a molte pub-
blicazioni di indole svariata, le quali attestano la sua
costante ed indefessa operosità, lascia alcune opere
principali che sono lo specchio esatto del suo pensiero
— 13 —
scientifico. Voglio accennare alle Forme primitive
nella evoluzione economica, al Socialismo antico, ed
alle Prefazioni alla quarta serie della « Biblioteca del-
l'Economista ».
Nelle Forme primitive egli volle studiare i primi
inizi della vita economica nelle società primitive sel-
vagge e barbare; ed anzi, spingendosi più in là ancora,
volle rintracciare nella vita delle piante e degli animali
quei fenomeni a cui poteva attribuirsi un movente di
procacciamento economico. Fu un tentativo che for-
mò oggetto di critiche e di lodi vivaci e su cui forse
non è giunto ancora il momento di dare un giudizio
definitivo. È certo però che l'A. portò nella sua ricerca
quello spirito di viva ed attenta osservazione e di acuta
comparazione dei fatti osservati, che furono le carat-
teristiche più notevoli del suo ingegno.
Nel Socialismo antico (1889) egli parve abbandonare
per un momento il metodo biologico e sociologico delle
Forme primitive per addentrarsi nello studio di taluni
fatti interessanti e quasi ignoti del mondo antico. An-
cora oggi dopo gli studi poderosi di altri indagatori,
quel volume insigne rimane l'unico nel quale sia con-
tenuto uno studio completo delle idee e degli speri-
menti socialisti nell'antichità. Perchè il Cognetti non si
limitò alla Grecia ed a Roma, ma, aiutato dalla sua
singolare cultura linguistica e filologica, seppe trarre
dalle leggende e dai libri sacri della Persia, dell'India
e della Cina materiali preziosi per gittare una luce vi-
vissima sulla storia del socialismo presso quei popoli.
La storia del socialismo lo attrasse un'altra volta
quando egli, alcuni anni dopo (1891), pubblicò, a guisa
di prefazione al volume di George « Progresso e Po-
14
verta », un lungo studio su « lì socialismo negli Stati
Uniti a1' America ». Anche in questo volume rifulgono
le sue doti di osservatore accurato ed acuto e la sua
attitudine a collocare le idee in giusto risalto nell'am-
biente storico in cui esse erano nate.
L'ultima opera di lunga lena, a cui il Cognetti pose
mano nell'ultimo decennio di sua vita, fu la direzione
della quarta serie della Biblioteca dell'Economista.
Egli volle attuare in questa serie il suo concetto di una
scienza economica basata sulla osservazione dei fatti
ed atta a servire di utile guida agli studiosi, agli uomini
di stato, ad industriali e commercianti nello studio delle
più urgenti questioni del giorno. Come già nella se-
conda serie il Ferrara avea raccolta una. serie imponente
di monografìe speciali intese a svolgere partitamente
le applicazioni della scienza esposta nei suoi principii
dalla prima serie, così il Cognetti volle nella quarta
serie raccogliere numerose monografìe sulle questioni
commerciali, doganali, operaie, monetarie, bancarie,
sui rapporti tra capitale e lavoro, sulle crisi ecc., che
valessero a dare un idea dei problemi principali della
vita economica contemporanea. Ed arricchì i volumi
da lui pubblicati con una introduzione generale su Le
variazioni nella vita economica e nella coltura econo-
mica e con prefazioni speciali su / due sistemi della
politica commerciale, la Struttura e vita del Commercio
e la Mano adopera del sistema economica, di cui l'ul-
tima rimase incompiuta. Voleva altresì por mano ad un
Dizionario di Economia Politica che sarebbe stata im-
presa utilissima ed originale per l'Italia. La morte pre-
matura non glie lo consentì; ma è fortuna che la con-
valescenza gli abbia permesso di porre termine ad un
— 15 —
altra sua opera che è bella testimonianza della sua
singolare e multiforme attività mentale : la traduzione
in versi martelliani di tutte le venti commedie di Plauto.
Perchè Salvatore Cognetti De Martiis amava allietare
le lunghe serate invernali con lo studio amoroso dei
poeti latini. Dalla lettura di Plauto egli trasse argomento
ad uno studio sulle Banche, i banchieri e gli usurai nelle
Commedie di Plauto, che fu pubblicato in questo gior-
nale nel 1891-92; e di tutte le commedie plautine ci
lascia una traduzione elegante ed adorna di numerose
note filologiche sul testo, che sarebbe a desiderarsi po-
tesse venire pubblicata a giovamento degli studiosi.
Ma l'opera principale dell'ultimo decennio di vita
di Salvatore Cognetti De Martiis e quella per cui noi,
che fummo suoi discepoli all'università e suoi compagni
di lavoro in seguito, ebbimo campo ad ammirare mag-
giormente la sua grandissima bontà d'animo, il suo
entusiasmo per le cose nobili e belle, il suo amore
impareggiabile per i giovani, fu il Laboratorio di Eco-
nomia politica.
Io ricordo ancora, come se fosse oggi, quella gior-
nata del novembre 1893 in cui il Professore racco-
gli e vai intorno a se una decina di giovani, — alcuni
laureati e la più parte studenti del 3. e del 4. anno
del corso di leggi, — in due modeste stanzette dell'an-
tico Laboratorio di Patologia del professore Bizzozzero.
In quelle due stanze vi erano un tavolo e poche sedie
date in prestito dal Rettore, uno scaffale a vetri regalato
dal Prof. Cora ed un mucchio di libri e di statistiche
che il Professore avea portato da casa sua a costituire
il primo nucleo della Biblioteca del Laboratorio. Il
Professore Cognetti ci spiegò quali fossero gli intenti
16
del nuovo istituto, lesse un abbozzo di statuto e ci co-
municò come egli avesse ottenuto, a titolo di incorag-
giamento, qualche piccola somma da alcuni soci pa-
troni e non ricordo più se cento e duecento lire di
sussidio annuo dal Consorzio Universitario.
La situazione non era brillante; ma la costante
fiducia nell'avvenire dimostrata dal Professore alimen-
tava l'ardore degli allievi. In quel primo inverno, sic-
come i quattrini mancavano, quando veniva il crepu-
scolo tutti eravamo costretti a sloggiare, e spesso per
difetto di combustibile non ci era permesso di tenere
accesa l'unica stufa che riscaldava le due stanze; di
guisa che alla mancanza di luce si aggiungeva non di
rado la mancanza di una temperatura » sufficiente.
I primi anni passarono così attraverso a difficoltà
gravissime che avrebbero fiaccata qualunque volontà
meno energica e meno risoluta di quella del Cognetti.
L'Istituto Giuridico avea bensì concesso in prestito pa-
recchie riviste e pubblicazioni periodiche attinenti alla
scienza economica; ma d'altra parte non giungevano
aiuti. Il professore avea bensì messo a contribuzione
tutti gli amici suoi, concedendo loro in cambio dei
sussidi ricevuti la qualità di soci patroni del Labora-
torio; ma questa fonte di entrate minacciava di inari-
dire, malgrado che egli fosse instancabile nel chiedere.
Il Ministero dell' Istruzione pubblica, a cui si era chiesto
un sussidio, rispondeva brutalmente che non poteva
dar nulla perchè si trattava di una istituzione inutile.
Nel frattempo gli oneri andavano continuamente
crescendo. Le due stanze erano cresciute a tre, poi a
quattro e finalmente a sei, oltre ad una grande aula per
le lezioni. Le pubblicazioni ufficiali, italiane e sitar
!7
mere, chieste ed ottenute in dono con una corrispon-
denza attivissima crescevano senza tregua e richiede-
vano sempre nuovi scaffali; gli allievi aumentavano di
numero perchè agli antichi fedeli si aggiungevano
sempre nuovi studenti che nel materiale di studio rac-
colti nel Laboratorio trovavano i mezzi per scrivere le
tesi di laurea con agevolezze altrove non raggiungibili.
Agli studenti dell'Università si aggiungevano quelli del
Museo industriale, ai quali venivano affidate special-
mente le illustrazioni grafiche delle statistiche più sva-
riate, di cui alcune ottennero meritato premio alla
esposizione di Torino del 1898.
Il professore Cognetti, instancabile, chiedeva sem-
pre, ed alle ripulse rispondeva con nuove richieste. Un
pò per volta il successo arrise alla pertinace iniziativa.
11 Consorzio universitario crebbe il suo sussidio da 200
a 500 lire, la Camera di Commercio diede prima 200
e poi 500 lire all'anno. Il Ministero dell'Istruzione, die-
tro proposta del compianto rettore Nani, concesse
altresì un sussidio annuo di lire 500 e si assunse l'onere
dello stipendio da assegnarsi ad un custode, divenuto
oramai necessario a mantenere in ordine una così ricca
suppellettile scientifica. Il Ministero dell' Agricoltura,
Industria e Commercio, incoraggiato dall'on. Frola,
presidente del Museo industriale e benemerito estima-
tore di tutte le iniziative feconde, diede pure esso 500
lire e si assunse il pagamento dello stipendio ad un
assistente. Cosicché negli ultimissimi anni il Laboratorio
di Economia Politica aveva ottenuto uno stabile assetto,
confermato finalmente dal decreto reale che nell'anno
corrente lo riconosceva ufficialmente come istituto
3 -
scientifico universitario annesso contemporaneamente
all'Università ed al Museo Industriale di Torino.
Un augurio ci sia permesso di fare ed è che l'istituto
fondato dal Cognetti sia mantenuto non solo, ma fatto
prosperare da chi terrà la cattedra economica nell'A-
teneo torinese. Esso può dare in futuro risultati scien-
tifici più larghi ancora che del passato, perchè non
sarà più necessario quel dispendio di energie e di
tempo, che il suo fondatore dovette impiegare per
sostenerlo e dargli incremento, durante la lunga serie
degli anni in cui ogni giorno sembrava imminente la
rovina a tutti fuorché a lui, che conservava sempre
intatta la fede nel. trionfo finale della istituzione da lui
tanto amata.
Egli la seppe fare amare anche dagli altri, dai com-
pagni di lavoro (come amava chiamarli) che ebbe
numerosi durante l'ultimo decennio; e vi riuscì perchè
il Laboratorio non era ne una biblioteca ne una setta.
Non era una biblioteca perchè i libri erano accessibili
a tutti ed a renderli ancora più utili giovava la cortesia
del direttore, sempre pronto a fornire indicazioni pre
ziose sui modi di trovare ciò che da mani spesso ine-
sperte si sarebbe cercato invano. Non era una setta,
perchè il direttore non imponeva le sue idee a nessuno,
lasciando liberi tutti di abbracciare le dottrine che a
ciascuno più talentavano.
lo ricordo le adunanze domenicali, in cui si legge-
vano e si discutevano i lavori compiuti nel Laboratorio.
Vi intervenivano giovani, di cui tutti nutrivano, con
maggiore o minore ardore, una qualche fede scientifica
o pratica.
Erano liberisti che sarebbero stati seccati ove si
— 19 —
fosse imposto un credo protezionista, che pur da altri
era difeso; erano socialisti democratici i quali deside-
ravano liberamente esporre i loro concetti; erano dei
socialisti cattolici, che si sarebbero sentiti a disagio in
un ambiente ostile. Eppure tutti convivevano e discu-
tevano fraternamente sotto la guida del direttore, il
quale astringeva i frequentatori del Laboratorio a due
soli obblighi : usare cortesia di forma nel dibattito ed
esporre argomentazioni serie, tratte da uno studio accu-
rato del problema discusso. Egli poi riassumeva la di-
scussione in fine con una imparzialità, che poteva sem-
brare indifferenza da presidente di corte d'Assise, ed
era invece dettata dall'amore alla istituzione sua. Di
tale carattere di neutralità del Laboratorio egli ave a
voluto rendere testimonianza palese, facendo dipingere
nelle lunette delle varie sale i ritratti di Aristotile, Vico,
Adamo Smith, Marx, Schultz e Delitsch, Mons. Ket-
teler, Cobden, Hamilton, Cavour ecc. ossia di uomini
appartenenti alle più varie gradazioni del pensiero
scientifico.
Forse da alcuni si potrà criticare codesta imparzia-
lità verso le scuole più opposte per il motivo che lo
scienziato deve insegnare la verità, che è una sola, e
combattere l'errore. Il che è vero nei libri e nella cat-
tedra, dove chi scrive o parla ha il dovere di esporre
e difendere con convinzione le idee da lui ritenute
giuste. Ma sarebbe stato pericoloso per la vita di un
istituto come il Laboratorio, il quale deve fornire i ma-
teriali di studio a persone, molte delle quali hanno già,
a torto od a ragione, un proprio modo di vedere che
può essere diverso da quello degli altri e del direttore
medesimo. Se il Cognetti avesse voluto far trionfare,
— 20 —
ad esempio, il suo metodo biologico o sociologico nello
studio della scienza economica, forse il suo istituto
sarebbe stato disertato da quelli che in quelle applica-
zioni della biologia e della sociologia non credevano.
È in grazia del suo singolare desiderio di arrecare
giovamento a tutti anche a quelli di cui non divideva
il pensiero, che, come egli era grandemente rispettato
dagli avversarii della politica conservatrice da lui ga-
gliardamente difesa sulla Gazzetta di Mantova, così
ora lo segue nella tomba il memore e riconoscente
affetto di coloro che lo videro, nel Laboratorio di Eco-
nomia politica, largo di sussidii scientifici, e di aiuto
affettuoso nei primi ardui passi delle carriere scienti-
fiche e liberali a tutti i suoi allievi, senza distinzione
alcuna di convinzioni politiche e scientifiche.
(Torino, 30 giugno 1901, Estratto dal Giornale
degli Economisti, Luglio 1901).
BIBLIOGRAFIA (1)
Delle attinenze fra l'economìa sociale e la storia. (Firenze, 1865).
La scienza economica nella educazione civile. (Bari, 1867).
L'economia pubblica è l'istruzione popolare. (Bari, 1R68V
Gli studi economici in Italia. (Bari, 1869).
L'economia sociale e la famiglia. (Milano, i86q).
Conferenza sul lavoro, sul risparmio e sulla previdenza. (Man-
tova. 16 giugno 1870).
Abramo Lincoln. (Mantova, 1871).
L'operaio ai tempi di Dante ed ai tempi nostri, discorso. (Man-
tova, 30 luglio 1871).
Vi è una questione sociale? (Mantova, 1872).
\ fatti della rivoluzione napoletana del 1820. (Mantova. 1872V
(1) La presente bibliografia fu compilata dall'ing. E. Magrini,
assistente del Laboratorio di Economia Politica di Torino.
— 21
il riordinamento della circolazione cartacea durante il corso for-
zoso, lettere al conte G. Arrivabene. (Mantova, 1873).
Una teorica economica della espropriazione forzata, lettera al
prof. A. Errerà. (Mantova, 1874).
La circolazione della ricchezza negli Stati Uniti. (Torino, 1874).
Biblioteca dell' Economista, serie IV.
Economisti italiani contemporanei, Giovanni Arrivabene, Gior-
nale degli Economisti, luglio e agosto 1875 (Padova).
Bibliografia su « The Money Problem » by Amasa Walker (Inter-
national publication Office, New- York, 1875), Giornale degli Econo-,
misti, luglio 1875.
Economisti italiani contemporanei, Enrico Cernuschi, Giornale
degli Economisti, luglio e agosto 1876 (Padovaj.
Gli Stati Uniti d'America nel 1876, giornale La Perseveranza,
(Milano, 1877).
La rinnovazione dei trattati di commercio — La questione mot
netaria. — Studi. (Mantova, 1877).
Forme e leggi delle perturbazioni economiche, Giornale degli
Economisti. (Padova, marzo 1878).
Il nuovo patto dell'unione monetaria latina. (Torino, 1879).
Le forme primitive nella evoluzione economica. (Torino, 1881)
Commemorazione del conte G. Arrivabene tenuta il 15 gennaio
1882 all'Accademia Virgiliana — Atti e memorie della R. Accade?
mia Virgiliana. (Mantova, 1882).
Commemorazione di Giovanni Lanza. (Torino, 1882).
Commemorazione di Vittorio Emanuele 11. (Torino, 1883).
L'Esposizione di Zurigo — Nuova Antologia. (Roma, 1883).
Cenno storico sull'industria italiana, Enciclopedia delle arti e
industrie. (Torino, 1875).
L'economia come scienza autonoma, Giornale degli Economisti,
1886, pag. 166. (Torino, 1886).
Un'apologia socialistica del libero scambio, Rivista scientifico^
letteraria di Milano. (Milano, 1887).
Il carattere della scienza economica secondo il sig. Macleod,
Giornale degli Economisti, 1887, pag. 122 (LJologna).
I prigionieri di guerra (Captivi) di M. Plauto, traduzione in
versi martelliani. (Trani, 1881).
II fondamento storico di una leggenda italica, Memorie della
R. Accademia delle Scienze, serie II, tomo XXXVIII. (Torino, 1888).
Un socialista cinese del V secolo av. C. (Mih-Teih), Memorie
della R. Accademia dei Lincei, voi. Ili, parte ia. (Roma, 1888).
La politica economica italiana a proposito di una recente pub-
blicazione, Nuova Antologia. (Roma, 16 marzo 1888).
— 22
L'istituto Pitagorico, Memòrie della R, Accademia delle Scienze,
tomo XXIV. (Torino, 1889).
Socialismo antico, indagini. (Torino, Bocca, 1800).
Il militare fanfarone di Plauto, versione metrica. (Torino, 1890).
Tito Maccio Plauto, commedie, versione metrica con prefazione
di G. Carducci, voi. I. (Torino, 1891).
Il socialismo negli Stati Uniti d'America, studio, Biblioteca
dell'Economista, serie III, voi. IX. (Torino, 1891).
Banche, banchieri ed usurai nelle commedie di Plauto, Giornale
degli Economisti, ottobre 1881, pag. 287-309 e dicembre 1892, pa-
gina .^39-574-
Il sistema di mercede a scala mobile nella inchiesta inglese sul
lavoro, Atti della R. Accademia delle Scienze. (Torino, dicembre 1802V
Tracce probabili d'una leggenda Indo-Europea nel « Rudens » di
Plauto, Atti della R. Accademia delle Scienze, voi. XXVTTT, 11 di-
cembre 1892.
Le più recenti indagini statistiche negli scioperi, Memorie della
R. Accademia delle Scienze. (Torino, maggio e giugno 1893, serie
III, voi. XLIV).
Francesco Ferrara all'Università di Torino, Giornale degli Eco-
nomisti. (Bologna, dicembre 18Q3, pag. 521).
La Gomena, «Rudens», di Tito Maccio Plauto, versione me-
trica. (Torino, 1894.
Le variazioni nella vita economica e nella coltura economica,
introduzione generale alla quarta serie della Biblioteca dell'Econo-
mista. (Torino, 1894).
Una obbligazione bancaria per la IV Crociata, Atti della R. Ac-
cademia delle Scienze, voi. XXX. (Torino, 1895).
Relazione sulla memoria del dott. Pasquale Tannacone « La re-
centi-- inchiesta inglese sul lavoro», Atti della R. Accademia delle
Scienze di Torino, voi. XXX, 24 febbraio 1895.
I due sistemi della politica commerciale, parte 2a, Biblioteca
dell'Economista, serie IV, voi. T. (Torino, 1896).
Commemorazione pei caduti d'Africa. (Torino, 1896).
I due sistemi della politica commerciale, parte ia e 3a, Biblio-
teca dell'Economista, serie IV, voi. I, parte 2a. (Torino, 1895).
Prefazione all'opera di Livio Cibrario « Il sentimento della vita
economica nella Divina Commedia». (Torino, 1898).
Domenico Berti, Annuario del R. Museo Industriale Italiano.
(Torino, 1897).
Struttura e vita del commercio, Biblioteca dell'Economista, se-
rie IV. volume II, parte ia. (Torino, 1898).
La mano d'opera nel sistema economico (incompleto), Biblioteca
dell'Economista, serie IV, voi. V, parte 2a. (Torino, 1899).
LA CRISI SCOLASTICA
E LA SUPERSTIZIONE DEGLI ORARI LUNGHI
Nelle discussioni che sul problema dell'insegna-
mento e dei professori secondarli si stanno facendo in
giornali e in congressi non ho veduto abbastanza trat-
tato un punto che mi sembra capitalissimo e che po-
trebbe illuminare assai la soluzione da darsi al proble-
ma. Debbo premettere che, sebbene l'argomentazione
possa avere un certo sapore professionale, sebbene cioè
possa credersi che chi scrive non si sia saputo sottrarre
alle sue abitudini mentali di studioso di scienze econo-
miche, in realtà è l'esperienza viva della scuola che
mi fa credere di essere nel vero. Ho insegnato per pa-
recchi anni nelle scuole secondane; e ritengo che l'in-
segnamento ai giovani di meno di 17-18 anni sia non
meno utile agli insegnanti che agli studenti; io almeno,
vi ho imparato parecchie cose, che in seguito mi sono
state giovevoli.
Fra l'altro mi sono convinto che nelle scuole secon-
darie si fa un abuso enorme di orario. Certamente è
opportuno che i giovani siano legati ad una disciplina
oraria maggiore che nelle scuole superiori, non essendo
ancora sufficientemente maturo il loro giudizio ed es-
sendo le loro volontà facili ad essere sviate dalle male
compagnie, dal piacere dell'aria libera e delle belle
passeggiate nei giorni di sole; ma da questa constata-
i-\
zione agli orarli asfissianti delle nostre scuole secondarie
ci corre. Tre ore nei ginnasi e nelle scuole tecniche,
quattro ore nei licei e negli istituti dovrebbero essere il
massimo dell'orario giornaliero per tutt'al più cinque
giorni della settimana; il giovedì dovrebbe essere libero
de! tutto o al più occupato al mattino; e in questo caso
dovrebbero aversi almeno due pomeriggi liberi. Una
delle maggiori e più pestifere superstizioni delle scuole
italiane è la lunghezza dell'orario. Più gli scolari sono
costretti a rimanere nelle aule scolastiche e meno pro-
fittano. Chi non sa che, al mattino, la terza ora di inse-
gnamento è inservibile? che l'insegnante vede occhi
stanchi, gambe e braccia irrequiete, disattenzione ge-
nerale? Peggio nelle ore pomeridiane. Vi sono degli
Istituti tecnici dove, in certe classi, si va dalle due alle
cinque e magari alle sei, attraverso un caleidoscopio
di insegnanti, i quali si succedono dinanzi ad una sco-
laresca sempre più disattenta ed irrequieta. La scuola
educativa, sana, fortificante dovrebbe tenersi solo al
mattino; tre ore con qualche intervallo di riposo; nel
qua! caso anche la terza ora potrebbe essere profitte-
vole. Il pomeriggio dovrebbe essere dedicato dai gio-
vani ai compiti, allo studio indipendente, in parte agli
esercizi fisici ed alle passeggiate.
Dicono i fautori degli orari lunghi : i giovani, se non
si fanno studiare in classe, non fanno niente. Falsissima
asserzione per i giovani valenti e studiosi, a cui viene
imposta una tortura inutile; e falsa eziandio per i me-
diocri e gli infingardi, la cui occupazione nella scuola
non è di studiare ma di ingannare il tempo rimanendo
passivi ascoltatori di cose a cui non si interessano. Se
l'orario lungo riuscisse a far lavorare i mediocri cella
— 25 —
testa, potrebbe ancora essere spiegato; ma poiché esso
serve solo a farli star tranquilli col corpo ed a lavorare,
forse, materialmente, colla mano intenta a scrivere, la
sua efficacia educativa è nulla.
Aggiungono ancora : con gli orari brevi, con tre o
quattro ore al giorno di lezione come si possono esau-
rire i programmi? Altra superstizione quella dei pro-
grammi; e forse più pestifera di quella degli orari
lunghi. Il a programma » è figlio di una concezione
profondamente sbagliata di ciò che debba essere la
scuola media. Purtroppo è la concezione dominante
nella massa dei genitori, i quali si illudono stravagan-
temente in tal modo di giovare ai loro figli. Credono
infatti i genitori che la scuola media debba insegnare
delle cose praticamente utili ai loro figli, che dalla
scuola i loro figli debbano uscire atti ad esercitare una
professione, un'arte, un negozio, un mestiere. Questa
sciagurata persuasione dei genitori è la causa per cui
1 ragazzi non imparano nulla e per cui la scuola si riduce
ad una fabbrica di diplomi senza valore intrinseco. Se
la scuola infatti deve servire a qualcosa di utile perchè
non insegna ai giovani tutto lo scibile umano? perchè
oltre alFitaliano, alla storia, al latino, alle matematiche,
alla fisica, alla chimica, alla storia naturale non si
aggiungono due o tre lingue viventi, il disegno, l'eco-
nomia, il diritto, il far di conti, la ragioneria; perchè
non si abolisce la filosofia che non serve a nulla, il
greco, che nessuno impara? Perchè, sovra tutto, i pro-
grammi di ognuna delle materie non si stendono a mano
a mano, in guisa da abbracciare la massima quantità
di nozioni utili? Se è utile conoscere i primi principii,
è anche utile conoscere le applicazioni; anzi, quante
26
più se ne conoscono, tanto più si sarà agguerriti per la
lotta per la vita. Messici su questa via, dobbiamo per-
correrla fino in fondo. Ogni professore diventa il rap-
presentante ed il difensore di una disciplina, che egli
vorrebbe tutta insegnare ai suoi giovani, disciplina di
cui l'utilità è incontestabile, del cui insegnamento
monco si deplorano gli inconvenienti nella pratica, nei
concorsi alle carriere. Ognuno opina che il proprio ora-
rio è insufficiente; che le tre ore settimanali dedicate
ad una materia non bastano, ma sono necessarie le
quattro, le cinque, magari le dieci.
Come non vedere che tutto ciò è grottesco? Che in
tal modo si falsa compiutamente il carattere della
scuola? La quale non deve essere un luogo dove si
vanno ad apprendere delle nozioni. Per ciò bastano
i libri per i giovani valenti, le enciclopedie per i fretto-
losi, i ripetitori per gli infingardi. Non c'è nessuna ne-
cessità che lo Stato spenda diecine di milioni per sti-
pendiare migliaia di professori, allo scopo di ottenere
ciò che meglio si otterrebbe mettendo un fonografo in
ogni classe con un bidello per imporre silenzio. Ne si
creda che, con fonografi o con professori, la scuola
possa riuscire ad insegnare ai giovani la professione
od il mestiere a cui aspirano. La scuola non è fatta per
ciò. In nessun paese del mondo e in nessuna epoca gli
uomini hanno imparato nelle scuole medie il modo di
far denari, di esercitare un'arte od una professione. I
genitori che pretendono ciò, vogliono l'assurdo. Le
professioni si imparano esercitandole. Non c'è altra
via. Il compito della scuola è tutto diverso : formare
l'intelletto ed il carattere del giovane, in guisa che
possa orizzontarsi in seguito nella vita ed affrontare e
— 11 —
superare le difficoltà che gli si pareranno incontro. Per
ciò gli si insegnano, ad esempio, le matematiche; non
perchè sappia risolvere quei problemi matematici che
nella vita sua di commerciante, banchiere, agente di
cambio, industriale, impiegato, ingegnere, geometra,
agrimensore gli capiterà di dovere esaminare. A ciò
gli basteranno i prontuarii, le formole fatte, che gli
saranno assai più comode delle regole teoriche. Tutta-
via le matematiche gli sono utilissime a scuola, perchè
servono a farlo ragionare, perchè costringono la sua
mente a fare un certo lavorio di paragone, di analisi,
a vedere la correlazione tra quantità e concetti diversi.
Così dicasi del latino, così di qualunque altra scienza,
anche l'economia, che negli Istituti tecnici si insegna.
ìì Satino non viene insegnato perchè si impari a parlare
o scrivere una lingua morta; cosa che sarebbe perfet-
tamente inutile. Ma si insegna per abituare l'intelletto
a ben pensare, a costruire logicamente un periodo. È
un esercizio logico anche l'economia. Se si volessero
insegnare quelle nozioni economiche che i genitori
possono immaginare siano « utili » non basterebbero
tre anni e 10 ore la settimana; e sarebbe fatica sprecata;
perchè non v'è necessità di imparare a memoria tutti
gli istituti ed i fatti economici, bastando, all'uopo,
sapere che ci sono dizionari e trattati e riviste dove
quelle nozioni sono scritte. L'insegnante deve insegnare
a ragionare, a vedere dentro ai fatti economici la par-
venza esterna e la realtà vera, deve far vedere come
nove su dieci dei ragionamenti economici correnti nei
giornali, nei discorsi famigliari, nei comizi, nei parla-
menti sono dei sofismi, deve addestrare là mente a
scoprire la verità tra mezzo ai molti errori. Formare la
16
mente ed anche il carattere del giovane; ecco lo scopo
della scuola media. A raggiungere il quale non sono ne-
cessarii ne i lunghi orari i, ne le prediche interminabili»
né i programmi minutissimi. Tanto meglio anzi se il
programma si limiterà alla semplice indicazione della
materia da insegnare. L'insegnante valoroso sarà più
libero nel dare ai giovani le nozioni che egli riterrà più
atte ad interessarlo, a risvegliare ed esercitare la sua
intelligenza, a renderla capace di risolvere problemi e
superare difficoltà.
Che ha da far tutto ciò con le questioni proprie dei
professori? Molto più che non sembri a primo aspetto.
Perchè invero c'è crisi nell'insegnamento seconda-
rio? Perchè i professori sono mal pagati e non se ne
trovano più abbastanza e solo gli scarti della gioventù
universitaria, si dedicano ad una professione così mal
remunerata. E sono mal pagati, perchè, essendo mol-
tissimi e crescendone sempre il fabbisogno, la spesa
totale aumenta benché gli stipendi unitari siano bassi.
Facendo un esempio schematico, dato che in un paese
ci siano 100.000 studenti divisi in 2500 classi, a 40 per
classe, numero eccessivo didatticamente, ma che tal-
volta viene superato, due vie si possono tenere : o il
sistema degli orarii lunghi, delle molte materie e dei
programmi particolareggiati; od il sistema degli orarii
brevi, delle poche discipline e dei programmi ridotti
al titolo della materia. L'uno può dirsi il metodo della
forma, l'altro della sostanza, il primo della esteriorità
infeconda, del funzionarismo, il secondo della scuola
viva ed educatrice. Io dico che il secondo sistema con-
sente assai meglio di risolvere il problema dei profes-
sovi. Supponiamo infatti che lo Stato non possa impo-
— 29 —
stare in bilancio più di 10 milioni di lire per la scuola
media, di cui si tratta. È possibile spenderle in due
maniere, che si potrebbero ridurre in cifre come segue :
Orari lunghi Orari brevi
Numero studenti 100.000 100.000
Studenti per classe 40 40
Numero delle classi 2.500 2.500
Numero medio delle ore settima-
nali di lezione per ogni classe 26 16
Numero totale delle ore settimanali
di lezione per tutte le classi . 65.000 40.000
Numero medio delle ore settima-
nali dì lezione per ogni pro-
fessore 20 16
Numero dei professori necessari . 3-250 2.500
Stipendio medio L. 3-076 4.000
Soesa totale per lo Stato L. 10.000.000 10.000.000
Naturalmente questo è un puro schema grezzo, che
nella realtà dovrebbe adattarsi alle infinite esigenze
della scuola; ma giova a mettere in chiaro come, con
la stessa spesa, sia possibile : 1) pagare 1000 lire circa
di più di stipendio ali* anno ad ogni professore e quindi
farli star più contenti; 2) diminuire il numero delle loro
ore settimanali di lezione da 20 a 16; 3) ridurre il fabbi-
sogno di professori da 3250 a 2500, rendendone più
facile e nello stesso tempo più rigoroso il reclutamento;
4) diminuire da 26 a 16 le ore di insegnamento settima-
nale per gli studenti.
Sui vantaggi del quale ultimo risultato ho già detto
abbastanza; ma son vantaggi che crescono a mille doppi
quando alla diminuzione degli orarii per gli studenti si
accompagni la diminuzione delle ore di lezione per i
professori. Questi sono diventati, cogli stipendi bassi
— 30 —
e colla necessità di guadagnar da vivere, delle mac-
chine per vender fiato. Da ventanni a questa parte le
ore di fiato messe sul mercato dai professori secondarli
sono andate spaventosamente aumentando. Specie
nelle grandi città, dalle 10 a 12 ore settimanali, che
erano i massimi di un tempo, si è giunti, a furia di orari
normali prolungati e di classi aggiunte, alle 15, alle 20,
alle 25 e anche alle 30 e più ore per settimana. Tutto
ciò può sembrare ragionevole solo ai burocrati che
passano 7 od 8 ore del giorno all'ufficio, seduti ad emar-
ginare pratiche. A costoro può sembrare che i professori
con le loro 20-30 ore di lezione per settimana e colle
vacanze, lunghe e brevi, siano dei perditempo. Chi
guarda invece alla realtà dei risultati intellettuali e mo-
rali della scuola deve riconoscere che nessuna jattura
può essere più grande di questa. La merce « fiato »
perde in qualità tutto ciò che guadagna ini quantità. Chi
ha vissuto nella scuola sa che non si può vendere im-
punemente fiato per 20 ore alla settimana, tanto meno
per 30 ore. La scuola, a volerla fare sul serio, con in-
tenti educativi, logora. Appena si supera un certo se-
gno, è inevitabile che l'insegnante cerchi di perdere il
tempo, pur di far passare le ore. Buona parte dell'ora-
rio viene perduto in minuti di attesa e di uscita, in ap-
pelli, in interrogazioni stracche, in compiti da farsi in
scuola, ecc., ecc. Nasce una complicità dolorosa ma
fatale tra insegnanti e scolari a far passare il tempo,
pur di far l'orario prescritto dai regolamenti e di esau-
rire quelle cose senza senso che sono i programmi. La
scuola diventa un locale, dove sta seduto un uomo in-
caricato di tenere a bada per tante ore al giorno i ra-
— 31 —
gazzi dai IO ai 18 anni di età ed un ufficio il quale ri-
lascia alla fine del corso dei diplomi stampati. Scolari
svogliati, genitori irritati di dover pagare le tasse, in-
segnanti malcontenti; ecco il quadro della scuola se-
condaria d'oggi in Italia. Non dico che la colpa di tutto
ciò siano gli orari lunghi; ma certo gli orari lunghi sono
l'esponente e nello stesso tempo un'aggravante di tutta
una falsa concezione della missione della scuola media
(Dal Corriere della Sera, 21 aprile 1913).
SCUOLA EDUCATIVA
O SCUOLA CALEIDOSCOPIO?
(A proposito del disegno di legge Credaro)
Chi legge la relazione che Fon. Credaro ha premesso
'.segno di legge da lui proposto per le scuole medie
deve riconoscere che egli — oltre essere mosso dal ge-
neroso proposito di elevare le sorti materiali e morali
degli insegnanti — ha visto nitidamente la ragione fon-
damentale dei mali che affliggono oggi l'istruzione se-
condaria. A più riprese sono messi a contrapposto il
ginnasio, la ottima fra le scuole italiane, come quella
in cui v'è unità di indirizzo, con un professore unico che
accompagna i ragazzi attraverso le prime tre classi, li
segue nel loro sviluppo intellettuale e morale, e li con-
segna al professore delle due ultime classi, il quale ne
prosegue l'opera, in cui gli scolari sentono di avere
sopra di se un educatore, sussidiato da taluni insegnanti
di materie speciali come la matematica, la storia natu-
rale, il francese e non una variopinta teoria di profes-
sori di cose diverse, succ edentisi ad intervalli di ore a
cacciare nella testa degli ascoltanti le nozioni prescritte
dai programma — e gli altri istituti, dai licei agli isti-
ed alle scuole tecniche, « vere caserme », come ef-
: emente osserva Fon. Credaro, « attraverso le quali
un * enorme e confusa massa di scolari passa ogni anno
— 34 —
davanti a trenta, a quaranta, a cinquanta ed anche più
insegnanti, avendo quasi appena il tempo di farsi ri-
conoscere, quasi mai quello di farsi ricordare e di ri-
cordare; scuole, cui di necessità viene a mancare lo
strumento più efficace per una vera educazione morale
ed intellettuale, il contatto, cioè, continuo e personale
fra maestro ed alunno nell'atto in cui l'anima ed il pen-
siero si formano; scuole che si reggono piuttosto colla
disciplina esteriore che con quella derivata da un'azione
educatrice diretta di chi insegna su chi impara ».
Le quali ottime osservazioni mettono in chiaro la
differenza profonda fra ciò che dovrebbe essere la scuo-
la educatrice, come è in parte ancora il ginnasio, e
la scuola-caleidoscopio, come sono i licei e sovratutto
le scuole tecniche e gli istituti tecnici.
Nella scuola vera i giovani dovrebbero essere edu-
cati da un professore che si potrebbe chiamare « forma-
tivo », simile a quello che nel ginnasio è il professore
unico di italiano, latino, e storia e geografia, con cui
dovrebbero acquistare dimestichezza morale ed intel-
lettuale, ed il quale dovrebbe imparare a conoscere in-
timamente ognuno dei suoi scolari accompagnandoli
per tutto un periodo del corso dei loro studi, ginnasio
inferiore, superiore, scuola tecnica, istituto tecnico in-
feriore, superiore. In queste scuole gli scolari dovreb-
bero essere pochi, non più di venti; e gli orari dovreb-
bero esser brevi, non più di 12-15 ore la settimana pel
professore « formativo » della classe; con l'aggiunta, al
più, di 6-3 ore per gli insegnamenti particolari che il
professore « letterario » non può impartire; e che è op-
portuno siano forniti da insegnanti specializzati.. Natu-
ralmente il tipo della scuola con insegnante unico do-
— 35 —
vrebbe essere strettamente attuato nel ginnasio e nella
scuola tecnica, mentre per le scuole superiori sembra
opportuno far luogo ad una maggiore specializzazione
di insegnamenti, a mano a mano che il ragazzo si muta
in giovane e diviene meglio capace di lavorare da se
colla mente, che fu già addestrata nelle scuole infe-
riori.
Il progetto Credaro tende ad attuare questo concetto
della scuola che il proponente in passato ha difeso ed
oggi ancora difende ed esalta? È ragionevole il dubbio.
La scuola resterà, così come è, un caleidoscopio e v*è
gran pericolo che il male ognor più si aggravi per virtù
delle norme che il disegno di legge vuole attuare.
Infatti :
— nessun rimedio è portato alla lunghezza eccessiva
degli orari, che vanno da 21 a 25 ore settimanali nei
ginnasi, da 24 a 25 nel liceo, da 24 1/2 a 31 per le scuole
tecniche, da 29 a 31 nella sezione fisico-matematica de-
gli istituti tecnici, da 31 a 33 nelle sezioni di agrimen-
sura e di ragioneria, da 25 a 30 per la sezione di agro-
nomia. Sono orari incredibili, asfissianti, che non par-
rebbero veri, se non ne facessero fede le tabelle an-
nesse ai regolamenti. Come è possibile che la scuola
dia qualche frutto, quando per 5-6 e talvolta 7 ore al
giorno gli studenti si vedono passare dinnanzi agli oc-
chi, uno dopo l'altro, tre o quattro o forse più profes-
sori diversi, ognuno dei quali frettolosamente vende
una fetta di scienza, che non ha nulla a che fare con
la fetta che fu distribuita l'ora precedente, che forse
contraddice a ciò che fu detto prima? Dannoso nelle
scuole medie superiori, infecondo nelle università, il
metodo di propinare nozioni disparate ad ore è sopra
36
tutto contrario ad ogni sana norma educativa per i ra-
gazzi di 11-13 anni delle scuole tecniche ed è forse il
motivo principale per cui queste scuole, affollatissime,
perchè rispondenti ad un vero bisogno della borghesia
minuta e delle classi operaie, danno frutti di tanto in-
feriori ai ginnasi.
L'orario lungo ed il caleidoscopio dei professori con-
vertono la scuola in una caserma, come ben dice il mi-
nistro, il cui unico scopo è quello di tener fermi per un
certo numero di ore al giorno i ragazzi, irrequieti, e di
rilasciare alla fine dell'anno un diploma, il quale non
giova neppure più a persuadere il pubblico che il di-
plomato abbia a scuola imparato qualcosa.
— al malanno degli orari lunghi obbligatori per gli
scolari, che il disegno di legge non toglie, questo ag-
giunge il malanno degli orari lunghi obbligatori per i
professori. È certo che la grande maggioranza dei pro-
fessori oggi invocava e desiderava gli orari lunghi e,
quando poteva, giungeva alle 24 ed anche alle 28 ore
settimanali : ed è certo che oggi infierisce, male ancor
più deleterio, l'uso delle ripetizioni, poco decoroso per
gli insegnanti e la cui utilità per gli studenti dipende
soltanto dal fatto che, con scolaresche di 40 alunni,
l'insegnante non può interessarsi di ognuno dei giovani,
studiarne singolarmente la capacità intellettuale, aiutare
in special modo i volonterosi ma timidi o lenti ad ap-
prendere e stimolare gli infingardi. Gli orari lunghi, le
scolaresche numerose ed il caleidoscopio degli inse-
gnanti sono le cause per cui la più gran parte degli
scolari trae scarso profitto dalla scuola e sono le cause
per cui gli orari diventano ancor più lunghi, per scolari
ed insegnanti, con le ripetizioni fornite a casa.
— 37 —
Il rimedio, oltre quelli già indicati, ed oltre all'au-
mento degli stipendi, a cui il ministro ha provveduto in
misura che sembra decorosa, dato il livello medio della
ricchezza italiana, doveva consistere nella proibizione
ai professori di impartire più di un massimo di ore di
lezione. A me sembra che 18 ore di lezione alla set-
timana sia il massimo che possa fare un insegnante, il
quale voglia far scuola sul serio, e quindi prepararsi
alla lezione e correggere i compiti coscienziosamente ed
attendere ai gabinetti di fìsica o chimica; il quale, sopra
tutto, voglia studiare. Se il legislatore voleva davvero
provvedere al bene della scuola doveva aumentare gli
stipendi, come fece; ma insieme vietare in modo asso-
luto agli insegnanti di far lezione oltre le 18 ore setti-
manali in istituti sì pubblici che privati; non solo, ma
doveva proibire assolutamente di dare ripetizioni pri-
vate a scolari proprii od altrui. Meglio costringere al-
l'ozio assoluto l'insegnante protervo nel non voler pren-
dere un libro in mano, che costringerlo o permettergli
di sfibrarsi in un lavoro di vociferazione, che può essere
giudicato leggero solo da chi non ha l'abitudine dell'in-
segnamento. Aggiungo anzi*che la legge avrebbe do-
vuto contenere sanzioni severe per quegli insegnanti
che violassero il divieto di dar lezioni o ripetizioni
oltre le 18 ore settimanali. Meg?'~ l'ozio, meglio l'e-
sercizio di una professione accessoria, che un lavoro,
il quale talvolta sminuisce nella estimazione degli sco-
lari e delle famiglie, e che, nell'ipotesi migliore, pro-
duce scadimento nella qualità delle lezioni componenti
l'orario normale.
Il disegno di legge dell'on. Credaro va contro a que-
sti postulati da lui medesimo ancor oggi propugnati ed
36
alle esigenze della scuola educativa, quando, invece di
vietare il prolungamento dell'orario e di porre un ter-
mine al danno delle ripetizioni private, di queste non
parla, e rende obbligatorio il prolungamento dell'orario
in tutti i casi fino alle 18, 21 e 24 ore ed, a volontà del
ministero, anche fino alle 24 e 25 ore. Esiger© un mi-
nimo di lavoro in relazione agli stipendi cresciuti, è
cosa ragionevole; ma sembra dannoso rendere obbliga-
torio un prolungamento, finora volontario, i cui risul-
tati tutti riconoscevano dannosi alla scuola. Adesso vi
era nelle scuole secondarie ancor taluno il quale rinun-
ciava alle ore aggiunte pur di aver tempo libero allo
studio ed al cosidetto ozio intellettuale, fecondissima
tra tutte le maniere di ozio. V'era ancora qualche spi-
rito bizzarro che rinunciava alle 150 lire all'ora pur di
aver l'orario breve ed essere in grado di fare bene le
12 o le 13 ore settimanali. Domani non più: tutti siano
obbligati a far ciò che oggi molti purtroppo facevano
per arrotondare lo stipendio : trascorrere in classe 24
ore settimanali, col minimo sforzo possibile.
Per arrivare alle 24 o 28 ore volontarie i professori
delle grandi città usano oggi insistere per avere ore ag-
giunte nello stesso istituto od in istituti diversi, dando
così origine al guaio delle classi aggiunte, a ragione
deplorate dal ministro con parole vivaci, come quelle
che accrescono i cattivi effetti del caleidoscopio, distri-
buendo gli insegnamenti a fette, tra gli insegnanti spinti
dal bisognò economico a completare l'orario massimo
consentito dalla legge con ore spicciole fornite a due
o tre classi di istituti diversi. Domani, quello che oggi
è un malanno particolare delle grandi città, diverrà una
sciagura obbligatoria anche per i piccoli centri. Il prò-
— 39 —
fessore che nel liceo ha possibilità di fare solo 12 o
13 ore della sua disciplina, dovrà andare a completare
l'orario fino alle 18 ore e potrà essere obbligato a giun-
gere fino alle 24 ore con spezzati d'orario nel ginnasio
o nella scuola tecnica. Il professore di filosofia, a cui
non basteranno le 6 ore del liceo, dovrà andar pere-
grinando per ginnasi, scuole tecniche, istituti tecnici,
insegnando qua 4 ore di storia, là 5 ore d'italiano, al-
trove 8 ore di latino. E ciò sarà possibilissimo; poiché
il disegno di legge autorizza a sopprimere posti d'orga-
nico quando ciò sia utile al completamento d'orario dei
professori che hanno sovrabbondanza d'ore. La bella
unità didattica del ginnasio, tanto e così giustamente
lodata dall' on. Credaro, correrà pericolo di naufragare;
poiché il professore di la ginnasio che ha 16 ore d'orario
proprio, potrà essere costretto a completare le 24 as-
sumendo metà delle 16 ore della 2a classe; e le 8 re-
sidue saranno date al professore di liceo in cerca di
completamento d'orario. La confusione odierna cre-
scerà : alcuni sballottati tra brani e residui di profes-
sori ad orario incompleto; professori in corsa perpetua
tra una classe ed un'altra, tra un istituto ed un altro,
con tutta la giornata occupata dalle ore di lezione e
dagli intervalli inutilizzabili tra una lezione e l'altra.
Sento la replica che alle querimonie sovra elencate
viene spontanea sulle labbra del lettore : la vostra scuo-
la educativa, con orari brevi, con classi di 20 alunni,
con professori a cui è fatto divieto di dar lezioni oltre
le !8 ore settimanali ed a cui sono comminate pene di-
sciplinari gravissime, se osano dare una ripetizione in
casa, sia pure a scolari altrui od a scolari di nessuno,
questa scuola ideale è una scuola cara. Chi ne pagherà
le spese?
— 40 —
Se anche l'obbiezione fosse vera, io dico che sarebbe
enore imporre alle 175 mila famiglie italiane, i cjj figli
frequentano le scuole medie, un aumento di tasse di
circa 8 milioni di lire all'anno per fornir loro una scuola
meno efficace dell'attuale. L'unica ragion d'essere del-
l' aumento delle tasse è il proposito di fornire ai giovani
ed alle loro famiglie una scuola migliore. E tale non
è quella che si allontana dal tipo della scuola educa-
tiva ed accentua ognora più i caratteri della scuola-ca-
serma, della scuola-caleidoscopio.
Io nego che la scuola educativa costi molto di più
della scuola-caserma. Le classi di 20 alunni richiedono
orari assai più brevi delle classi di 40 alunni. Se due
ore di vociferazione concitata da parte di. un insegnante
di passaggio non sono sufficienti a far capire un teore-
ma ad una folla di 40, basta un'ora di dimostrazione
tranquilla per renderlo comprensibile a 20 alunni, i
quali da tempo abbiano acquistata dimestichezza col
modo di pensare e di discorrere dell'insegnante. Dun-
que la scuola educativa consente gli orari brevi, e gli
orari brevi, favorendo un notevole risparmio di inse-
gnanti, permettono all'erario di pagarli meglio, senza
onere eccessivo dei contribuenti. Tutto si concatena
nella riforma della scuola. Perchè non scegliere il me-
todo di spendere poco ed utilmente piuttostochè quello
di spendere molto e senza vantaggio?
Se anche calcoli esatti dimostrassero che la scuola
educativa costa di più della scuola-caleidoscopio, chi ci
dice che all'uopo non possano bastare gli 8 milioni, i
quali saranno forniti dalle cresciute tasse scolasticke?
È vero che al disegno di legge Credaro non è unito
alcun piano finanziario degli effetti della proposta ri-
forma. Noi non sappiamo quanto frutteranno in più le
— 41 —
nuove tasse, quale sarà il risparmio dell'erario per il
prolungamento d'orario imposto ai professori e compre-
so nello stipendio cresciuto e quale l'onere dello Stato
per l'aumento degli stipendi ai professori. Analisi som-
marie compiute dal prof. Medici nell'Unità, e dal pro-
fessore Contessa nella Riforma Sociale concluderebbero
che l'erario dello Stato verrebbe dalla proposta rifor-
ma a lucrare netti da 3 a 4 milioni di lire ali* anno. Se
questi calcoli sono esatti — ed il metodo con cui furono
condotti e la serietà degli indagatori me li fanno rite-
nere tali — ci troviamo di fronte ad un fatto che ri-
chiede un profondo esame da parte del ministro e del
Parlamento.
Io credo esatta la teoria del Credaro che, in buona
finanza, il maggior costo delle scuole debba essere pa-
gato con un aumento di tasse sui frequentatori delle
scuole stesse. È una distinzione elementare della scien-
za delle finanze quella fra tasse ed imposte; chiaman-
dosi tasse quelle che sono volontariamente pagate da
certe persone (per esempio alunni), per ottenere un ser-
vizio di vantaggio particolare per essi (per esempio
istruzione secondaria); ed imposte quelle che sono ob-
bligatoriamente pagate da tutti i cittadini per provve-
dere ai servizi generali che tornano di vantaggio, in
modo indivisibile, a tutti i membri della collettività (per
esempio imposte sui redditi o sui consumi per provve-
dere ai servizi generali della difesa, giustizia, sicurezza,
ecc.). Sarebbe scorretto che il miglioramento di un ser-
vizio come quello scolastico, il quale torna di vantaggio
a determinate persone, non fosse pagato con le tasse
di coloro che volontariamente si iscrivono alle scuole,
ma con le imposte di coloro che per obbligo di legge
sono privati di parte del loro reddito o vedono crescere
— 42 —
il costo dei loro consumi per far fronte alle spese gene-
rali ed indivisibili dello Stato.
Perciò io credo corretto l'aumento delle tasse sco-
lastiche. Ma se è vero che l'aumento delle tasse non
va tutto a favore della scuola, ma lascia parecchi mi-
lioni di utile all'erario, verrebbero per un altro verso
ad essere violati i sani principi finanziari. Gli scolari
pagherebbero invero tasse esuberanti ai fini della scuo-
la; le quali, col loro sopravanzo, verrebbero ad alleg-
gerire il peso dei contribuenti per i servizi generali. Le
spese della guerra, della marina, della giustizia, del de-
bito pubblico, dei servizi civili devono essere soppor-
tate da tutti i contribuenti; e non v'è alcuna ragione
per cui i padri di famiglia, oltre a contribuire, come
tutti gli altri contribuenti, con le imposte, a tali spese,
siano chiamati a dare inoltre un contributo speciale sot-
to colore di tasse scolastiche. I vecchi trattatisti usa-
vano chiamare « odiosa » ogni imposta gravante su una
particolare classe di contribuenti ad esclusione degli al-
tri, che pure traggono beneficio della spesa. Si provve-
da dunque ad allestire un piano finanziario preciso e
rigoroso della proposta riforma delle scuole medie; e,
se si constati che il piano lascia un margine a favore
dell* erario, lo si faccia scomparire, o diminuendo i pro-
posti aumenti di tasse, ovvero, ciò che sarebbe prefe-
ribile, avviando la scuola verso il tipo della scuola edu-
cativa. I padri di famiglia italiani saranno ben lieti di
pagare le tasse cresciute, quando si darà loro affida-
mento che la scuola si avvia ad essere non più luogo
di mortificazione e di corsa al diploma bensì fonte di
letizia e di sapere.
(Dal Corriere della Sera, 18 maggio 913)
II.
POLITICA, IMPERO BRITANNICO
E SOCIETÀ DELLE NAZIONI
OSTRUZIONISMO, CHIUSURA,
GHIGLIOTTINA E CANGURO
L ostruzionismo delio scorso giugno ha lasciato uno
strascico di malcontento tra le file della maggioranza
e un vago desiderio di modificare il regolamento della
Camera, onde le minoranze non possano trarne pro-
fitto per impedire il funzionamento degli istituti parla-
mentari. Essendo perciò ridivenuti interessanti i metodi
antiostruzionistici, sarebbe stato strano che non si ricor-
dassero quelli grazie ai quali non si sente più parlare
di resistenza defatigatoria dell'opposizione nella Camera
dei Comuni inglese.
I! primo di questi metodi, introdotto nel 1887, e co-
nosciuto, con modalità varie, anche in altri paesi, è il
diritto del gabinetto, quale rappresentante della mag-
gioranza, di chiedere in qualsiasi momento, col con-
senso, quasi sempre concesso, dello Speaker o presi-
dente della Camera, la chiusura delle discussioni e la
votazione immediata del disegno o provvedimento in
discussione.
Il secondo metodo fu introdotto, dieci anni fa, dal
signor Balfour, quand'era primo ministro. Il signor
Balfour, politico fine, scrittore acuto di cose econo-
miche e filosofiche, era noto per il fastidio aperto e
quasi sprezzante con cui ascoltava le interminabili di-
— 46 —
scussioni dei suoi colleghi; e si comprende come egli,
annoiato, facesse votare la cosidetta ghigliottina, con la
quale la Camera stessa delibera che la discussione di
un dato disegno di legge abbia a durare non più di un
dato numero di giorni, sette, dieci, quindici; giunti alla
scadenza del qual termine, all'ora segnata, siano o no
finiti i discorsi, si procede senz'altro alla votazione del
disegno di legge. La ghigliottina può anche essere a se-
zioni (guillotìne by compartments), nel qual caso si fis-
sano preventivamente il giorno e l'ora in cui deve rite-
nersi finita la discussione e deve procedersi alla vota-
zione di ogni singolo articolo del disegno di legge.
Finalmente vi è l'istituto del canguro, il quale dà
diritto allo Speaker della Camera dei Comuni di saltare,
come fa il canguro, ossia di escludere dalla discussione
e votazione tutti quegli emendamenti e ordini del giorno
che egli discrezionalmente ritenga futili, defatigatorii,
non pertinenti all'argomento, o meno importanti di altri.
Ne bisogna dimenticare che, mentre fino al 1902 il
tempo disponibile per le discussioni era dai regola-
menti (standing orders) assegnato per quattro decimi al
governo e per sei decimi ai private members, ossia ai
semplici deputati non provvisti di alcuno stipendio od
assegno sul bilancio dello Stato, in quell'anno la distri-
buzione fu profondamente mutata, assegnandosi i nove
decimi ai placemen (membri appartenenti al gabinetto
o provvisti di una delle numerose cariche ministeriali
esistenti in Inghilterra, anche fuori dei posti di ministro
propriamente detti) e solo un decimo ai private membres.
Sarebbe erroneo affermare che un siffatto sistema
di riduzione della capacità di discorrere dei private
members sia stato mal visto dall'opinione pubblica.
— 47 —
Tutt'altro. Salvo irrilevanti eccezioni, i giornali d'ogni
partito si sono adattati alla chiusura per volontà del
ministro, alla ghigliottina ed al canguro; e si direbbe
quasi siano felici di potere risparmiare lo spazio,
prima dedicato ai discorsi parlamentari, per dedicarlo
al chricket, al foot-ball, all'aviazione ed ai vari altri ge-
neri di sport. Pare che il pubblico si interessi sempre
meno della Camera dei Comuni e si compiaccia di ve-
derne ghigliottinati i discorsi, anche nei riassunti dei
giornali; talché lo stesso Times, il quale un tempo era
gelosissimo del vanto di non tralasciare mai neppure
una parola dei discorsi parlamentari, in questi ultimi
anni ha dato segno di voler rallentare alquanto la rigi-
dità delle sue venerabili regole a questo riguardo.
I partiti hanno subito fatto lor prò dei metodi in-
trodotti dal Balfour. Il governo al potere, che dicesi
liberale, ma che è sovratutto radicale e labourista, ed
è protetto da quei nazionalisti irlandesi, che si erano
altre volte resi famosi per accanite manovre ostruzio-
nistiche, ha fatto suo prò della chiusura, della ghigliotti-
na e del canguro, e ripetutamente se né servito per fiac-
care l'opposizione dei conservatori; né questi poterono
ribellarsi, essendo stati essi gli inventori dell'elegante
congegno. Neppure si può affermare che delle armi
antiostruzionistiche si sia fatto palese abuso, poiché gio-
varono solo a sollecitare l'approvazione di provvedi-
menti per cui era certo il consenso della maggioranza
della Camera. Ora, si osserva dai difensori della ghi-
gliottina e del canguro, il governo di gabinetto è governo
di maggioranza. Se la maggioranza non può tradurre in
leggi la sua volontà, per l'opposizione ostruzionistica
della minoranza, non abbiamo più governo rappresen-
— 48 —
tativo, governo di maggioranza, bensì l'inerzia, l'arresto
del governo, ad opera di una minoranza faziosa. Se
questa crede cattivi i provvedimenti votati dalla mag-
gioranza, ne dimostri al paese i difetti, trasformi l'opi-
nione dell'elettorato, abroghi la legge cattiva. Ma
finché questa maggioranza esiste, essa ha diritto di at-
tuare in leggi i voleri del popolo, così come si sono
manifestati negli ultimi comizi elettorali.
Questa è indubbiamente la teoria dominante in In-
ghilterra nel momento presente. Dominante; ma non
pacifica. Poiché se in parlamento rarissime voci si al-
zano a combattere contro la ghigliottina e il canguro,
se i giornali vi sono favorevoli, se l'opinione pubblica
vede con piacere lo stroncamento delle chiacchiere dei
politicanti, non mancano qua e là voci di solitari osser-
vatori, i quali mettono in chiaro i pericoli dei nuovi
metodi. Per ora le critiche si leggono solo sui libri e
sulle gravi riviste trimestrali, le caratteristiche riviste
inglesi che sembrano libri, dove si leggono articoli che
non di rado passano alla storia e segnano l'inizio di un
movimento di idee destinato a fruttificare in avvenire.
Sarebbe un errore disdegnare queste critiche, solo
perchè scritte su libri e su riviste lette da un pubblico
ristretto; troppe volte essendosi veduto in Inghilterra
che la forza di penetrazione delle idee esposte ai pochi
che sanno pensare e riflettere è maggiore di quella delle
impressioni fugaci che vivono sui quotidiani la vita
effimera di un giorno.
Su una di queste riviste trimestrali, anzi su una rivi-
sta nuova, di cui finora furono pubblicati solo due fasci-
coli, la The Candid Quarterly Revieu) of Public Affairs,
ossia sulla Sincera, rivista trimestrale di affari pubblici,
49
diretta da un singolare tipo di pubblicista, il signor T.
G. Bowles, noto come critico ferocissimo del bilancio
e pei una famosa sentenza con cui egli riuscì a farsi
restituire dal Tesoro una somma indebitamente pagata
a titolo di imposta sul reddito, si leggono parecchi arti-
coli, anonimi, come tutti quelli di questa rivista e di
parecchie altre, fra le più reputate, d'Inghilterra, dove
sono esaminati gli effetti ultimi della ghigliottina e del
canguro. Il giudizio che vi si dà di questi avvenimenti
sta tutto nella famosa distinzione che il Bastiat faceva,
a proposito dei problemi economici, tra quello che si
vede e quello che non si vede. Come gli effetti visibili
e immediati del protezionismo, del corso forzoso, limiti
legali al tasso dell'interesse, ecc. ecc., sono buoni, e
sono dannosi invece gli effetti invisibili e lontani; così
sono buoni gli effetti visibili e immediati della ghigliot-
tina e del canguro — bando alle chiacchiere inutili e
facilità di governo alla maggioranza, — ma sono dan-
nosi gli effetti invisibil e mediati. È vero infatti, notano
gli scrittori della rivista citata, che l'essenza della costi-
tuzione stia nel governo della maggioranza? No. L'es-
senza vera sta nel potere della maggioranza della Ca-
mera dei Comuni di deliberare in seguito a discussione.
Le parole scritte in corsivo sono quelle che esprimono
la vera virtù intima e profonda del sistema rappresen-
tativo. Tutti i governi vivono con la maggioranza; anche
i governi più assoluti. Persino le monarchie antiche
persiane e babilonesi dovevano governare secondo le
idee od i pregiudizi dominanti nella maggioranza della
popolazione in quel momento. La caratteristica del go-
verno rappresentativo quale si formò, non per creazione
ma per lenta evoluzione, in Inghilterra, sta nella potestà
— 50 —
della maggioranza della Camera dei Comuni di delibe-
rare e quindi di governare, dopoché ai singoli membri
della Camera sia stata garantita, come diceva trecen-
t'anni fa lo Speaker Lenthall, « ampia ed illimitata
libertà di parola, con libera e compiuta discussione ».
Le nuove norme restrittive quali effetti tendono ad
avere su questa libertà di discussione, che è la condi-
zione prima e indispensabile affinchè la legge votata
possa essere ritenuta « ferma, stabile e sacra? ». Dieci
anni oramai sono passati e già si possono vedere gli
indizi degli effetti remoti dei provvedimenti che alla
superficie appaiono indirizzati soltanto a togjiere la
possibilità di incomportabili sopraffazioni della mino-
ranza.
Un effetto grave è la tendenza a limitare le discus-
sioni, escludendone i private members e limitando il
diritto di parlare alle due front benches. È noto che
alla Camera dei Comuni i dibattiti sono capeggiati dalle
due front benches, ossia dagli uomini maggiori che
stanno seduti sui primi banchi ministeriali e di opposi-
zione. Vi è la Ministerìal Front Bench, il banco del
Ministero, che novera trentasei membri; e la Opposi-
tion Front Bench, composta di circa venti membri, la
quale comprende gli uomini scelti d'eli* opposizione,
quelli che vorrebbero essi andare al potere, al posto
della Ministerial o Treasury Bench, che ora vi si trova.
Questi 56 sono i front benchers; gli altri deputati, i
membri privati sono i backrbenchers, coloro che stanno
sui banchi di dietro; macchine da votare, agli ordini
dei whips o fruste dei due partiti, qualcosa di simile in
grande a quello che dicesi sia in piccolo Ton. De Bellis
per la maggioranza giolittiana.
— 51 —
È. curiosissimo leggere la descrizione della sorpresa
da cui è colto il deputato novellino inglese, quando,
pieno di entusiasmo per i suoi ideali, arriva alla Camera
e si accorge che gli è quasi impossibile di parlare. Se
egli vuole esporre le sue idee in generale, lo può fare
solo nella discussione sulla risposta al discorso della
Corona; ma solo per miracolo vi riuscirà, perchè, prima
che arrivi il suo turno, lo Speaker avrà chiusa la discus-
sione. Se egli vuole svolgere un ordine del giorno sul
discorso stesso della Corona, potrà farlo se il suo nome
esce dell'urna dove sono messi i nomi di tutti i 670
deputati e da cui è estratto il nome del fortunato che
solo ha diritto di parlare. Se, durante una discussione,
egli si alza e domanda la parola, venti volte si alzerà
e per venti volte lo Speaker farà mostra di non accor-
gersi di lui. Se egli vorrà iscriversi a parlare, bisognerà
si raccomandi al whip del suo partito; e questi, se egli
appartiene al partito del governo, gli farà presente
l'inopportunità di far perdere tempo al governo, quando
già l'opposizione glie ne fa perdere tanto. Se egli è
d'opposizione, il whip gli farà notare che il poco tempo
disponibile ai deputati privati è meglio lasciarlo agli
opposìtion front benchers, ai venti capi cioè dell'oppo-
sizione, i quali sanno come meglio mettere a dura
prova il ministero.
In breve, i deputati che non hanno la fortuna di ap-
partenere ai 56 privilegiati front benchers non sono nulla.
Se alcuno dei reietti riesce nonostante, a furia di abilità
e di conoscenza dei regolamenti, a prendere la parola
ed a far sentire una nota personale, diversa da quella
iscritta nei programmi rispettivi del partito al governo
o dell'opposizione, con rabbia del ministro e con fasti-
52
dio del presidente (to the rage oj the Minister and the
concern oj Mr. Speaker), la sua sorte è segnata. Il suo
ivhip lo segna sulla lista nera; alle prossime elezioni
non sarà più portato dal partito e rimarrà escluso dalla
Camera dei Comuni.
In conclusione, la soppressione della « intiera ed
illimitata libertà di discussione », che lo Speaker
Lenthall trecentanni fa proclamava essere la massima
prerogativa della Camera dei Comuni, tende ad instau-
rare una nuova tirannia : non più quella dei Tudors o
degli Stuardi, bensì quella dei capi dei due partiti. E
notisi che, se le due Front Benches fossero scelte libe-
ramente dai membri dei due partiti, il male sarebbe an-
cora sopportabile. Il male maggiore si è che alla loro
volta i due grandi banchi, governativo e d'opposizione,
sono nominati di fatto dalle organizzazioni dei partiti, di
cui il chief-whip, ossia il capo dei whips dei due par-
titi, tiene in mano le fila. Organizzazioni di partito le
quali in apparenza sono aperte, dove in apparenza vi
è libertà di discussione dei programmi che dovranno
essere presentati agli elettori ed attuati dal partito vin-
citore alla Camera; ma che in realtà, per molte circo-
stanze, fra cui non ultima l'esistenza di un fondo elet-
torale di guerra, costituito in parte dalla vendita delle
onorificenze e dei titoli di nobiltà, amministrato, senza
controllo, dal chief-whip di ogni partito, sono dominate
da un caucus o comitato centrale, il quale formula il
programma, sceglie i candidati, conduce la campagna
elettorale, fa votare alla Camera gli eletti, così come
vuole il ministero, a sua volta in definitiva scelto dal
comitato irresponsabile del partito.
Dire quale di questi fatti sia la causa e quale l'effetto,
è impossibile. Sarebbe esagerato affermare che i co-
53
mitati centrali dei partiti, deliberanti in segreto ed irre-
sponsabili, siano divenuti dominanti grazie alla soppres-
sione della libertà illimitata di discussione; poiché i
comitati esistevano prima che trionfassero la ghigliottina
e il canguro. D'altro canto è certo che ghigliottina e
canguro hanno reso irresistibile il potere, già grande,
del ministero, ossia del comitato del partito, che seppe
conquistare la maggioranza, sgominando le ultime
tracce di quegli spriti indipendenti i quali sono stati
sempre il lievito della formazione di nuovi partiti o della
trasformazione dei vecchi. Ciò che si può dire è che
g|higiiottinia, canguro, soppressione djejlla facoltà illi-
mitata di discutere, soppressione della Camera dei
Lordi, onnipotenza della Camera dei Comuni, ossia
onnipotenza della maggioranza di essa, ossia ancora
del ministero e finalmente del caucus o comitato cen-
trale del partito al potere, trasferimento delle preroga-
tive regie dal Re al gabinetto e cioè di nuovo al potere
dominante nel partito governativo, attribuzione del di-
ritto di presentare i candidati alle onorificenze ed ai
titoli di nobiltà al chief-whip del partito al potere; sono
tutti fatti strettamente legati tra di loro, i quali contri-
buiscono a trasformare sotto i nostri occhi il sistema di
governo di discussione, in cui la volontà dalla maggio-
ranza riesce a trasformarsi in legge solo quando sia ben
dimostrato che essa è una vera volontà, ossia una deli-
berazione maturata e ragionata in guisa da poter resi-
stere alle più vive, ostinate, minute, feroci critiche
delle minoranze, nel tipo del governo del piccolo
gruppo che è diventato, con metodi buoni o cattivi,
padrone della maggioranza prò tempore. Il primo è il
tipo del governo liberale, il secondo del governo gia-
cobino.
54
Queste le due grandi correnti di opinioni che in In-
ghilterra si contrastano il campo rispetto ai meriti e ai
demeriti dei metodi antiostruzionistici. L'ambiente ita-
liano è diverso; e quindi il contrasto non può essere
trasportato tale e quale nel nostro paese. A citare solo
una differenza, non esistono da noi i partiti organizzati,
come esistono in Inghilterra; ed appena appena se
ne scorgono alcune pallide imitazioni nei partiti socia-
lista, clericale e nazionalista; mentre il grosso della
deputazione è tenuto a segno da capi personali, fra cui
primeggia uno solo, divenuto padrone incontrastato del
parlamento. Il che sembra essere assai peggiore cosa
di quel grosso malanno che sono divenuti in Inghilterra
e negli Stati Uniti i partiti organizzati.
Ma, pure attraverso a queste differenze profondis-
sime di ambiente, alcune deduzioni aventi un valore
generale si possono ricavare dall'esperienza inglese :
essere assai dubbio che l'essenza del governo
parlamentare stia nel diritto alla maggioranza di votare
le leggi. Una maggioranza che si offenda al pensiero
di una lotta senza quartiere, da combattere contro la
minoranza prima di giungere ad attuare i suoi voleri,
è l'araldo della tirannia;
l'essenza del governo parlamentare sta nella li-
bertà illimitata di discussione; e quindi l'ostruzionismo
non è offesa agli istituti parlamentari, ma la loro pietra
di paragone. Un parlamento, il quale, per debellare
l'ostruzionismo, ricorre ai metodi restrittivi tipo inglese,
dimostra di non essere più il parlamento di tipo clas-
sico, ma una camera di registrazione della volontà, in
Inghilterra del caucus o comitato centrale del partito
dominante, in Italia della volontà del capo personale
55
del gruppo più numeroso dei membri della classe po-
litica;
una maggioranza, per avere il diritto di chiamarsi
tale, nel senso parlamentare della parola, deve essere
composta di persone le quali sono convinte della bontà
della causa che difendono e sono pronte a rintuzzare
gli argomenti della minoranza con argomenti propri,
ed a lottare con la pazienza, la risolutezza, le sedute
di venti ore al giorno o le sedute permanenti per setti-
mane e mesi, contro l'ostruzionismo della minoranza.
È molto dubbio se le qualifiche di minoranza e di mag-
gioranza potessero sul serio essere applicate a quelle
che così da sé si chiamarono in Italia durante l'ultima
campagna ostruzionistica. Poiché da un lato si aveva
una cosidetta minoranza, la quale non aveva nessun
piano proprio meditato ed organico di riforme finan-
ziarie da sostituire a quello proposto dal governo; e
sapeva solo invocare la grande riforma, che da Cen-
t'anni si proclama e che non si sa in che cosa consista.
Dall'altro si aveva una maggioranza, la quale, invece
di difendere come utili e buoni i provvedimenti da essa
medesima propugnati, li disprezzava come espedienti
temporanei e invocava e prometteva quella medesima
grande riforma che era desiderata dalla minoranza.
Assistendo alla quale eroicomica pugna, si rimane
facilmente persuasi che male a proposito si usarono
i nomi vistosi di minoranza e di maggioranza. Non erano
una minoranza i socialisti, perchè costituiscono mino-
ranze solo coloro che hanno idee capaci di conquistare
il consenso dei più; ne erano una maggioranza gli altri,
perchè spregiavano le proprie idee e dichiaravano belle
quelle degli avversari. Il qual consenso mirabile può
56
dimostrare una verità : che la grande ri/orma tributaria
forse è voluta da tutti gli uomini politici, perchè tutti
sono persuasi che essa in pratica funzionerà in guisa
da lasciare sussistere gli scandali odierni, per cui le
classi professioniste, curiali, discorritrici, scribacchia-
trici, tra cui massimamente si recluta la classe politica
italiana, non contribuiscono nulla o pochissimo al ca-
rico comune delle imposte; e sono fermamente avverse
alla prima e più urgente, alla sola vera e grande riforma
tributaria, che è la revisione e l'accertamento dei red-
diti soggetti a imposta.
Laonde si conclude che l'ostruzionismo non può mai
offendere la dignità del parlamento; poiché o esso è
fatto sul serio e allora è una sublimazione del potere
illimitato di discutere, in che consiste l'essenza delle
istituzioni rappresentative, ed è la prova del fuoco del
valore intimo della maggioranza e della minoranza;
ovvero è una cosa buffa, come fu in Italia, e la dignità
del parlamento era già morta prima, per la poca fede
della cosidetta maggioranza nelle proprie idee e per il
difetto di idee diverse nella minoranza di energumeni,
per cui l'ostruzionismo era divenuto fine a se stesso.
(Dalla Minerva, 1 agosto 1914).
IL VALORE ITALIANO
DEL TRATTATO DI LOSANNA
Nei commenti che si lessero sui giornali italiani
intorno ai varii documenti che insieme costituiscono il
trattato di Losanna, due opposte tendenze sono mani-
feste : luna delle quali vuole ingigantire quelle che
sono dette « concessioni » fatte all'impero ottomano.
ed all'uopo cerca di dimostrare che l'Italia ha rinun-
ciato in parte alla sua affermazione di sovranità piena
ed intiera ed ha suscitato un vespaio di attriti futuri
fra il governo italiano ed i rappresentanti del sultano
e della legge sacra dello Sceriat; mentre l'altra accurata-
mente espone i motivi per i quali le concessioni fatte
sono di pura forma e non intaccano per nulla la nostra
sovranità; e già alcuni, appartenenti alle ali estreme
di questa tendenza, si industriano ad indicare le ma-
niere con le quali le concessioni formali potranno via
via essere attenuate, sino a ridursi a puri nomi senza
sostanza alcuna.
Io vorrei esporre alcune considerazioni inspirate ad
una visione dei fatti diversa sia dell'una che dell'altra
tendenza. Le quali hanno la loro ragion d'essere pole-
mica, rispetto alla politica del momento attuale. Mentre
sembra a me che la sola domanda importante che do-
vrebbe fare a sé stesso ognuno il quale sopratutto si curi
— 58 —
dell' avvenire del paese è questa : il trattato di Losanna
_riova all'Italia, e non all'Italia di ieri che non aveva
colonie o stava disputandole alle armi del nemico, ma
all'Italia di domani, che dovrà rassodare il suo dominio
rispetto alle popolazioni arabe e dovrà attuare il pro-
gramma, senza di cui la conquista sarebbe stata incon-
cepibile, di crescere la civiltà e la prosperità di quei
paesi?
Questa sembra a me la vera posizione del problema :
che il litigare intorno alla portata, più o meno larga,
delle singole clausole del trattato rispetto alle aspira-
zioni che erano state manifestate in Italia ed alle oppo-
ste resistenze ottomane è un rivangare sul passato, il
quale non ritorna più; mentre soltanto importa dal pas-
sato trarre ammaestramenti per l'avvenire.
Se ciò è vero, sembra a me che il trattato di Lo-
sanna sia un atto da cui l'Italia potrà trarre grandis-
simo beneficio, ove si sappiano utilizzare tutti i germi
fecondi di bene che i nostri negoziatori seppero inclu-
dervi. Ma per dimostrare ciò è d'uopo fare alcune essen-
ziali premesse.
La prima si è questa : che l'esperienza storica ha
dimostrato quei soli paesi essere riusciti a conservare
per lungo tempo le colonie, i quali seppero renderne
contenti gli abitanti, facendo omaggio ai loro costumi,
religiosi e politici, riconoscendo loro la massima libertà
compatibile con la sovranità della madre patria, facendo
il massimo assegnamento sulla loro collaborazione am-
ministrativa ed anche politica. Tuttociò e così noto che
è inutile dimostrarlo. I paesi che vogliono perdere le
colonie, ne considerano come sudditi gli abitanti; men-
59
tre quelli che le conservano, più o meno presto, li chia-
mano a collaborare nell' esercizio della sovranità locale.
L'India moderna, dove tuttodì si creano nuovi consigli
legislativi indigeni, ed ai vecchi si crescono i poteri, è
l'esempio più attuale di questa necessità assoluta di
governo.
Una seconda premessa, anch'essa di fatto, è che
nella Tripolitania e Cirenaica l'elemento indigeno, e
per indigeno intendo arabi e berberi, conserverà la
maggioranza numerica per lunghi anni ancora. La spe-
ranza che gli emigranti italiani si dirigano in folla
verso le due contrade libiche, per ora non si sa quando
potrà essere attuata. L'esperienza storica dimostra che
le colonizzazioni sono sempre lentissime sugli inizi e
soltanto dopo aver raggiunto cifre di milioni, il moto
diventa più rapido. Ora gli inizi nelle colonie non si
numerano ne ad anni ne a poche diecine di anni. Anche
lasciando impregiudicata la questione, su cui sono cosi
discordi i pareri, sulle attitudini produttive agricole
della nuova colonia, ed anzi supponendola risoluta nel
senso più favorevole, gli inizii coloniali, durante i quali
i coloni italiani saranno una minoranza esigua della
popolazione totale, non potranno durare meno di mezzo
secolo. Se poi i coloni italiani diverranno numerosi, il
fatto non potrà accadere se non perchè l'Italia avrà
fatto regnare l'ordine, la sicurezza della proprietà e
delle persone, avrà reso facili le comunicazioni terrestri
e marittime. Ma di un ambiente siffatto si gioveranno
altresì gli indigeni; ed uno dei frutti più sicuri della
nostra opera sarà il moltiplicarsi del numero di essi. La
pace inglese ha fatto pullulare a diecine di milioni gli
indiani; e gli arabi algerini e tunisini crescono rapida-
— 60 —
mente di numero grazie al dominio francese. E poiché
gii indigeni della Libia sono già ora più di un milione,
è probabile che conserveranno per lunghissimo tempo
una notevole preponderanza su tutti gli altri elementi
della popolazione. Dato ciò, appare manifesto quanto
grande sia l'interesse dell'Italia a trovare formule adatte
di collaborazione amministrativa e politica con un po-
polo, il quale l'esperienza storica insegna non potere
rimanere puramente soggetto.
Una terza premessa necessaria è questa : essere
sommamente pericoloso per la prosperità della colonia
e la saldezza dei suoi vincoli colla madre patria ammet-
tere una qualsiasi rappresentanza politica delle colonie
a prò dei soli coloni provenienti dalla, madre patria o
ad essi assimilati nel parlamento metropolitano. L'espe-
rienza dell'Algeria insegni. Insediata la Francia sovrana
nell'Algeria, distrutta ogni organizzazione politica degli
indigeni, si commise l'errore enorme di attribuire ai
coloni francesi l'elettorato al Parlamento di Parigi.
Prima ai coloni francesi, poi ad alcuni ceti ristretti di
indigeni a cui. si diede la cittadinanza, come gli israe-
liti, riconosciuti cittadini francesi in blocco per un de-
creto del mnistro Crémieux, ed uno scarso numero di
notabili arabi, militari ritirati, ecc. L'errore fu funesto,
perchè divise la popolazione in due categorie : la mag-
gioranza araba, priva di diritti politici, e la minoranza
di francesi ed assimilati, che soli avevano influenza
politica. Onde i ministri di Parigi furono portati ad
ascoltare le voci dei cittadini francesi, dei cui deputati
temevano il voto contrario; e questi deputati, di solito
di poca levatura, divennero i tiranni della colonia, si
preoccuparono esclusivamente degli interessi dei coloni
— 61 —
francesi, degli israeliti ed altri assimilati, fomentarono
una legislazione di classe, che fece divampare l'odio
tra gli arabi oppressi e ritardò di decenni il progresso
civile ed economico dell'Algeria. Adesso la Francia sta
riparando faticosamente agli errori commessi nel pas-
sato; ha creato e rafforza nell'Algeria le rappresentanze
di elementi locali; ammaestrata dall'esperienza, pre-
serva con gran cura nella Tunisia gli istituti politici ed
amministrativi indigeni, cercando di far sì che le auto-
rità arabe, dal bey all'ultimo caid, esercitino un ufficio
parallelo e congiunto a quello delle autorità francesi.
Onde l'utilità di un governo misto, palesatosi lo stru-
mento più efficace, per ottenere la collaborazione degli
elementi indigeni ed europei, allo scopo di conservare
la colonia alla madre patria e di farla nel tempo stesso
progredire.
Date queste premesse, in cui, come si vide, non
entra menomamente in gioco l'interesse dell'impero
ottomano, sibbene esclusivamente l'interesse dell'Italia,
o meglio dell* Italia nuova, la quale si è assunta una
grandiosa missione coloniale, chiaro appare che la solu-
zione ideata dai nostri negoziatori, sotto colore di con-
cedere qualche soddisfazione formale alla Turchia, in
realtà è quella che meglio giova agli interessi della co-
lonia e quindi della madre patria.
Il problema era più complesso di quello risoluto
dalla Francia a Tunisi. Nella Tripolitania e nella Cire-
naica invero non esisteva disgraziatamente alcuna di-
nastia locale che potesse servire nelle mani del governo
metropolitano a tenere devoti gli arabi. Una dinastia
nuova non si improvvisa; ne i discendenti attuali dei
Caramanli di Tripoli, i quali del resto non avevano do-
— 62 —
minato nella Cirenaica, nel Fezzan e nella regione sir-
tica, parevano adatti all'uopo. La permanenza della
sovranità ottomana, con un protettorato italiano,
avrebbe sul serio menomato la sovranità italiana e sa-
rebbe stata cagione probabilmente di attriti non lievi.
La soluzione attuata col firmano del Sultano e col
decreto del Re d'Italia appare in verità pienamente ri-
spondente agli scopi che noi dobbiamo raggiungere
nella nostra azione coloniale. Poiché la sovranità ita-
liana, il Naib-ul-Sultan, il Cadì, le prescrizioni dello
Sceriat, la commissione mista italo-araba per preparare
ordinamenti locali inspirati al rispetto degli antichi co-
stumi, l'affermazione implicita della necessità di un
bilancio locale, la continuazione degli impegni finan-
ziari dipendenti dal debito pubblico * ottomano, sono
tutti elementi di governo i quali, se sviluppati secondo
la loro logica intima, possono essere utilissimi agli in-
teressi della collettività che dovrà a poco a poco sorgere
nella nuova colonia. Altra è la parola scritta, ed altro
è lo sviluppo che possono gli istituti politici prendere
col tempo.
Ed invero, ciò che massimamente importava era che
le popolazioni indigene — che sono oggi e saranno per
lunghissimo tempo, per le considerazioni sovra svolte,
la grande maggioranza degli abitanti della colonia —
avessero contemporaneamente due sensazioni ben vive;
di cui l'una è quella della sovranità italiana, e l'altra di
non essere abbandonate in balìa di un dominatore, che
esse apprezzeranno senza dubbio col tempo, ma che
per ora non conoscono abbastanza. Esse dovevano ve-
dere la sovranità italiana inquadrata nella cerchia delle
istituzioni sacre e rappresentative che a loro erano dive-
— 63 —
nute abituali e che male avrebbero potuto essere d'un
tratto abbattute. Se la guerra avviene tra due Stati civili
europei, ed una parte del territorio viene smembrata
da uno Stato a profitto dell'altro, nessuna difficoltà si
oppone al vincitore che voglia estendere i proprii ordi-
namenti al territorio annesso. Si cambia, occorrendo, il
nome ai sindaci ed ai prefetti, si mandano in una nuova
capitale i deputati; e formalmente l'annessione è com-
piuta. Invece in paesi, come quelli africani, dove non
esiste l'organizzazione burocratica civile europea, dove
non esiste od è una parvenza la rappresentanza parla-
mentare, il passaggio è estremamente più difficile.
Qualche cosa di simile avveniva in Europa nei secoli
scorsi; e chi non ricorda quale tenacissima vita avessero
nelle provincie di nuovo acquisto gli istituti politici ere-
ditati dai dominii precedenti? Per citare soltanto ciò che
accadeva da noi, basti ricordare che la sovranità del
Re di Sardegna si estendeva, al 1792, su numerosi ter-
ritori : la Savoia, il Piemonte antico, il Ducato di Aosta,
Nizza, Oneglia, il Monferrato antico ed il Monferrato
nuovo, le Provincie conquistate sullo Stato di Milano,
tra cui la Valle Sesia si distingueva dal Novarese, dal-
l'Oltrepo-pavese, dal Vigevanasco, ecc.T ecc., la Sarde-
gna. Su tutte queste regioni si estendeva indiscussa la
sovranità sabauda; ma in ognuna assumeva aspetti di-
versi, rispettosa sempre degli ordinamenti locali; qua
assoluta, là limitata da parlamenti locali; in qualche
regione con fervida vita municipale, altrove con predo-
minio della provincia. E queste diversità derivavano
tutte da un ossequio, garantito da trattati, ad istituti
che erano sorti durante la sovranità antica ed erano
stati per trattato mantenuti, a garanzia delle popola-
— 64 —
zioni, anche dopo la instaurazione della sovranità
nuova.
Ecco quale sembra a me il significato profondo degli
istituti politico-religiosi, consacrati nei documenti del
trattato di Losanna. Il firmano ottomano storicamente
può essere considerato come una affermazione fatta
dal sultano che i governi sono creati per il bene dei
popoli e non i popoli a beneficio dei governi; esso
afferma che ciò che tiene insieme le popolazioni delle
due Provincie, ciò che ne fa un popolo non è l'autorità
sua, la quale egli confessa impotente; ma è l'esistenza
di un comune affetto degli indigeni per « il loro paese »;
la perpetuazione delle leggi sacre dello Sceriat, le quali
costituiscono il fondamento della vita civile e famiglia-
re, la esistenza loro autonoma, organizzata secondo
leggi a cui essi devono essere chiamati a collaborare,
che devono essere applicate mediante un ordinamento
amministrativo imperniato su un bilancio « locale ».
In sostanza il Sultano, spogliandosi della propria sovra-
nità ha desiderato si sapesse che egli non abbandonava
i suoi antichi sudditi alla balìa di un conquistatore, libero
di imporre istituzioni estranee ai costumi ed all'indole
delle popolazioni conquistate. E l'Italia, facendo pro-
prie queste esigenze della conquista, non ha compiuto
cosa che non fosse sopratutto ad essa sommamente
benefica. Perchè, essendo nell'interesse dell'Italia che
gli arabi diventino suoi collaboratori, è puranco nel suo
interesse che essi sappiano di poter vivere secondo gli
ordinamenti religiosi, che regolano i loro rapporti fami-
gliari, testamentari, ecc., ecc. Ed a ciò provvede la
gerarchia del Cadì e dei suoi naib subordinati; la quale
gerarchia non poteva non essere legittima, nel solo
modo in cui dinanzi agli occhi dei musulmani è legit-
tima una autorità religiosa, ossia mercè la nomina da
parte dello sceicco dell'Islam.
A questa organizzazione spirituale si aggiunge la
organizzazione finanziaria. Dopo aver pregato Dio, gli
arabi dovranno pur pagare il suo rappresentante in terra
perchè egli mantenga lordine e la sicurezza e la giu-
stizia. Ma pagare un tributo destinato ad un bilancio
non proprio del paese o destinato al paese per pura
condiscendenza del dominatore sarebbe stato avvilente
per i nuovi sudditi e pernicioso per la madre patria.
Prova ne sia la Francia, la quale, dopo aver fuso il
bilancio dell'Algeria col suo, si avvide di avere grave-
mente errato e ricostruì il bilancio proprio della colonia,
a determinare il quale concorrono gli indigeni. Mercè
il trattato di Losanna, l'Italia sapientemente avverte che
essa si terrà lontana dagli errori che ad altri paesi costa-
rono e costeranno la perdita di grandi colonie. Essa
avverte gl'indigeni che essi avranno un bilancio locale,
a cui favore andranno le imposte che essi pagheranno.
Li avverte che le entrate locali saranno destinate esclu-
sivamente a favore della colonia, e che la madre pa-
tria farà dei sacrifici a prò della colonia senza richie-
derne direttamente vantaggi pecuniari pel proprio bilan-
cio. E, come primo affidamento, fa gravare sulle en-
trate locali le spese necessarie per il funzionamento del-
la gerarchia religiosa ed anche per l'assegno del « rap-
presentante del Sultano ».
Con quest'ultima disposizione, forse la più interes-
sante di tutte, si pongono le fondamenta di quella gra-
duale evoluzione che col tempo trasformerà il rappre-
sentante del Sultano (per le funzioni consolari dell'Ini-
— 66 —
pero ottomano si potrà trovargli un sostituto, un se-
gretario) in quel personaggio indigeno, scelto da noi
con accortezza, di cui ogni grande potenza coloniale ha
urgente bisogno per esercitare praticamente di fatto la
sovranità sugli indigeni. La nomina potrà col tempo
assumere il carattere di una investitura formale, simile
a quelle che avevano reso nei secoli scorsi leggendario
e misterioso il Sacro Romano Impero, morto legalmente
soltanto nel 1806 dopo una vita durata per secoli nelle
pergamene della Corte di Vienna; di fatto il rappre-
sentante del Sultano potrà trasformarsi in un rappresen-
tante degli interessi indigeni presso l'autorità italiana.
Scegliere i rappresentanti degli indigeni colle forme
elettorali in uso nei paesi europei sarebbe una farsa
leggermente comica; mentre la genialità nostra negli
espedienti saprà adattare certamente le forme vecchie
agli istituti nuovi, in guisa da avere una rappresentanza
dell'indigenato, che non si senta serva perchè nominata
in virtù di leggi proprie e di costumi aventi una san-
zione quasi sacra da parte del Califfo dei credenti, e
nel tempo stesso volonterosa collaboratrice della sovra-
nità italiana, alla cui opera il bilancio locale avrà do-
vuto la sua floridezza, ed i loro stipendi la sicurezza che
forse non avevano sotto l'antico regime. Trovare la via
per cui i naib, i cadì, i membri della commissione mi-
sta italo-indigena siano chiamati a collaborare insieme
per la prosperità della colonia è certo impresa singolar-
mente diffìcile; la quale però viene, a parer mio, facili-
tata dal fatto che tutte queste istituzioni appariranno
agli indigeni un diritto consacrato nell'atto della trasmis-
sione della sovranità.
67
li trattato di Losanna crea uno stato giuridico delle
popolazioni arabe; stato giuridico corrispondente alla
loro mentalità, e quindi utile strumento di governo per
il sovrano.
Il rispetto ai diritti delle fondazioni pie, mentre as-
sicura gli indigeni che essi potranno trovare sempre
quell'aiuto che dalle fondazioni essi si ripromettevano,
simile a quello che i poveri ottenevano nel medio evo
dai conventi ed oggi presso di noi dalle istituzioni di
beneficenza, non nuocerà menomamente alla coloniz-
zazione italiana, ove questa sia possibile e nei limiti
in cui lo sarà.
La permanenza, garantita per trattato, di quegli al-
tri beni vakufs che sono destinati non direttamente a
sollievo dei poveri, ma al mantenimento di moschee,
scuole, ospedali, biblioteche, alberghi, cimiteri, ecc.,
è utile all'Italia, in quanto la popolazione indigena vie-
ne per tal modo assicurata di conservare quegli istituti
autonomi, viventi di vita propria, che sono stati consti -
tuiti dalla pietà delle generazioni passate e che in Ita-
lia con ogni sforzo cerchiamo di crescere e far prospe-
rare.
Quanto alla colonizzazione dei beni vakufs da parte
di nostri coloni, dato sempre che essa sia conveniente,
il diritto musulmano conosce infiniti artifizi, con cui
permanendo la proprietà e la rendita attuale dei beni
vakufs nelle fondazioni pie, il dominio utile può essere
trasferito ad altri. Oserei dire che, quando li conosce-
remo, verrà voglia a noi di applicare quegli artifizi in
Italia.
Con la tesi ora sostenuta, sembrami sentir dire, quaj
si si afferma che il governo della Tripolitania e della
— 68 —
Cirenaica dovrà essere in mano degli indigeni, ad esclu-
sione delle altre razze e dei coloni italiani. No. La tesi
non giunge a queste conseguenze. Afferma soltanto che
sul territorio della colonia le popolazioni arabe hanno
un proprio stato giuridico, obbediscono a leggi fonda-
mentali religiose e famigliari che l'Italia ha ricevuto e
rispetterà; hanno diritto a non essere tassate a prò di
altri popoli o ceti. L'Italia poi regolerà, rispettando le
leggi e gli istituti fondamentali degli indigeni, i rap-
porti di costoro con i coloni italiani, con gli israeliti,
ecc., ed i rapporti di tutti con la madre patria e con
l'estero. Noi dobbiamo dirci fortunati che i principi così
saggiamente incorporati nelle carte del trattato di Lo-
sanna pongano l'Italia sulla buona via nell'esercizio
della sovranità. Che è, ripetiamolo ancora, per chi vo-
glia conservare e far prosperare le colonie, il rispetta
degli istituti degli indigeni, la collaborazione con essi,
l'esclusione di qualsiasi esclusività di rappresentanza ai
coloni italiani od assimilati ad essi; la creazione di tanti
statuti politici quante sono le sezioni della popolazione
(indigeni, israeliti, coloni italiani), in guisa che nessuna
di esse possa opprimere l'altra.
Certo la creazione di questa nuova struttura politica
sarà opera faticosa e difficile; ma di essa il trattato di
Losanna ha tracciato già le somme linee. La storia giu-
dicherà l'opera italiana dai frutti che saremo capaci di
trarre dai germi fecondi di cui quel trattato è ricco.
(Dal Corriere della Sera, 1° novembre 1912).
L'ABOLIZIONE DELLE CAPITOLAZIONI
IN TURCHIA
La giornata del 10 settembre rimarrà storica negli
annali dell'Impero turco. L'abolizione delle capitola-
zioni può invero segnare il principio del rinnovamento
nella vita di quel paese e può produrre effetti profondi
e benefìci sia alle popolazioni dell'Impero sia agli stra-
nieri i quali dimorano nel territorio turco o vengono in
rapporto di commerci e di industrie con i suoi abitanti.
I trattati, comunemente detti capitolazioni — mercè
cui i sultani di Costantinopoli si obbligarono in per-
petuo a garantire agli stranieri il diritto di esser giudi-
cati dai propri consoli o tribunali misti, di non pagare
imposte, e si vincolarono a non aumentare i dazi doga-
nali sulle merci importate ed esportate senza il consen-
so dei governi europei — potevano forse essere adatti
alle necessità dell'epoca storica in cui sorsero. In un'e-
poca in cui l'esercizio delle libertà elementari di traf-
fico si considerava come un privilegio, era naturale che
i Veneziani, i Genovesi, e le nazioni che a costoro suc-
cedettero, cercassero di garantirsi il privilegio della li-
bertà di traffico, allo scopo di non vedersi vietato l'ac-
cesso alle contrade del Levante. In momenti storici in
cui l'esazione delle imposte era arbitraria e oppressiva,
era opportuno che le colonie straniere cercassero di
70 -
ottenere l'immunità dalle imposte, come il solo mezzo
per non essere taglieggiate a sangue. Il fanatismo re-
ligioso e le persistenza nel mondo mussulmano delle
idee medievali di statuto personale spiegano poi come
siano sorti i tribunali consolari e le giurisdizioni privi-
legiate a favore degli stranieri.
Certo è però che tutta questa struttura antiquata era
divenuta oggi un anacronismo storico e un impedimento
gravissimo al progresso civile ed economico dell'impero
turco. Le giurisdizioni consolari menomavano la sovra-
nità dello Stato e creavano, in seno all'impero, tante
sovranità diverse quanti erario gli Stati di capitolazione.
Ogni colonia straniera si considerava come accampata
sul territorio turco e riconosceva, dentro lo stesso terri-
torio, una sovranità diversa da quella territoriale. Chi
consideri che una delle caratteristiche fondamentali del-
lo Stato moderno è l'abolizione di ogni altra sovra-
nità all'infuori di quella dello Stato territoriale, chi ri-
cordi che l'abolizione del foro ecclesiastico fu conside-
rata un trionfo del diritto, non può a meno di ricono-
scere che l'abolizione delle giurisdizioni consolari era
un ideale che ogni turco, animato da senso di amore
verso il proprio paese, doveva perseguire con fermezza,
non trascurando alcuna occasione, alcun pretesto per
conseguirlo. Tutti i paesi europei, quando si impadro-
nirono di colonie di capitolazione, si affrettarono ad
abolire questo marchio di sudditanza verso lo straniero;
e noi in Libia seguimmo, bene a ragione, l'esempio al-
trui. Il Giappone, risorto a civiltà, abolì subito i tribu-
nali consolari.
Unica obbiezione : la scarsa garanzia di giustizia che
offrono i tribunali indigeni in Turchia. Ma è obbiezione
71
la quale persuade soltanto ad esigere che si passi gra-
datamente, con opportune cautele, dallo stato attuale
di privilegio* alla condizione di diritto comune; non è
motivo per conservare indefinitamente lo stato di pri-
vilegio. Il quale torna, in definitiva, di danno anche e
forse sovratutto agli stranieri. Poiché la separazione as-
soluta, la quale esiste tra la giustizia indigena ed i tri-
bunali consolari, fa sì che la prima non sia soggetta al
controllo e alla critica degli stranieri e la immobilizza
nel suo stato corrotto e imperfetto attuale.
Ora — e qui è il punto essenziale del problema —
a che vale una giustizia perfetta tra gli stranieri, quando
essi sono condannati a vivere in un ambiente dove l'at-
bitrio è regola e dove la giustizia è misconosciuta? In
un ambiente siffatto la cultura e la ricchezza non pos-
sono progredire; la popolazione indigena giace oppressa
e povera. E gli stranieri, invece di essere un elemento
di progresso, di critica, di controllo, diventano, come
purtroppo in molti casi accade ordinariamente in Tur-
chia, gli alleati della ingiustizia. Dalla loro condizione
di privilegio traggono motivo per ottenere favori dalle
autorità turche e concessioni di ogni fatta, a detrimento
delle popolazioni indigene. Invece di essere i pionieri
del progresso, talvolta diventano gli struttatori del pae-
se. Di ciò si giovano non i molti stranieri, i lavoratori,
i commercianti, gli industriali che poggiano soltanto
sulle proprie iniziative e sui propri capitali, ma i pochi
più furbi, i quali, giovandosi delle influenze delle am-
basciate e dei consolati, riescono a strappare conces-
sioni e privilegi, per lo più onerosissimi al pubblico era-
rio e contrari all'interesse generale.
— 11 —
Le quali osservazioni si debbono ripetere rispetto
alia immunità dalle imposte e al regolamento dei dazi
doganali. La immunità dalle imposte a favore degli stra-
nieri produce in Turchia i medesimi effetti che analoghe
immunità produssero in passato in Italia e in ogni al-
tro paese d'Europa. Ricordisi il detto di quel granduca
di Toscana, il quale, contemplando l'estendersi dei la-
tifondi ecclesiastici e nobiliari esenti da imposte, escla-
mò : <( presto al granduca di Toscana non rimarrà un
palmo di territorio su cui potere assidere imposte e con
cui mantenere lo Stato! ». È gloria degli Stati moderni,
venuti dopo la rivoluzione francese, di avere abolito
ogni immunità tributaria di classe e di persone; ed è
doveroso perciò riconoscere alla Turchia il diritto di
seguire il nostro esempio. La immunità produce invero
in Turchia gli stessi effetti deleteri che produceva da
noi in passato. La classe più ricca e più operosa della
popolazione non paga balzelli, mentre pur si giova dei
servizi pubblici; dal che deriva il disagio permanente
delle finanze, la incapacità dello Stato a provvedere ai
doveri fondamentali della pubblica sicurezza, della giu-
stizia, dell'igiene, dell* istruzione. Il peso dei tributi in-
cide maggiormente sui coltivatori indigeni della terra,
i quali per tal guisa immiseriscono e sono scoraggiati
dal migliorare le loro colture. Il privilegio degli stra-
nieri ridonda così in definitiva a loro proprio grandis-
simo danno; poiché essi certamente lucrerebbero di più,
ove potessero vivere in uno Stato a finanze assestate,
con imposte equamente ripartite e con una popolazione
indigena prospera e progressiva, Gli stranieri, rimanen-
do in Turchia attaccati all'immunità tributaria, per un
73
piccolo bene presente rinunciano a un grande beneficio
futuro.
Il divieto fatto alla Turchia di aumentare i dazi do-
ganali senza il consenso delle potenze per sé medesimo
non presta il fianco ad alcuna obbiezione, ed anzi in
definitiva è utile così agli indigeni come agli stranieri,
instaurando un regime di perfetto libero scambio, di
dazi prettamente fiscali e di uguaglianza di trattamento
fra indigeni e stranieri e fra stranieri fra di loro; tutte
cose che la scienza economica grandissimamente loda
e reputa utili all'universale. Ma v'è da osservare — e
l'osservazione è doverosa nella penna di un liberista
— che i benefizi anche grandissimi paiono sempre odio-
si quando sono imposti dallo straniero; che è preferi-
bile di gran lunga uno stato di libertà di scambi, rag-
giunto in seguito all'esperienza di errori protezionisti,
che non un libero scambio imposto dalla civiltà alla
barbarie. Poiché il primo si attua presso un popolo ric-
co; mentre il secondo è l'appannaggio dei popoli mise-
rabili, a cui poco giova l'osservanza delle buone regole
economiche. Finalmente, e sovratutto, notisi che le po-
tenze europee non si sono rifiutate in passato di consen-
tire all'aumento dei dazi doganali dal 4 insino al 15 per
cento odierno; ma hanno fatto dipendere il loro con-
senso dall'ottenimento di concessioni e di favori, intor-
no ai cui malefici risultati sovra mi sono già abbastanza
espresso .
Ben fece perciò l'Italia, nel trattato di Losanna a
consentire all'abolizione condizionata delle capitolazio-
ni. Dimostrava con ciò di essere la patria del diritto e
di avere a cuore gli interessi sostanziali della massa dei
suoi connazionali più che quelli apparenti di pochi pri-
74
vilegiati tra di essi. E io mi auguro che, in questi fran-
genti, l'Italia indichi la via regia lungo la quale l'aboli-
zione delle capitolazioni potrà avvenire con le maggiori
possibili garanzie per i nostri connazionali di oggi e di
domani. Queste garanzie sono necessarie; poiché è ra-
gionevole la diffidenza nostra verso la classe politica ot-
tomana, in cui sovrabbondano i saltimbanchi e gli av-
venturieri, appartenenti a razze diverse da quella ot-
tomana e poco curanti dei destini futuri della loro pa-
tria. Abbandonare i nostri Italiani senza difesa in mano
di costoro sarebbe delitto; sebbene il pericolo grave non
debba farci preferire l'errore di concorrere al manteni-
mento del dannoso istituto, che per somma ventura è
stato abolito.
Scendendo a qualche particolare intorno alle garan-
zie a cui si dovrebbe subordinare il consenso all'abo-
lizione delle capitolazioni, pare a me che le principali
dovrebbero essere le seguenti :
1. l'istituzione di assessori stranieri nei tribunali
territoriali, per quei casi nei quali si dovessero giudi-
care cittadini stranieri. Gli assessori potrebbero essere
designati dai consoli e nominati dallo Stato ottomano,
per salvare il principio dell'unica sovranità territoriale.
La Turchia dovrebbe obbligarsi a introdurre nella pro-
pria legislazione commerciale, civile e penale principi
e regole informati al diritto comune europeo; e questo
diritto dovrebbe essere obbligatorio per tutti coloro i
quali non preferissero il diritto mussulmano. Fino all'in-
troduzione del nuovo codice, i tribunali indigeni do-
vrebbero applicare agli stranieri le stesse norme di di-
ritto finora applicate dai tribunali consolari. Nessun giu-
dizio potrebbe essere iniziato a carico di uno straniero,
— 75 —
senza che ne fosse fatta preventiva denunzia al console
del suo paese; cosicché il console possa eventualmente
provvedere alla difesa. Con queste e simigliane norme,
che i periti agevolmente potrebbero indicare, parmi che
il passaggio dal vecchio al nuovo regime sarebbe faci-
litato, dandosi nel tempo stesso le opportune garanzie
agli stranieri;
2. il divieto di imporre sugli stranieri balzelli di-
versi e più alti di quelli imposti agli indigeni situati
nelle stesse condizioni. A garantire l'esatta osservanza
di questo principio, dovrebbero essere chiamati rap-
presentanti delle varie categorie di stranieri in seno alle
commissioni ed ai corpi ottomani incaricati della ripar-
tizione delle imposte. Gli stranieri non possono preten-
dere nulla di più, fuori che essere trattati alla stessa
stregua degli indigeni; e la presenza di loro delegati in
seno ai corpi ripartitori sarebbe, oltreché una garanzia
per l'esatta osservanza della regola della parità, un
mezzo efficace per introdurre ordine e giustizia nella
amministrazione fiscale, anche a beneficio degli indi-
geni;
3. i dazi doganali potrebbero essere variati ad li-
bitum, dallo Stato ottomano, subordinatamente ad una
condizione : che essi debbano essere variati nello stesso
senso e nella stessa misura per tutte le provenienze
straniere. Dovrebbe insomma essere garantita la parità
di trattamento per tutti gli Stati importatori ed esporta-
tori; così da evitare che si possa da qualche Stato più
inframmettente, con mezzi corruttori, ottenere una con-
dizione di favore per i propri connazionali. Faccia la
Turchia gli esperimenti protezionisti che ad essa meglio
talentino; ma tratti tutti gli stranieri alla stessa stregua.
— 76 —
La quale condizione è quella che massimamente giova
all'Italia, come alla nazione che, per fortuna, è meno
abile nelle triste arti del corrompere la burocrazia turca
e più ha da giovarsi, per il buon mercato di molti suoi
prodotti, della parità di trattamento.
4. il regime delle concessioni governative sia sta-
bilito su basi chiare, semplici, legali. Anche qui la Tur-
chia dovrebbe, del resto nel suo vantaggio, stabilire un
sistema di pubblicità nelle concessioni di ferrovie, di
lavori pubblici, di sfruttamenti minerari, dando la pre-
ferenza a chi offre condizioni migliori all'erario otto-
mano, sia egli indigeno o straniero ed a qualunque na-
zionalità appartenga. Ove questo principio fosse adot-
tato, grande vantaggio ne ricaverebbero gli Italiani, il
cui spirito d'intraprendenza dovrebbe essere stimolato
ad assumere per proprio conto l'appalto di imprese che
oggi gli stranieri ottengono grazie a favoritismi, giovan-
dosi poi della mano d'opera italiana per condurle a
termine.
(Dalla « Minerva », 1° ottobre 1914).
DECADENZA INGLESE?
Nell'atto in cui, con la morte di Vittoria e l'assunr
zione al Trono di Edoardo VII, si chiude il più impor-
tante e forse più glorioso periodo della storia inglese,
e uno nuovo se n'apre, una grande incognita si pre-
senta a chi guarda il futuro della potenza economica
e politica d'Inghilterra
Il grido d'allarme, che un terzo di secolo fa innal-
zava il Jevons, ha trovato oggi nuovamente un'eco pro-
fonda ed una discussione vivissima ed interessante si
prolunga su per le riviste e per i giornali per sapere se
l'Inghilterra si trovi giunta al culmine della sua potenza
industriale e stia per discendere la china della deca-
denza, oppure ancora le sia aperta dinanzi la via del
progresso.
L'imperialismo è una manifestazione sterile di or-
goglio da parte di un paese che vede di non poter
oltre progredire, oppure è la genuina espressione di una
vita esuberante che cerca di espandersi al di là dei con-
fini della patria?
Gli argomenti non mancano a coloro i quali riten-
gono prossima la decadenza britannica. La concorrenza
ognora più formidabile della Germania e dell'America,
la perduta supremazia nelle grandi industrie del ferro e
dell'acciaio e sopratutto rincarimento progressivo del
costo di estrazione del carbone, sono fenomeni i quali
— 78 —
fanno seriamente dubitare essere giunta l'ora in che
l'Inghilterra dovrà scendere alla condizione di potenza
industriale di second'ordine e ritenersi paga di venire
ricordata con affetto e con venerazione dalle numerose
colonie anglo-sassoni fondate dai suoi figli nelle varie
parti del mondo.
L'Inghilterra fu grande nel secolo nostro, in special
guisa perchè le ricchissime miniere di carbone e di ferro
le permisero di diventare la fornitrice di manufatti per
tutto il mondo e di trasportare sulla sua flotta mercan-
tile i prodotti dei paesi più lontani. Ma oggi che in ogni
luogo si scoprono nuove miniere coltivabili a bassissi-
mo costo e che le miniere inglesi vanno esaurendosi di
giorno in giorno, l'Inghilterra non potrà più mantenere
l'antica posizione. A poco a poco, una dopo l'altra le
innumerevoli fabbriche esuleranno dal suolo britannico,
trasmigrando verso luoghi meno favoriti dai doni della
natura. In Inghilterra rimarranno solo alcuni opifici di
oggetti di lusso e le opulenti case dei ricchi colonizza-
tori del mondo; ma la vita febbrile ed intensa dell'oggi
più non si vedrà.
Tale il quadro che Jevons faceva dell'Inghilterra fu-
tura; ed il quadro oscuro viene oggi nuovamente trac-
ciato coi medesimi colori da altri indagatori pessimisti.
Le nere previsioni meritano di essere discusse anche
da noi, perchè nessun paese potrebbe rimanere insen-
sibile dinanzi ad un fatto che muterebbe la carta in-
dustriale dell'Europa e, spostando le sedi della ricchez-
za economica, sposterebbe necessariamente altresì le
sedi della potenza militare e politica.
È perciò che noi crediamo opportuno riassumere in
breve gli argomenti, coi quali uno dei più illustri eco-
— 79 —
nomisti e statisti inglesi, sir Robert Giffen, nell'ultimo
fascicolo dell' Economie Journal ha voluto neramente
opporsi alla tendenza pessimista che vuole intravedere
nel futuro un'Inghilterra decaduta ed impotente.
La prosperità inglese, egli afferma, non è un fatto,
il quale sia destinato a cessare collo scomparire di una
o due delle condizioni che l'hanno resa possibile nel
passato. Essa è andata crescendo continuamente nei
due ultimi secoli e la rapidità del suo incremento è di-
venuta ognora maggiore. Le cause occasionali e mo-
mentanee di questa grandezza economica, possono es-
sere state tali che il tempo può farle scomparire... Così
scomparve l'industria della lana che un giorno formava
la gloria della nazione; e si alternarono con vicende
or prospere or avverse, le manifatture del cotone, del
ferro, del carbone, della costruzione di navi. La colo-
nizzazione dell'America e dell'Australia, ed ora quella
del Sud-Africa, i progressi commerciali dell'India e per-
sino la guerra franco-tedesca contribuirono a crescere
la ricchezza nazionale.
Ma, se queste condizioni esterne e parziali potran-
no forse nel futuro far difetto, non scompariranno giam-
mai — è da sperare — quelle condizioni fondamentali
su cui poggia la vera grandezza dell'Inghilterra : voglia-
mo dire le qualità ingenite ed acquisite della popola-
zione e la grande copia di capitale accumulato.
Non c'è nessun motivo per credere che la popola-
zione inglese vada degenerando e che il capitale cessi
di cumularsi in masse prodigiose ed atte a sopportare
i crudi colpi della concorrenza estera e della scompar-
sa di taluni speciali industrie, come quella del ferro e
del carbone.
— 80 —
La generazione presente è altrettanto e forse più vi-
gorosa di quelle passate, e se la ricchezza già acquisita
ne ha scemata alquanto l'antica rabbiosa smania di ele-
varsi con energia incessante, pure non sembra che i
figli siano meno dei loro padri disposti a cercar nuove
vie all'impiego dei capitali e delle intelligenze.
La concorrenza estera medesima divenendo più ac-
canita, stimola continuamente gli imprenditori ed im-
pedisce loro di addormentarsi sugli allori conquistati. Il
rivale straniero, arricchendo se stesso, giova contempo-
raneamente all'industria inglese. I suoi clienti, com-
prando a minor prezzo, possono ottenere un risparmio
che altrimenti non avrebbero avuto e possono impi©
garlo in compre addizionali. Da tempo immemorabile
in tutte le epoche in cui la prosperità dell'Inghilterra
più velocemente cresceva, si udirono lagnanze inces-
santi contro i concorrenti esteri e previsioni continue di
disastri e di mine. Il fatto che coteste previsioni non si
verificarono' mai nella realtà, è arra che anche nel fu-
turo si può fare a fidanza sulle qualità preziose di ener-
gia e di intraprendenza del popolo inglese per superare
quelle crisi che ai padri non ostacolarono il cammino
sulla via del progresso.
Nemmeno crede il Giffen che si debba far gran
conto della innegabile decadenza nelle industrie del
ferro e del carbone. Se la produzione del ferro e del
carbone fosse il solo fondamento della prosperità del
paese, certamente si dovrebbe essere allarmati. Ma ciò
è vero? Non ha forse la nazione progredito e non con-
tinua forse a progredire in mirabil guisa, malgrado che
essa debba provvedersi all'estero di quasi tutte le ma-
terie greggie, e delle derrate alimentari? Nel mondo
— 81 —
moderno la diminuzione dei prezzi di trasporto fa sì
che fitta popolazione possa prosperare e numerose fab-
briche possano essere esercitate in luoghi diversi da
quelli ove si producono le materie greggie e gli alimenti.
Quanto al carbone, i sistemi perfezionati nell* utilizzarlo,
lo rendono sempre meno necessario ad una nazione
manifatturiera. Una volta era necessario consumare 50
lire di carbone per produrre oggetti del valore di L. 100
che si vendevano a 105. In quelle condizioni una dif-
ferenza del 10 per cento nel costo di produzione del
carbone a vantaggio di un concorrente estero avrebbe
avuto un'importanza grandissima, assorbendo l'intiero
profitto dell'impresa. Grazie alle invenzioni moderne,
50 lire di carbone bastano ora per produrre 1000 lire di
manufatti. Una differenza del 10 per cento nel prezzo
del prodotto assorbirebbe solo un decimo del profitto
e potrebbe essere sopportato con facilità.
È uno sbaglio perciò credere che una industria spe-
cifica sia necessaria ad una nazione che ha una grande
varietà nella popolazione, nelle industrie e nei commerci
e possiede un grande capitale. Non c*è nessuna indu-
stria che sia veramente indispensabile alla vita di un
paese. La società deve seguire i tempi e mutare conti-
nuamente, cosicché l'industria « indispensabile » di un
periodo può scendere senza danno ad un grado affatto
secondario di importanza e forse scomparire del tutto,
lasciando il luogo ad altre industrie « indispensabili ».
Forse l'Inghilterra di domani sarà molto diversa dal-
l'Inghilterra del ieri, ma non sarà perciò meno ricca e
potente.
(Dal Corriere della Sera, 4 febbraio 1901).
LE DUE VIE DELL'IMPERIALISMO
In un eloquente articolo sul Corriere della Sera del
17 settembre scorso, il senatore Pasquale Villari ha ri-
preso, ragionando di due libri sull'Inghilterra, l'uno
scritto dall'italiano professor Dalla Volta e l'altro dal-
l'inglese Lord Milner, un antico* dibattito che in Inghil-
terra dura da tempo fra liberisti e imperialisti, fra i
Little Englanders, fautori del piede di casa, della mas-
sima libertà e indipendenza concessa alle colonie, e gli
esaltatori della Greater Britain, i quali vogliono dalla
più grande Inghilterra far sorgere il fatto grandioso del-
l'Impero inglese, di uno Stato mondiale, composto di
nazioni autonome, ma insieme riunite da stretti vincoli
politici ed economici. Lord Milner rivendica la tradi-
zione di Disraeli (Lord Beaconsfield), si inspira ai con-
cetti imperialisti svolti nelle celebri opere del Dilke e
del Seeley e vivacemente difende il programma colo-
nialista e imperialista e protezionista del Chamberlain
contro le accuse dei liberisti, tenaci oppugnatori di ogni
dazio doganale di favore per le colonie, e seguitatori
delle idee dei Cobden e dei Bright, che ai loro tempi
avevano ottenuto la abolizione dei dazi doganali protet-
tivi e avevano anche propugnato 1* abbandono delle
colonie e della politica conquistatrice e imperialista.
Contro questi liberisti dal cervello piccino, incapaci
di larghe vedute politiche e storiche, Lord Milner, il
84
quale volle la guerra coi Boeri e fu il primo proconsolo
inglese nel Sud Africa riunito sotto il dominio inglese,
si arrabbia. Questi micromani, questi ostinati Little En-
glanders — dice il Milner — guardano solo al soldo;
si oppongono all'introduzione di un dazio di 2 scellini
per quarter — circa 80 centesimi per ettolitro — sul
grano forestiero, perchè rincarirebbe di altrettanto il
prezzo del pane consumato dall'operaio inglese; e non
s'avvedono che il piccolo sacrificio è voluto da noi im-
perialisti non per sé stesso, ma solo come un mezzo per
permettere alle colonie di venderci esse il loro frumento
in esenzione di dazio ad esclusione del grano prove-
niente dagli Stati Uniti, dall'Argentina, dalla Russia!
Non vogliono comprendere che il piccolo dazio contro
il grano straniero è un mezzo per creare il grande im-
pero britannico, in cui la metropoli e le colonie forme-
ranno tutt'un complesso economico, insieme riunito da
vincoli strettissimi di interessi. Che cosa sono le dispute
piccole e grette su alcuni dazi protettivi contro lo stra-
niero e a prò delle colonie, quando si tratta di cemen-
tare un impero di 400 milioni di uomini, di rassodare
la pax britannica in un territorio immenso e di trasfor-
mare la vaga e sciolta confederazione odierna, riunita
da vincoli quasi soltanto nominali, in uno Stato com-
patto, mondiale, deciso a perpetuarsi nella storia di
fronte agli altri organismi potenti che nel mondo si
vanno formando?
La disputa è interessante non solo per 1* Inghilterra;
che anche noi dovremo scegliere presto e seriamente
la via da seguire per creare vincoli non di dominio puro
ma di interessi e di affetti tra la madrepatria e le nostre
ingrandite colonie. Anche da noi, come in Inghilterra,
— 65 —
come in Francia, come in Germania, si porrà il proble-
ma del modo migliore di creare l'Impero e renderlo
duraturo. Perciò mi sembra opportuno di esporre quello
che io credo essere il vero fondamento del trionfante
imperialismo britannico, ben diverso dal protezionismo
coloniale additato da Lord Milner e dai suoi compagni
di fede imperialista.
Sì, è vero: Cobden, Bright e gli altri apostoli del
liberismo furono dei Little Englanders; volevano ricca
e prospera la madrepatria e volevano lasciare le colonie
liberissime di provvedere a se stesse; ne avrebbero
rimpianto un pacifico distacco delle colonie dalla ma-
drepatria. Perciò essi furono detti adoratori della pic-
cola Inghilterra e nemici dell'Impero inglese. Mentre
il Chamberlain e Lord Milner sono detti imperialisti,
perchè proclamano la necessità dell'Impero, e vogliono
vincoli doganali più stretti fra le colonie e la madre-
patria.
Tutto ciò è verissimo; ma è anche vero che queste
sono parole e discorsi. La storia non si fa con le parole
e coi discorsi, ma con gli atti e coi fatti. Lo storico non
deve guardare a ciò che gli uomini dissero; ma alle
conseguenze vere delle azioni compiute dagli uomini;
e dichiarare creatori dell'impero quelli che lo crearono
di fatto o coi loro atti lo cementarono, anche se a pa-
role essi non se ne curarono O' gli erano nemici; e con-
siderare come distruttori dell'impero quelli che compi-
rono od avrebbero compiuto atti destinati a rompere
i vincoli tra le diverse parti dell'impero, anche se essi
da sé medesimi si erano proclamati i banditori dell'im-
perialismo.
66
Ora, a me sembra che, se noi guardiamo la storia
da questo punto di vista, niun dubbio vi possa essere
sull'intima virtù imperialista degli atti compiuti dai li-
beristi inglesi e in genere dai cosidetti Little Englanders
e sulla forza distruttiva dell'impero che avrebbero, se
tradotte in fatti, le idee dei neo-imperialisti e protezio-
nisti alla Chamberlain o alla Milner.
Che cosa fecero invece i liberisti inglesi? Abolirono
i dazi protettori che gravano sull'importazione delle
merci straniere e coloniali nella Gran Bretagna. Li abo-
lirono sulle merci e sulle derrate di ogni provenienza,
sia che venissero da paesi stranieri o dalle colonie. E
quale fu l'effetto di questa politica? Che mentre prima,
all'epoca del sistema coloniale e del protezionismo, gli
inglesi compravano pochissimo dalle colonie, perchè i
dazi aumentavano il prezzo delle merci e rincaravano
la vita e diminuivano la capacità di consumo delle
masse, dopo acquistarono assai di più dalla Germania
e dalla Francia e dagli Stati Uniti, ma divennero anche
ottimi clienti delle proprie colonie. Il Canada, l'Austria
lia, l'India non vendettero mai tanto alla madrepatria
come quando furono costretti a subire ivi la concorrenza
dei produttori stranieri, a perfetta parità di condizioni;
poiché furono altresì costretti a inventar modi di ri-
durre i costi per ribassare i prezzi, dovettero indirizzare
lavoro e capitale a produrre ciò che ai concorrenti non
sarebbe riuscito di produrre con altrettanta perfezione.
Oggi i vincoli economici tra la madrepatria e le co-
lonie sono intensi e saldissimi perchè fondati sul libero
volere dei consumatori metropolitani, i quali trovano
convenienza a comprare certe merci e certe derrate più
— 87 —
dalle colonie che dai paesi stranieri. Togliete questa
libertà di scelta, costringete i consumatori metropolitani
a comprare piuttosto il grano del Canada che il grano
degli Stati Uniti, perchè su questo grava un dazio di
2 scellini per quarter da cui il primo è esente, e voi
avrete reso odioso il Canada alle masse popolari in-
glesi; voi avrete gettato un germe di dissoluzione nel-
l'edificio superbo' dell'impero inglese, poiché avrete
dato motivo all'oratore popolare nei comizi elettorali
inglesi di scagliarsi contro i canadesi affamatoli del
popolo, contro la alleanza malvagia dei farmers del
Far-west canadese coi grandi proprietari inglesi allo
scopo di affamare le classi operaie. Ed un impero, il
quale vive provocando il malcontento delle masse me-
tropolitane, non può durare.
Che cosa vollero, ancora, i Little Englanders per le
colonie? Vollero lasciarle libere e padrone di se; vollero
che l'autorità del governo e del parlamento britannico
su di esse fosse puramente nominale. E così ottennero
che quel complesso di popoli, i quali nel primo otto-
cento erano invidiosi fra di loro e malfidi verso la ma-
drepatria, divenisse un impero saldo e fortemente unito
in cui le colonie vanno a gara nell'offrire navi da guerra
alla madrepatria per la difesa comune. Chi riconosce
nel Canada leale, devoto e fedele d'oggi, il Canada
turbolento di prima del 1850, le cui sollevazioni dove-
vano essere represse colla forza? Chi riconosce nel lea-
lissimo Sud Africa d'oggi, a capo di cui sta il generale
boero Botha, il torbido paese a cui presiedeva dieci
anni addietro Lord Milner?
Se la storia vuole essere giusta, deve riconoscere
che questa mirabile e profonda trasformazione è stata
— 88 -
dovuta all'adozione delle idee dei liberisti e dei Little
Englanders. Quelli vollero che le colonie potessero li-
beramente colpire di dazi tanto i prodotti metropolitani
come quelli stranieri; e nessuna preferenza vollero fosse
concessa ai prodotti della madrepatria in confronto ai
prodotti stranieri. E così accadde che mentre prima,
col sistema coloniale, i coloni si inferocivano contro la
madrepatria che vietava loro di provvedersi altrove a
buon mercato delle cose necessarie all'esistenza, delle
macchine e dei vestiti e li obbligava ad acquistarli a
caro prezzo sul suo mercato, dopo le si affezionarono,
quando videro che essa li lasciava liberi di comprare
altrove, sforzandosi però di produrre ed offrire le stesse
merci a più basso prezzo degli stranieri per attirare a
se la clientela coloniale. Coli' antico sistema protezioni-
sta ed imperialista, la madrepatria vendeva poco alle
colonie, perchè vendeva a caro prezzo; ne credeva di
aver interesse a vendere a buon mercato, essendo forte
del monopolio di cui godeva sul mercato coloniale, a
causa dei dazi differenziali che le colonie erano costrette
a mettere sui prodotti stranieri; sicché la madrepatria
era diventata odiosissima ai coloni, che la guardavano
come un sfruttatrice e le si rivoltavan contro procla-
mando la libertà degli Stati Uniti.
Il Seeley, che è senza dubbio il maggior teorico
dell'imperialismo britannico, ben fa vedere come la
distruzione della Greater Spain, del Greater Portugal,
della Greater Holland, della Greater France e della
Greater Britain, le quali esisterono lungo i secoli XVI,
XVII e XVIII, fu in notevole parte dovuta ai vincoli onde
le colonie erano legate alla madrepatria. E se oggi la
nuova Greater Britain è più salda assai della Greater
— 89 —
Britain del secolo XVIII, la maggior saldezza e la spe-
ranza di più lunga durata sono dovute all'assenza di
ogni vincolo economico legale che asservì le colonie
alla madrepatria. Che se oggi, ancora, le colonie man-
dano i loro primi ministri a sedere col primo ministro
e col segretario degli esteri inglesi in una « Conferenza
britannica » a Londra, se spontaneamente le colonie
votano milioni e corazzate per la difesa imperiale, se
la costituzione di « Senato imperiale » non è più un
sogno assurdo, ma sta diventando una realtà concreta,
ciò non è dovuto ai nefasti progetti del Chamberlain,
ma alla politica dei vecchi e nuovi Little Englanders
i quali vollero dare alle colonie libertà di rispondere
di no ai desideri e ai voleri della madrepatria e, dando
loro questa libertà, le indussero ad assentire volonta-
iamente, nelle maniere discusse insieme, d'accordo con
la madrepatria, ai nuovi grandi piani di unione im-
periale.
Dio salvi dunque l'impero inglese dagli imperialisti
e dai protezionisti che, per interesse o per infatuazione,
lo vogliono rovinato; e Dio salvi il nostro paese dallo
stesso pericolo, nella opera appena iniziata di forma-
zione di una più grande Italia! La storia insegna che
quelle sole colonie si conservano alle quali si dà libertà
di vivere come esse vogliono; e che quei soli vincoli
coloniali sono duraturi e fecondi che poggiano sull'in-
teresse, liberamente veduto e seguito dalle due parti,
non sulla forza di leggi imposte dalla madrepatria. Vor-
remo noi seguire questa lezione della storia?
(Dalla Minerva, 15 ottobre 1913).
CHE COSA È L* IMPERO BRITANNICO
Che la guerra europea, benché sia combattuta sul
continente e benché richieda alle nazioni continentali
il sacrifìcio maggiore di vite, sia in realtà una lotta per
il primato fra Germania ed Inghilterra, è verità di cui
sono ugualmente convinti inglesi e tedeschi. I quali ul-
timi, mentre non nascondono le intime simpatie del
cuore per i francesi e non repugnano ad accordi con la
Russia, considerano l'Inghilterra come la loro vera irre-
ducibile nemica.
È un odio che nelle classi meno colte della Germania
trae forse principalmente origine dalla credenza di una
supposta necessità di lotta a morte con l'Inghilterra per
la rovina economica dell* avversario e la conseguente
grandezza propria; mentre nell'Inghilterra e presso le
medesime classi sociali si diffondono credenze altret-
tanto erronee e funeste intorno alla necessità di schiac-
ciare la Germania per salvare l'economia britannica
dalla rovina.
Pur non negando che queste false immagini dei pe-
ricoli, .che discenderebbero dal vigoreggiare della con-
trada rivale, abbiano grandemente contribuito alla se-
minagione dell'odio da cui scaturì la guerra, io non
intendo qui occuparmene. Certamente anche chi, al par
di me, sia persuaso che la rivalità tedesca fu invece
non ultima causa del rifiorire grandioso della economia
— 92 -
britannica dopo il 1900 e ritenga d'altro canto che il
contributo del mercato monetario londinese alla risur-
rezione dei paesi nuovi dell'America, dell'Africa e del-
l'Asia fu cagione non trascurabile dello sviluppo mera-
viglioso della ricchezza tedesca negli ultimi 25 anni,
deve riconoscere che le credenze erronee degli uomini
partoriscono talvolta effetti più grandiosi delle verità più
certe e profondamente meditate. E quindi può darsi
che i tedeschi si sentano animati alla lotta contro l'In-
ghilterra dalla speranza di diventare più ricchi e po-
tenti nel giorno in che siano riusciti ad annientare la
loro rivale ricca e potente d'oggi.
Ma è doveroso riconoscere che non tutti i tedeschi
ragionano in cotal maniera materialistica e predatoria.
Anzi gli uomini veramente rappresentativi della Ger-
mania, quelli che dai connazionali sono reputati i veg-
genti ed i profeti della missione storica germanica abor-
rono da questa maniera di ragionare. Udiamo il vangelo
di Treitschke, alla cui fonte si sono abbeverate tutte
le classi intellettuali e dirigenti della Germania d'oggi.
Egli non predica la crociata contro 1* Inghilterra, perchè
essa sia una temibile e forte e sana concorrente della
Germania. Egli invece la odia perchè la reputa una
maschera, una entità non esistente, una vergogna che
non ha diritto di esistere. « In questo nostro mondo
— egli afferma — la cosa che è intieramente una ma-
schera, una falsità, una falsità corrotta, può trascinare
la sua vita per qualche tempo, ma non può durare per
sempre ». Ed altrove: « Non fu la grandezza della sua
condotta politica che, come già creò Venezia, ha creato
ora l'Impero inglese; bensì l'azzardo della sua situazione
93
geografica, la remissività supina delle altre nazioni e
la naturale ed innata ipocrisia della nazione inglese.
Vecchia Inghilterra! decrepita e corrotta fino al mi-
dollo! ».
Se fosse vero che l'impero inglese è una cosa falsa,
ipocrita e corrotta, se esso fosse davvero una maschera
priva di contenuto, un colosso dai piedi di creta, sen-
z'ai cun dubbio il suo fato sarebbe indeprecabile e la
storia dovrebbe registrarne ben presto la rovina. Nes-
suno Stato ha, non dirò il diritto ma la possibilità di
vivere quando esso è fondato sull'inganno e sull'astuzia,
fortificato dall'ipocrisia e raccom|andato ad un'idea
falsa di una forza inesistente. I tedeschi — e dico i te-
deschi per indicare quel qualunque popolo che si sen-
tisse la forza di rovesciare l'idolo — non avrebbero, se
fosse esatta la rappresentazione che essi si fanno del-
l'impero inglese, ragione di odiare l'Inghilterra perchè
essa è la loro rivale economica. Essi avrebbero ragione
di odiarla e di rovesciarla perchè in realtà essa non
sarebbe veramente una rivale degna di misurarsi con
loro nel campo aperto e libero delle competizioni com-
merciali; ma una tiranna che colla forza dell'astuzia e
dell'inganno cercherebbe di ottenere lucri, a cui sarebbe
incapace di giungere onestamente, col lavoro emulatore
e fecondo.
La guerra contro l'Inghilterra sarebbe una cosa
turpe e dannosa, se essa mirasse a distruggere una na-
zione che ha il solo peccato di rivaleggiare con la Ger-
mania colle oneste arti dell'industria e del commercio
in campo aperto. La guerra, come la predicò per tanti
anni il Treitschke, sarebbe invece una santa impresa
perchè mirerebbe a togliere di mezzo un mostruoso
— 94 —
colosso, chiamato impero inglese, sorto coll'inganno e
vivente di frodi diuturnamente commesse a danno del-
l'umanità. Siccome la vittoria delle idee vere, profon-
damente rispondenti a realtà, è irresistibile, la caduta
della Inghilterra sarebbe inevitabile. Più o meno presto,
attraverso la varia fortuna delle armi, l'impero inglese
dovrebbe andar distrutto e sulle sue rovine si instaure-
rebbero altri imperi mondiali. Di fronte a questo pro-
blema : della vittoria della cosa viva e reale, dell'idea
vera e sana contro la cosa vuota ed ipocrita, contro
l'idea falsa; scompare l'altro problema : chi debba vin-
cere tra il business-man inglese ed il commesso viaggia-
tore tedesco. Costoro sono soltanto le fronde esteriori
di un albero che ha le sue profonde radici nella terra;
e cadranno prime le fronde di quell'albero le cui ra-
dici sono marcie e decrepite.
Il problema è dunque : l'impero inglese è una cosa
falsa, una apparenza vana, sorta colla frode e man-
tenuta coli' ipocrisia? Rispondere chiaramente a questa
domanda è nell'interesse così degli inglesi come degli
altri popoli; degli inglesi, perchè un popolo consapevole
dei propri difetti, è sulla via della redenzione; degli
altri, poiché non giova a nessuno farsi un'idea falsa
delle virtù e dei vizi degli amici e degli avversari.
Ora, mentre gli inglesi hanno contribuito moltissimo
alla conoscenza di se stessi; mentre tutta la loro lette-
ratura politica è una analisi per lo più straordinaria-
mente oggettiva e critica della loro storia e della for-
mazione del loro impero; non mi sembra che fuori del-
l'Inghilterra si sia seguito con abbastanza attenzione
il movimento di idee e di fatti che tendono alla rinno-
vazione dell'impero inglese. L'ultimo dei grandi italiani
— 95 —
che conobbe a fondo, nello spirito e nelle linee essen-
ziali, l'Inghilterra fu una mente politica sovrana : Ca-
millo di Cavour. Dopo di lui e presso le nuove gene-
razioni, l'Inghilterra non è ancora quella cosa irreale
e grottesca che ha immaginato il Treitschke, ma è di
nuovo la nazione di mercanti astuti, che sfrutta le fa-
tiche degli altri, che esce arricchita dalle guerre combat-
tute fuori dall'isola superba e padrona delle terre irro-
rate dal sangue dei popoli ingenui, l'ipocrita che predica
in casa d'altri l'ideale della nazionalità ed intanto
freddamente commette gli eccidi indiani, annette l'E-
gitto, distrugge l'indipendenza boera; la nazione missio-
naria che tuona contro i delitti dei belgi nel Congo e
si macchia, senza batter ciglio, degli orrori dei campi
di concentrazione del Transvaal. Ed è innegabile che
presso gli inglesi si trova suppergiù quella medesima
percentuale di gente falsa, ipocrita e crudele che, in
identiche circostanze, è esistita ed esisterebbe presso
ogni altro popolo della terra. Ma non è di questi in-
cidenti che si compone la gran trama della storia; ne
da questi fatti possiamo trarre argomento a giudicare
della posizione che ebbe ed ha nella storia e nella vita
del mondo l'impero inglese; così come nessuno di noi
vorrebbe giudicare l'opera grandiosa dell'impero ro-
mano sull'unico fondamento delle crudelissime azioni
che non di rado i romani commisero contro i popoli ne-
mici e soggetti.
No. L'impero inglese si deve giudicare ricordando
che esso è l'unico sopravvivente di quattro anzi di
cinque grandi imperi che dal secolo decimosesto al
decimottavo si succedettero nel mondo : l'impero por-
%
toghese, l'impero spagnuolo, l'impero olandese, l'im-
pero francese ed il vecchio impero inglese. Piuttosto
si deve dire, poiché la parola « impero » non è del tutto
appropriata, come, prima che sorgesse la odierna « più
grande Inghilterra » erano sorte e si erano dileguate
cinque altre « più grandi » formazioni storiche, che
avevano preso il nome dalla contrada europea relativa-
mente piccola che aveva allargato il suo dominio nei
paesi nuovi d'America e d'Asia; il Portogallo, la Spa-
gna, l'Olanda, la Francia e l'Inghilterra medesima.
Tutte queste cinque « più grandi » nazioni avevano
contribuito alla formazione del mondo moderno; ma
tutte scomparvero; e solo qua e là si veggono galleg-
giare ancora i resti di quelli che parevano un giorno
dominii mondiali destinati a sfidare i secoli. Scomparve
il « più grande Portogallo »; perchè all'opera ambiziosa
di popolare e civilizzare il Brasile, le Indie e gran parte
delle coste africane male rispondevano la piccolezza
della popolazione della madrepatria e sovratutto la re-
pugnanza ai lavori dell'industria, l'intolleranza religiosa,
la corruzione amministrativa degli avventurieri posti a
capo delle fattorie commerciali nelle colonie, la libidine
del lucro rapido, che li indusse a voler escludere a forza
gli arabi dal commercio indiano e ad instaurare dapper-
tutto un monopolio geloso e sterilizzatore a prò dei ne-
gozianti della madrepatria.
Cadde la « più grande Spagna » e nella sua caduta
trascinò con se la madrepatria; perchè gli spagnuoli
considerarono le Americhe come un terreno da sfrut-
tare, come una riserva di caccia, dove gli indiani fos-
sero stati da Dio creati pef scavare Toro a prò dei do-
97
minatori. La superstizione dell'oro non produsse forse
mai nella storia una decadenza altrettanto tragica come
quella dell'impero su cui il sole non tramontava mai.
Lasciate in abbandono le terre e le industrie, gli spa-
gnuoli considerarono come la loro vera industria nazio-
nale quella del guadagnare oro nelle Americhe; e loro
accumulato sperperarono in guerre incessanti combat-
tute per conservare un dominio odioso in Italia e nei
Paesi Bassi ed il predominio nell'Europa. Epperciò,
malgrado i galeoni d'oro che formavano l'invidia d'Eu-
ropa, il tesoro spagnuolo era poverissimo, gli abitanti
della madrepatria disusati al lavoro fecondo, i coloniali
malcontenti e desiderosi di libertà.
Lo stesso sogno di supremazia europea pèrdette
l'impero francese; a cui tuttavia non avevan fatto di-
fetto le concezioni geniali dei Sully e dei Colbert ed il
valore di generali meravigliosi. Anche la Francia volle
che le colonie servissero alla madrepatria; pretese che
esse dovessero fornirle materie prime e prodotti colo-
niali, in cambio dei manufatti, di cui in patria si pro-
muoveva l'incremento con privilegi gelosi. 1 francesi,
come è loro costume antico, mandarono nelle colonie
funzionari numerosi e brillanti ufficiali di corte : e per
correre dietro alle apparenze dimenticarono quella co-
lonia del Canada che ancora oggi è la dimostrazione
vivente dei miracoli che avrebbe potuto compiere nel
mondo la Francia religiosa, prolifica, patriarcale, rurale
dell'antico regime, se la classe politica dirigente del
secolo XVIII non fosse stata così inferiore alla sua
missione; e se non avesse ritenuto di potere conservare
con guerre incessanti e depauperanti in Europa il do-
minio del mondo.
— 98 —
Ne potè essere salvata dalla decadenza « la più
grande Olanda », a cui il possesso di Giava, Sumatra
e delle isole della Sonda non basta a conservare lo
scettro di impero mondiale, che per un istante pareva
avesse conquistato. Abitanti di un paese troppo piccolo
per aspirare permanentemente ad una grande situazione
europea, privi dei caratteri di una nazione veramente
autonoma territorialmente ed idealmente, gli olandesi
sovratutto non vollero l'impero, con tutte le responsa-
bilità e gli oneri gravissimi che esso comportava. Essi
si preoccuparono soltanto di conservare quelle colonie
da cui potevano ricavare un reddito pecuniario diretto.
Ottimi mercanti; esperti e benemeriti amministratori
delle isole che sono loro rimaste, mancarono dello spi-
rito imperialistico, avventuroso, idealistico che spiega
il fiorire delle colonie di popolamento. L'Africa del Sud
avrebbe potuto essere una loro grande creazione; ma
gli olandesi 1* abbandonarono a se stessa e se ne ricorda-
rono solo, meravigliando, nei giorni dell'eroica resisten-
za boera.
E cadde finalmente la « più grande Inghilterra » del
secolo XVIII; quella che si era silenziosamente e quasi
inavvertitamente formata sulle coste dell'Atlantico dopo
il 1600. Gli Stati Uniti si separarono perchè l'Inghilterra
del secolo XVIII, l'Inghilterra di Giorgio II e di Gior-
gio III, di Walpole, di Lord North e della Cabala non
aveva nulla da dire agli uomini religiosi, puritani, che
da sé avevano assunto la missione di conquistare la
foresta e la prateria al regno di Dio. Nessun vincolo
ideale riuniva i fondatori delle f3 colonie nord-ame-
ricane alla madrepatria; ed essi erano dntimamente
scandalizzati nel vedere con quanta leggerezza il Par-
— 99 —
lamento inglese, tutto occupato intorno a piccoli intrighi
di corte e di piazza, attentava senza accorgersene alle
loro franchigie. Le casse di tè, che i coloni buttarono
nel porto di Boston indicarono non solo che essi non
intendevano di pagare imposte senza avervi prima dato
il loro consenso; bensì anche che essi non avevano alcun
ideale comune con gii uomini che allora rappresenta-
vano l'Inghilterra.
Era un conflitto di coscienze, dal quale pareva che
l'idea di un impero inglese non potesse più risollevarsi.
Per anni e per decenni si credette in Inghilterra che
non fosse ne possibile ne utile la conservazione di un
ampio dominio coloniale. Le colonie si consideravano
come il frutto che, giunto a maturanza, si stacca da se
dall'albero che gli ha dato vita. Fatte adulte e robuste
le colonie erano destinate a diventare indipendenti,
conservando con la madrepatria vincoli puramente
ideali e morali; ed il compito della vecchia Inghilterra
doveva essere quello di una madre e nutrice amorosa,
paga di sacrificare se stessa ai figli e lieta di vederli
sciamare pel mondo in cerca di avventure, dimentichi
quasi di chi aveva loro dato e conservato la vita.
Questa la teoria dominante dal giorno in cui l'Inghil-
terra si adattò a riconoscere l'indipendenza delle colonie
nord-americane fino a ben oltre la metà del secolo XIX.
Malgrado essa, noi vediamo oggi l'impero inglese più
compatto, più unito, più conscio della necessità di con-
servare e di intensificare i legami che uniscono le varie
sue parti quanto non sia stato mai. La « più grande
Inghilterra » del secolo XVIII è scomparsa; ed al posto
di essa sono sorti due grandi imperi, tra i maggiori che
mai si siano visti nella storia : gli Stati Uniti e l'impero
— 100 —
inglese. Come accadde il miracolo della risurrezione
di questa che parve 140 anni fa una cosa morta; e quali
sono le ragioni per cui gli uomini, che vivono nell'im-
pero, sono concordi nel volerlo rendere, per quanto
è possibile in loro, più solido e più forte? Gli imperi
portoghese, spagnuolo, olandese, francese ed inglese
dei secoli XVI, XVII e XVIII caddero tutti per cause
interne. L'urto che venne dal di fuori affrettò soltanto
un processo di dissoluzione che si era iniziato ed aveva
fatto grandi progressi all'interno. Potrà darsi che sta-
volta l'impero inglese cada soltanto per l'urto esteriore
di una infelice battaglia navale, la quale tolga agli in-
glesi il dominio del mare. Ma è certo che un disastro
navale inglese sembrerebbe corrispondere ad una ne-
cessità storica, parrebbe lo strumento fatale dell'attua-
zione di un nuovo ideale umano solo quando, come
dicono i teorici tedeschi, l'impero inglese fosse una
maschera vuota; una cosa vana e falsa, senza eco nel
cuore degli uomini. Perchè gli uomini oggi non sono
disposti a salutare il giorno del disastro navale inglese,
come quello della liberazione dal dominio della falsità
e dell 'irrealità?
Procurerò di esporre, ordinatamente, i principali tra
i perchè di questo problema storico, che tanto appas-
siona inglesi e tedeschi e, di riverbero, non può essere
indifferente a noi.
Una prima caratteristica dell'Impero inglese è che
esso non si estende al continente europeo. Dopo l'ama-
rissima esperienza della guerra dei 100 anni invano
durata fino al 1453 per soggiogare la Francia, l'Inghil-
terra ha abbandonato ogni sogno di conquiste imperiali
europee. Conserva qualche rupe e qualche isola, che
— IO! —
ritiene necessarie per la libertà delle sue comunicazioni
marittime; ma ha restituito le isole Jonie alla Grecia;
ria evacuato la Sicilia e la Spagna; ha venduto Heligo-
land. Continua a combattere nelle guerre europee e
spesso è avversario temibilissimo fra tutti, come nelle
guerre contro Luigi XVI, contro Napoleone ed oggi
contro la Germania. Ma il suo scopo non è di conqui-
stare un dominio su altri popoli europei; bensì di im-
pedire che uno degli Stati d'Europa acquisti il predo-
minio sugli altri; il che vorrebbe dire a breve o lunga
scadenza l'annientamento della sua potenza navale e
quindi del suo impero extra-europeo. Così operando,
l'azione oramai secolare dell'Inghilterra coincide con
l'interesse comune di tutti i popoli d'Europa, salvo di
quell'uno che vorrebbe acquistare il predominio sugli
altri.
Un'altra caratteristica dell'impero britannico, che
strettamente si allea con quella ora ricordata ed è an-
ch'essa negativa, si è che esso non è, a parlar propria-
mente, un impero. Il concetto di un impero non si dis-
socia dall'idea di una dominazione di un popolo su altri
popoli soggetti ad un'unica amministrazione centrale;
in cui tutte le parti obbediscono, almeno nelle linee
generali, ad una volontà comune, a cui non possono
sottrarsi se non con una aperta ribellione. Nulla di tutto
questo nell'impero inglese; di cui le parti vivono di-
sunite ed indipendenti tra di loro; senza neppure l'ob-
bligo, almeno per il più gran numero delle colonie, che
sono quelle autonome, di soccorrere la madrepatria nei
momenti di guerra. Il Canada, l'Australia, la Nuova
Zelanda, l'Africe. del Sud sono venute in soccorso del-
l'Inghilterra perchè così esse vollero; e non perchè così
— 102 —
potesse loro comandare la madrepatria. La ribellione di
alcuni gruppi di boeri nel Sud Africa non sarebbe stata
una ribellione se il governo del Sud Africa non avesse
liberamente deciso di prendere le parti dell'Inghilterra.
Se il governo sud-africano, che emana dalla maggioran-
za boera del Parlamento locale, avesse creduto oppor-
tuno di incrociare le braccia, la guerra non sarebbe stata
proclamata nel Sud Africa e la ribellione non sarebbe
sorta. Tutto ciò è poco imperiale, poco euritmico e fa
senso a chi pensi ad un impero nella maniera solita;
mentre non meraviglia chi ricordi di trovarsi di fronte
ad una agglomerazione di Stati, uniti da una vaga pro-
fessione di fedeltà al medesimo sovrano, e tenuti in-
sieme da vincoli, che sono fortissimi e di fatto spingono
ad un'azione comune e fìnanco ad una guerra combat-
tuta solidari amente, solo perchè trattasi di vincoli non
legali, sibbene morali e spirituali. Ciò che fa esistere
questa entità indefinibile e strana non è la forza delle
leggi o delle armi, ma il sentimento di una unità im-
periale.
L'impero — ed è questa un'altra delle sue caratte-
ristiche essenziali, forse quella che dà più ai nervi ai
grandi teorici tedeschi, i quali concepiscono la missione
della Germania al dominio mondiale come la attuazione
di un'idea organica ed organizzatrice di incivilimento
che la Germania deve, anche colla forza, far trionfare
sistematicamente sulla terra — è sorto per caso. Fu per
caso che alcuni gruppi di puritani e di quacqueri, per
fuggire all'oppressione religiosa in patria, si rifugiarono
nei territori deserti del Nord-America. Perdute le 13
colonie, per caso si scopri che il Canada, conservato
sopratutto per la repugnanza di parte dei coloni inglesi
103
ad abbandonare la madrepatria, era un paese di grande
avvenire. Il Sud Africa fu il prezzo di baratti accidentali
durante le grandi guerre napoleoniche e poco mancò
fosse dato alla Svezia. Ancora : l'Australia presa per
fame una colonia di deportati; la Rodesia conquistata
da un uomo, Cecil Rhodes, in mezzo all'apatia ed al-
l'avversione della madrepatria; la Nigeria e l'Africa
Orientale dovute all'iniziativa indipendente di Sir Geor-
ge Taubman Goldie e di Sir W. Mackinnon. Persino
l'India, la maggiore delle colonie inglesi, non fu dovuta
ad un'opera deliberata del governo britannico. Furono
compagnie di avventurieri, in lotta con avventurieri
portoghesi e francesi che, profittando della dissoluzione
dell'impero del Gran Mogol conquistarono alla madre-
patria questo immenso dominio. Fnchè durò la conqui-
sta, fino al celebre ammutinamento del 1857, per un
secolo quasi non si trovano traccie nel bilancio dello
Stato inglese di spese fatte per la conquista dell* India.
Sorto senza una teoria, l'impero inglese vive sovratutto
grazie al sentimento della convenienza dei suoi abitanti
di conservare reciproci legami politici e della necessità
di formare una unità politica più vasta di quella dei
singoli Stati sostanzialmente indipendenti che formano
l'impero.
Uno dei motivi che hanno spinto questi popoli ad
un'azione comune e che li tengono legati strettamente
tra di loro è l'appartenenza alla medesima schiatta in-
glese. Il fondo della popolazione bianca del Canada,
della Federazione australiana, della Nuova Zelanda,
della Federazione sud-africana è inglese; il che spiega
come quegli Stati sentano il bisogno- di tenersi stretti
alla madrepatria per averne protezione e difesa e per
— 104 —
avere la sensazione di partecipare alla vita morale, po-
litica, religiosa di una grande nazione. Non si tratta più,
come nel secolo XVII per le colonie nord-americane,
di gente la quale sia fuggita dalla madrepatria perchè
aveva un ideale di vita diverso da quello ivi dominante.
L'ideale nazionale è sempre anglo-sassone e gli abitanti
di quelle, che noi chiamiamo colonie inglesi ma sono
in realtà Stati liberi facenti parte dell'impero inglese,
lo vogliono far trionfare nel mondo e sentono perciò la
necessità di una stretta comunanza di rapporti con la
madrepatria e con gli altri Stati dell'impero.
Vero è che nell'impero vi sono altri nuclei di popo-
lazione non anglo-sassone; di cui i più interessanti sono
i Franco-Canadiani del Canada, i boeri del Sud Africa
e gli Indiani. Ma il modo con cui queste popolazioni
estranee alla razza britannica sono tenute fedeli all'im-
pero è una delle più singolari caratteristiche di questa
formazione storica. Esso si può riassumere tutto nel
rispetto illimitato, spinto talvolta fino alla esagerazione,
delle tradizioni di razza e di cultura, e delle autonomie
e libertà locali. È difficile trovare una popolazione più
lealista dei franco-canadesi, ai quali le leggi riconoscono
l'uso della lingua e del diritto francesi, istituzioni par-
ticolari amministrative, pienissima libertà di governo
locale e perfetta parificazione nel governo federale. È.
difficile sottrarsi all'impressione che i franco-canadesi
abbiano goduto, sotto il cosidetto domnio inglese, di
una più ampia libertà ed autonomia che non i francesi
in Francia; e che per vari rispetti il franco-canadese sia
un'individualità altrettanto originale e potente come il
francese della madrepatria. Né possiamo dimenticare
come il primo atto compiuto nel Sud Àfrica dalla na-
— 105 —
zione dominatrice, dopo la vittoria cruenta e vogliamo
anche ammettere odiosa, sia stata la concessione della
più larga ed assoluta libertà di governo e di ammini-
strazione ai boeri. Cosicché si potè affermare a ragione
che una guerra, intrapresa per dare agli inglesi, che già
lo avevano nel Capo e nel Natal, il predominio anche
nel Transvaal e nell'Orange, per sottrarre le miniere
d'oro alle imposte eccessive boere e per aumentare
quindi i profitti degli azionisti inglesi auriferi ebbe per
effetto invece : la estensione del dominio della maggio-
ranza boera dal Transvaal e dall' Orange anche al Capo
ed al Natal, essendosi le quattro colonie riunite in una
sola federazione» il cui governo è boero; la permanenza
e l'incremento delle imposte preesistenti e la diminu-
zione dei profitti delle miniere aurifere.
Non voglio, neppure di passata, discutere e risolvere
il gravissimo problema indiano, problema dalle mille
faccie, avere affrontato il quale costituirebbe da sola
la gloria di un popolo. E' però probabile che se la pax
britannica riuscirà un giorno a ridestare il sentimento,
oggi inesistente, di una nazionalità indiana tra il con-
glomerato di genti innumeri, varie per razza, per reli-
gioni, per lingua, per costumanze che compongono
l'India, il miracolo si sarà adempiuto perchè l'Inghil-
terra avrà tenuto fede al programma suo tradizionale
di rispettare le costumanze, le fedi, il diritto, i regimi
dei popoli viventi all'ombra della sua bandiera. Nessuno
può oggi preveder se gli inglesi riusciranno a risolvere
il problema indiano; certo è che finora nessuno dei
popoli dominatori, che l'India ebbe, fece tanti sforzi
e così ostinati e sinceri per risolverlo secondo lo spirito
e le aspirazioni dell'India medesima. Gli scrittori ger-
— 106 —
manici fanno gran colpa agli inglesi di non essere riu-
sciti a creare nell'India una religione nuova, che desse
una impronta originale e progressiva a quella antichis-
sima civiltà. Creda chi vuole, dopo l'insuccesso italiano
del Sacro Romano impero germanico, e dopo la larga
eredità di effetti lasciata dagli austriaci nel Lombardo-
Veneto, alla capacità dei tedeschi di guadagnare le
popolazioni soggette ai loro ideali spirituali; ma ci con-
senta di considerare preferibile il metodo inglese, il
quale permette alle popolazioni dell'India di svilupparsi
secondo i propri ideali e, mantenendo la pax britan-
nica, si sforza di introdurre solo quelle idee occiden-
tali che gli indiani volontariamente sono disposti ad
accogliere.
***
Coloro che guardano soltanto alle piccole cose, si
compiacciono di affermare che l'Inghilterra sfrutta
l'India o l'Egitto o qualche altra colonia perchè queste
debbono pagare stipendi non piccoli ai proconsoli ed
ai funzionari inglesi che sono inviati dalla madre-
patria per l'amministrazione coloniale; ed in aggiunta
debbono loro pagare larghe pensioni quando essi si ri-
tirano a riposo. Sarebbe questo, in ogni caso, Y unico
tributo che l'Inghilterra preleva sulle colonie, anzi sulle
sole colonie della corona; poiché nelle colonie auto-
nome l' unico funzionario inglese inviato dalla madre-
patria e pagato sul bilancio delle colonie è il Viceré
o Governatore, figura puramente rappresentativa e
senza alcun potere reale. Ma anche quello non è un
tributo; poiché per considerarlo tale farebbe d'uopo
supporre che i servigi forniti dai funzionari inglesi non
— 107 —
valessero almeno quanto gli stipendi e le pensioni pa-
gati dalle colonie. Il che, chiunque conosca quanto più
costassero i ceti dominanti indigeni prima della con-
quista inglese e quanto rendessero di meno, non potrà
ammettere mai.
La vera caratteristica sostanziale dei rapporti eco-
nomici e finanziari fra la madrepatria e le colonie in-
glesi è un'altra : la madrepatria deve essere disposta
sempre a subire dei sacrifici a favore delle colonie.
Questa è l'aurea massima che ha consentito finora al
nuovo Impero inglese di durare : la madrepatria deve
tutto alle colonie; le colonie non devono essere obbli-
gate a dare nulla alla madrepatria. Per avere violato
questa norma fondamentale cadde il più grande Porto-
gallo, cadde la più grande Spagna, e caddero le più
grandi Olande, Francie ed Inghilterre dei secoli scorsi.
Io non voglio fare un merito all'Inghilterra di oggi di
avere spontaneamente applicata la regola aurea; ma è
certo che essa ha appreso assai bene la lezione della
amara esperienza della perdita delle colonie nord-
america. Da quando essa dovette consentire alla in-
dipendenza degli Stati Uniti, l'Inghilterra si convinse
che, per conservare le colonie, non v'era che un solo
mezzo : essere sempre pronta a spendere largamente
per la loro protezione navale e militare e per le opere
ncessarie al loro attrezzamento economico; ma non ri-
chiedere in cambio alcuna restituzione, sotto forma di
tributi o di preferenze economiche a proprio vantag-
gio. Non solo le colonie inglesi non pagano un cen-
tesimo di tributo alla madrepatria e questa sostiene al
contrario da sola il carico di spese militari, navali e di
interessi di debiti pubblici contratti per la protezione
— 106 —
dell'impero; ma l'Inghilterra ha consentito alle coionie
autonome la più ampia facoltà di maltrattare con dazi
protettivi le merci provenienti dalla madrepatria. Am-
maestrata dagli insuccessi antichi del regime di prefe-
renze doganali l'Inghilterra non soltanto consente alle
colonie di respingere con dei dazi le sue merci; ma non
pretende neppure di ottenere alcuna preferenza in con-
fronto alle merci tedesche, italiane, francsi, nord-
americane. Le colonie autonome, ossia sovr atutto il
Canada, l'Australia, la Nuova Zelanda e l'Africa del
Sud, essendo praticamente degli Stati indipendenti,
possono applicare a favore o contro l'Inghilterra i dazi
che esse credono più opportuni. E se, in questi ultimi
anni, grazie al crescente movimento di solidarietà fra
le parti dell'Impero, le colonie autonome, pure tas-
sando fortemente le merci inglesi, si decisero a tassarle
alquanto meno delle altre merci straniere, ciò accadde
spontaneamente, per iniziativa libera dei parlamenti
coloniali.
Io non dico che la lezione della rovina dei grandi
imperi portoghese, spagnuolo, olandese, francese ed
inglese dei secoli scorsi fosse molto difficile ad appren-
dersi; il buon senso dimostrando che, a rendere le co-
lonie fedeli ed affezionate, giova grandemente il dar
molto e il non imporre nessun tributo in cambio. È in-
dubitato però che quella lezione non fu, per sua di-
sgrazia, appresa dalla Francia, quando dopo il 1870
ricostituì un impero coloniale, ed è certo che la Spagna
perdette gli ultimi residui delle sue colonie ed il Por-
togallo sta apprestandosi la fossa perchè non vollero
convincersi che gli imperi si costruiscono e si manten-
gono con sacrifici continui, mentre i benefici possono
— 109 —
essere solo indiretti ed ottenuti per lo spontaneo con-
senso delle colonie. E poiché dovere di chi scrive è
di usare la più stretta giustizia verso tutti, giova no-
tare che lo Stato libero del Congo è la dimostrazione
chiarissima che la politica inglese della porta aperta è
considerata oramai dagli Stati europei come l'ottima
fra tutte; e si deve aggiungere che la Germania rese
omaggio alla dottrina britannica quando, con imperi-
tura sua benemerenza, ottenne che il Marocco fosse
un paese aperto a tutte le importazioni straniere a pa-
rità di condizioni.
***
Su questi fondamenti ed in virtù di queste idee
fondamentali di libertà, di autonomia, di rispetto illi-
mitato alla lingua, agli usi, alle leggi dei paesi assog-
gettati sorse l'Impero inglese. Su questo fondamento,
quello che era un conglomerato di Stati indipendenti
sta, sotto i nostri occhi, trasformandosi in un vero im-
pero. Perchè quella parola « impero », la quale fino
a qualche anno addietro non aveva quasi significato,
sta ora acquistandolo. Quei popoli diversi, a cui l'In-
ghilterra aveva dato un'indipendenza pratica assoluta
ed insieme l'esenzione da ogni peso tributario per la
difesa della indipendenza medesima, cominciarono ad
avere vergogna di se stessi. Come, essi dissero, pos-
siamo noi continuare a godere della protezione della
flotta e dell'esercito britannici contro gli assalti dei ne-
mici stranieri, senza contribuire in nulla alle spese del
mantenimento della flotta e dell'esercito? Appena
posto il quesito, la situazione di sfuttatori della madre-
patria parve alle colonie libere insopportabile.
— 110 —
Ma il problema era irto di difficoltà; perchè non
parve possibile una contribuzione delle colonie alle
spese imperiali comuni senza una partecipazione delle
colonie nel governo dell'Impero. Se la costituzione del-
l'impero inglese fosse il prodotto intellettuale di una
congrega di dotti o il frutto della conquista di un po-
polo dominante, il problema sarebbe stato facilmente
risolubile. Fu relativamente facile dare una costituzione
al rinnovato impero germanico nelle sale di Versaglia,
in seguito ad una guerra vittoriosa. Dare una costitu-
zione all'impero inglese è sommamente difficile; per-
chè si tratta di creare organi nuovi di governo per un
impero che non ha finora alcun organo comune, ser-
bando nel tempo stesso l'indipendenza reciproca sia
della madrepatria che delle colonie autonome e te-
nendo conto anche della situazione singolarissima del-
l'India e delle colonie della corona. Come al solito, gli
inglesi cercano di risolvere il problema alla meglio, con
temperamenti pratici, senzia costruire nessuna nuova
teorìa alla maniera tedesca o francese. Che cosa na-
scerà fuori dalle conferenze imperiali dei primi mi-
nistri inglesi e coloniali che si vanno periodicamente
convocando e costituiscono l'iniziale, informe e finora
unico organo di governo comune imperiale, non si sa.
Forse è inutile preoccuparsi di prevederlo, perchè la
nuova costituzione imperiale probabilmente non sarà
mai scritta in uno statuto, ne potrà dare occasione a
nessuna elegante ed euritmica costruzione di diritto
pubblico alla foggia germanica. Sarà una costituzione
formatasi gradualmente, quasi a caso, per rispondere
a bisogni immediati, rafforzata dall'interesse degli Stati
confederali, cementata dal sentimento e dalla consue-
tudine. Sarà una cosa bizzarra ed irregolare; un per-
fezionamento di quella magnifica creazione spontanea
che è l'attuale impero britannico.
Anche esso, forse, quando gli inglesi avranno per-
duto le loro virtù odierne e quando la dissoluzione in-
terna sarà cominciata, andrà col tempo distrutto. Nes-
sun impero è perpetuo. Sulle rovine dell'impero in-
glese forse sorgeranno altri imperi più belli, più utili
all'umanità. Se in quel giorno gli italiani avranno sa-
puto perfezionare se stessi ed acquistare le energie
intime che creano i grandi imperi, essi dovranno ri-
cordarsi che il loro orgoglio maggiore dovrà consistere
nel creare un tipo di organizzazione politica più per-
fetto e più alto dell' impero inglese. Poiché questo e
non il Sacro Romano Impero e non l'Impero Germa-
nico odierno e non lo Stato francese napoleonico è il
vero erede spirituale ed il perfezionatore della più bella
creazione politica che il mondo abbia visto : l'impero
romano. Al pensiero che un disastro navale dovuto alla
fortuna di guerra può mettere in forse il processo stu-
pendo di cementazione politica dell'impero britannico,
il quale si sta oggi compiendo e che è straordinaria-
mente accelerato dalla guerra ci stringe il cuore. Poiché
quel disastro navale sarebbe un'offesa alla civiltà: e noi
italiani, se vogliamo conservare la speranza di essere
un giorno i creatori di una nuova civiltà più perfetta,
abbiamo bisogno che si rafforzino nel mondo le forme
più perfette e libere di organizzazione politica : tra le
quali niente di più meraviglioso, di più spontaneo, di
più vivo e mutevole, di più atto a suscitare la nostra
emulazione e di meno geloso di essa, oggi esiste del-
l'impero britannico.
(Dal Corriere della Sera, 18 e 19 gennaio 1915).
APOLOGIA DI WILSON
Torino, 24 ottobre 1914.
Caro Prezzoli™,
ì'erchè lei è così ingiusto verso il presidente Wil-
son? Per chiamarlo « ipocrita » bisognerebbe dimo-
strare che egli ostenta sentimenti onesti, alti, umani-
tari ed agisce da egoista e da cialtrone; per dirlo « truf-
fatore all'americana » occorrerebbe che egli avesse car-
pito il voto degli elettori americani ed il favore degli in-
genui europei promettendo, quando era candidato, di
agire in un modo ed operando diversamente quando
giunse al potere.
1 fatti non consentono finora, di esprimere un giu-
dizio di queso genere; ossia i fatti finora accaduti (di
quelli che potranno accadere in futuro, non so nulla)
mi persuadono che sulla scena politica nord-americana
non è comparso, dopo Lincoln, nessun presidente così
sincero, fedele ai propri programmi, coraggioso e fer-
vido nell'operare come Wilson. Ignoro se, dopo ed
astrazion fatta da Cavour, in Italia sia sorto un uomo
politico paragonabile al signor Wilson; ne se 1* Inghil-
terra possa vantare, dopo Roberto Peel e Gladstone,
uomini da mettersi a pari di lui.
Qui non si tratta di simpatie, ma di fatti; ed i fatti
sono quattro : riforma della tariffa doganale; riforma
— 114 —
della circolazione monetaria; canale di Panama e
Messico.
I. Riforma della tariffa doganale. — Da ventanni
la si aspettava; e da ventanni tutti i partiti l'avevano
messa nel proprio programma, salvo a non fame nulla
quando giungevano al potere. L'ultima volta che i de-
mocratici furono al governo, col presidente Cleveland,
— e vi erano giunti promettendo il ribasso delle tariffe
doganali affamatoci — si vide questa vergogna indi-
cibile : che il progetto originario, concepito nel senso
di una maggiore libertà doganale, venne per l'influenza
degli interessati, potentissimi nella stampa e nei cor-
ridoi della Camera e del Senato, imbrogliato in modo
da cagionare un aumento della protezione. I due ultimi
presidenti repubblicani non avevano osato affrontare il
problema : Taft era debole e Roosevelt preferiva ap-
prestarsi a fare, tra una presidenza ed una campagna
elettorale, il domatore dei leoni ed il nemico, frattanto
ed a parole, dei trusts, guardandosi però bene di mi-
narne il piedistallo e cioè la tariffa doganale. Il signor
Wilson, un semplice professore, arrivato da pochissimi
anni nella politica, promise agli elettori che avrebbe
ribassato le tariffe. E mantenne. Assunse l'ufficio il
4 marzo 1913 e nell'autunno del 1913 la tariffa era ri-
bassata. Nessuno credeva che ci sarebbe riuscito. Do-
vette far star a segno il turbolento Senato minacciando
e facendo eseguire inchieste sul modo con cui gli in-
dustriali protetti si procacciavano i voti dei senatori.
La riforma di Wilson non è ancora il libero scambio
puro; ma non lo erano nemmeno, da sole e in sul prin-
cipio, le riforme di Huskisson, di Peel e di Cavour.
È certo però che egli in pochi mesi ha fatto nel suo
— 1 15 —
paese fare all'idea più cammino di quanto non aves-
sero fatto più generazioni di politicanti.
II. Riforma della circolazione monetaria. — È un
argomento tecnico, non facile a spiegarsi in breve; e su
cui è inutile diffondersi qui. Basti dire che se la riforma
tariffaria fu opera grande, questa fu forse ancor più
grande. La legislazione monetaria nord americana era
una cosa deplorevole. In tempi difficili, di guerra e di
crisi economica, provocava il panico, demoralizzava le
borse ed il commercio; arrestava la vita economica. Da
anni, da decenni, tutti ne erano persuasi; tutti grida-
vano che bisognava riformare. Ma nessuno osava far
niente. Il sistema vigente, dannoso ai più, era utile ad
alcuni pochi.
II signor Wilson promise di far qualcosa; e man-
tenne la parola. In questi mesi si stanno appunto già
organizzando le banche di riserva, che egli riuscì a far
votare dal Congresso e che sono il nucleo di tutta una
nuova organizzazione bancaria e monetaria più agile,
più perfetta, più adatta ai bisogni del paese. E tutti
sono persuasi che senza la fermezza di volontà, la capa-
cità di persuasione, la dirittura del carattere, la noncu-
ranza di tutto ciò che è parlamentarismo, amore della
vita tranquilla, politica di corridoio, che sono caratteri-
stiche del signor Wilson, questa grande riforma non
sarebbe un fatto.
III. Canale di Panama. — In virtù del trattato
Clayton-Bulwer del 1850 e del trattato Hay-Pauncefote
del 1901 gli Stati Uniti, in compenso di importanti van-
taggi ottenuti dall' Inghilterra, si erano obbligati, qua-
lora essi avessero costruito un canale attraverso ristmo
di Panama, a garantire uguaglianza di trattamento alle
6 —
navi di tutti i paesi del mondo. Quando il canale era
prossimo al compimento, il congresso americano votò
ed il signor Taft sanzionò il 24 agosto 1912 una legge
con la quale si concedeva un trattamento di favore alle
navi americane. Era una manifesta violazione del trat-
tato, violazione operata nell'interesse del naviglio ame-
ricano ed a danno della bandiera inglese, tedesca, fran-
cese, italiana ecc. ecc. Ma, purtroppo, non v'era ri-
medio. Nessuno poteva costringere gli Stati Uniti a ri-
mangiarsi la legge. L'Inghilterra protestò per via diplo-
matica, invocò un arbitrato; ma erano proteste plato-
niche. Gli Stati Uniti non hanno nulla da temere dal-
l'Europa; e se vi è cosa certa al mondo, è questa : che
mai e poi mai l'Inghilterra oserà mettersi in contrasto
con gli Stati Uniti. Sarebbe la rottura sicura dei legami
teorici che l'avvincono ancora al Canada.
Era però uno scandalo che gli Stati Uniti mancas-
sero così sfrontatamente alla parola data. Ma era uno
scandalo voluto. Il signor Taft aveva trovato gli op-
portuni protesti legali; la maggioranza del Senato
— che in materia di trattati internazionali è, in virtù
della costituzione, onnipotente — gioiva di aver potuto
fare un dispetto all'Inghilterra; i protezionisti trionfa-
vano; l'opinione pubblica strepitava al pensiero che
gli stranieri (inglesi, francesi, italiani e via dicendo) po-
tessero passare attraverso il canale alle stesse condizioni
degli americani che ne erano i costruttori ed i legittimi
proprietari. Il signor Wilson pensò invece che qui si
trattava della firma del suo paese e di un debito d'o-
nore. Gli Stati Uniti avevano promesso parità di tratta-
mento a tutte le nazioni del mondo. Gli Stati Uniti
potevano infischiarsi della parola data e ridere sul muso
— 117 —
ai diplomatici protestanti. Nessuno avrebbe torto un
capello ad un solo americano. Appunto poiché nes-
suno poteva pretendere il mantenimento della parola
data ed appunto perchè la maggioranza della stampa,
della cosidetta opinione pubblica americana, dei gin-
goisti ecc. ecc. plaudiva al bello scherzo fatto agli stra-
nieri, il signor Wilson presentò un disegno di legge per
revocare la legge Taft. E riuscì a farlo approvare. Oggi,
grazie a lui, le navi italiane, che passeranno attraverso
al canale di Panama, pagheranno le stesse tariffe di
passaggio delle navi nord-americane. Una rivista inglese
(non una rivista americana) commentando questo straor-
dinario risultato, conclude : « Pagare i debiti d'onore
è stato sempre fatto rarissimo tra gli Stati sovrani. Colla
revoca della legge Taft l'America ha dato un esempio
di condotta onorevole e diritta al mondo civile ».
IV. Messico. — Che cosa avrebbe fatto un altro al
posto di Wilson? È impossibile negare che il Messico,
quando il signor Wilson venne al potere — ella non
vorrà chiamarlo responsabile degli atti dei suoi ante-
cessori ed avversari — era, rispetto agli Stati Uniti, un
vicino più fastidioso della Serbia per l'Austria, del Ma-
rocco per l'Algeria, del Transvaal per la Colonia del
Capo. Gli abitanti di un paese, solo perchè vi son nati
dentro, non possono pretendere di malversare i doni
naturali che la provvidenza ha voluto largire alle loro
terre ed essere una ragione perenne di pericoli e di di-
sturbi per i paesi vicini, i quali vorrebbero conservare
con quel paese pacifiche relazioni di commercio e di
industria. Che cosa avrebbe fatto uno Stato Europeo
potente che si fosse trovato vicino ad uno Stato più
debole e turbolento, con l'assoluta sicurezza di non in-
18
contrare nessuna opposizione, neppure verbale, da parte
di nessun altro Stato potente? Sarebbe saltato addosso,
colle buone o colle cattive, con la forza o con l'astuzia,
allo Stato debole e se lo sarebbe annesso o ne avrebbe
fatto un suo protettorato. È, quasi certo, date le idee
dominanti nelle classi politiche europee, che la stessa
sorte sarebbe capitata al paese debole, anche se questo
fosse stato un modello di ordine, di buona amministra-
zione e di compostezza nei rapporti internazionali, sem-
pre fatta l'ipotesi della certezza dell'impunità.
Che cosa avrebbero fatto Taft e Roosevelt, se si fos-
sero trovati al posto di Wilson? Avrebbero colto, senza
scrupolo, i frutti della loro precedente politica rispetto
al Messico. Che io mi sappia, non fu il Wilson a pro-
vocare la caduta di Porfirio Diaz nel Messico e le sus-
seguenti rivoluzioni. Non fu egli ad incoraggiare i
trust americani ed i soliti banditi della finanza inter-
nazionale ad impiantare industrie nel Messico per avere
il pretesto d'invocare la protezione degli Stati Uniti.
Come si è sempre costumato dal governo nord-ameri-
cano e dai governi europei, scoppiati i torbidi, gli ante-
cessori di Wilson sarebbero intervenuti per chiedere
enormi indennità e per trovare un pretesto di intervento
e di protettorato nella incapacità del Messico a pagare
senz'altro tutto ciò che i nord- americani chiedevano.
Che io mi sappia, il signor Wilson non ha fatto nulla
di tutto questo. Prima di essere eletto, egli aveva pro-
clamato che la politica nord-americana di tutelare ed
appoggiare le pretese dei suoi connazionali nei paesi
stranieri era falsa e dannosa; ed aveva avvertito gli elet-
tori che l'intervento doveva avvenire secondo principi
diversi. Gli Stati Uniti non dovevano cioè farsi i pala-
— 119 —
dirvi dei loro nazionali nella richiesta indennità per pre-
tesi malefici sofferti. No, i nord-americani dovevano
sapere che andando al Messico, nel Venezuela, nel
Costarica correvano i rischi del paese : ossia correvano
il rischio di governi cattivi, di magistrature pessime ecc.
ecc. Sapendo tutto ciò, non potevano pretendere dal
loro paese alcuna tutela contro le conseguenze inevi-
tabili di circostanze che dovevano valutare prima. L'u-
nica ragione di lagnanza che potevano avere i nord-
americani nei paesi arretrati era quella di non essere
governati da governi indigeni regolarmente nominati
secondo le leggi del paese. Di qui l'origine del contegno
che il Wilson tenne in confronto al Messico : il rifiuto
di riconoscere un governo che non fosse eletto secondo
le norme della costituzione messicana. Egli non appog-
giò Carranza contro Huerta, perchè il primo fosse suo
amico ed il secondo no. Lo avversò perchè Huerta non
era un presidente eletto; ed egli voleva avere a che fare
con un presidente eletto secondo le norme del paese.
Se si guarda bene, questo contegno non solo era con-
forme ai principi posti nel suo programma elettorale,
ma è contegno diametralmente opposto agli interessi
dei fautori dell'intervento nel Messico. Almeno agli
Stati Uniti lo interpretano così; ed a ragione. I trusts
nord- americani, i quali avevano provocato e fomentato
la rivolta nel Messico, speravano che il Presidente in-
tervenisse e proclamasse il protettorato od in altro modo
riducesse il Messico alla sua mercè, allo scopo di poter
pretendere indennità d'ogni sorta, concessioni (di pe-
trolio) a favore proprio e revoche di concessioni agli
inerì esi.
20
Invece il Wilson ai fautori dell'intervento disse e dice
ancora : io posso chiedere e chiedo solo un governo
regolare. Se poi questo governo regolare non vi darà
le indennità e le concessioni che desiderate, ammini-
strerà una giustizia antipatica, è affar vostro, lo non
c'entro. Non dovevate andare in un paese, che sapevate
non essere governato come il paese vostro.
Che io sappia, questo è il linguaggio del Wilson ai
gruppi capitalisti del suo paese. Le truppe nord-ame-
ricane finora non si sono mosse da Vera-Cruz, dove
sono scese per protestare contro un sfregio alla bandiera
nord-americana. Il Messico non è una colonia degli
Stati Uniti; la guerra non è scoppiata; e non vi è pro-
babilità che scoppi. Proseguono le trattative pacifiche
per regolare il governo del paese. Indennità non sono
state chieste ne date ai privati industriali per danni ar-
recati alle loro intraprese.
Può darsi che la politica del signor Wilson rispetto
al Messico muti in avvenire. Se stiamo però ai fatti
finora accaduti, essa non può essere giudicata ne ipo-
crita ne truffatrice. Gli imperatori ed i re ed i presidenti
europei, che avevano l'amore della pace al sommo della
bocca ogni altro giorno, hanno scatenato una guerra
terribile; il signor Wilson che ha forse firmato qualche
trattato di arbitrato, ma non ha redatto troppi telegram-
mi pacifici, finora ha cercato di non fare la guerra al
Messico, non ne ha distrutta la indipendenza ed ha
fatto tutto il possibile per promuovere la formazione
di un governo messicano solido e stabile e perciò capace
di resistere alle pressioni dei futuri presidenti nord-
americani.
12
Lei potrà dire che il principio di Wilson è ingenuo,
è inattuabile, non che il Wilson non abbia fatto ogni
onesto possibile sforzo per attuarlo. I lanzichenecchi
della finanza in America dicono che il Wilson è un pro-
fessore, il quale si è fisso in capo di applicare le sue
teorie anche al Messico. Tutti coloro, i quali vogliono
cacciare le grinfie nelle tasche altrui, se trovano un uomo
di Stato, deciso ad impedire le loro male fatte, dicono
che è un professore ed un teorico. Come se in parecchie
parti del mondo, non fossero precisamente i professori
a fare d'ogni erba fascio, appena arrivano al potere. Io
dico che nei riguardi del Messico il Wilson applica una
teoria utile alle grandi masse nord-americane, ai veri
lavoratori, commercianti ed industriali degli Stati Uniti.
Quando egli dice di desiderare un governo onesto
e regolare pel Messico, perchè ciò darebbe la pace e
la ricchezza ai messicani, possiamo anche credere che
egli ripeta un luogo comune, il quale fiorisce sulla bocca
di tutti i conquistatori : anche nei. proclami odierni
dei russi, degli austriaci e dei prussiani. Ma quando egli
afferma che tutte queste cose egli le vuole nell'interesse
della grande maggioranza inconsapevole e silenziosa dei
suoi concittadini, dei coloni, degli industriali, dei com-
mercianti nord-americani e le vuole in contrasto alla
piccola minoranza, potente e rumorosa, dei cacciatori
nord-americani di concessioni e di privilegi, noi dob-
biamo ammettere che qui si inizia uno sperimento nuovo
nella storia dei rapporti degli Stati potenti con gli Stati
deboli e semi-organizzati. Finora tanto il governo nord-
americano come i governi europei hanno creduto che
fosse dovere strettissimo della diplomazia e delle armi
di difendere coloro che in Turchia, in Cina, nelle re-
— 122 —
pubbliche del centro e del sud America, nell'Africa
avevano per fas o per nefas ottenuto concessioni di
miniere, di ferrovie, di porti, di foreste, identificando
1 interesse di costoro con l'interesse del proprio paese.
Viene Wilson e dice : non so se l'interesse di costoro
sia la stessa cosa dell'interesse degli Stati Uniti. Od al-
meno so cne i due interessi coincidono solo in quanto
i concessionari non pretendono privilegi e protezione
per se (capitolazioni in Turchia), ma si limitano a voler
vivere sotto un governo regolare, il quale amministri
secondo le leggi del paese. Questo è il solo interesse
degli Stati Uniti. Se i governi indigeni non piacciono
ai miei concittadini, se ne vadano via dal Messico. Se
vogliono restarci, procurino di agire dal "di dentro, mi-
gliorando i ceti governanti e le leggi indigene. Finche
i governi sono eletti nelle maniere costituzionali, io ri-
conoscerò i governanti indigeni e non mi lagnerò del
modo da essi tenuto nell' amministrare le leggi del
paese.
Chi parla ed agisce così, non può essere chiamato
un ipocrita. Potrà diventarlo in avvenire; ed io non
faccio nessun pronostico al riguardo, tanto più che è
vivissimo negli Stati Uniti il malcontento di gruppi po-
tenti contro il Wilson per la sua condotta e potrà darsi
che egli non sappia o non possa resistere sino alla fine
alla loro pressione. Comunque vada a finire, lo speri-
mento è degno della massima attenzione e del maggiore
rispetto. Non sembra anche a Lei?
(Da La Voce ,13 novembre 1914).
DEMOCRAZIA, COLLETTIVISMO E GUERRA
Lno dei luoghi comuni, che si sentono più comu-
nemente ripetere intorno alla presente guerra, dice che
essa è una guerra combattuta tra il progresso e la rea-
zione, tra la libertà e la schiavitù, tra le nazioni demo-
cratiche, dove al potere sono i radicali e i radicali-so-
ciaiisti, come la Francia e l'Inghilterra, e le nazioni
aristocratiche, come la Germania e l'Austria, dominate
ancora da classi feudali e dove i partiti d'avanguardia,
ossia i socialisti, sono messi al bando dal governo.
È diffìcile poter dare un giudizio sicuro su queste
affermazioni generiche, sovr atutto perchè è quasi im-
possibile definire con precisione che cosa vogliono dire
le parole « libertà », « progresso », « reazione », « de-
mocrazia », e simigliatiti astrattezze. Ma non è impos-
sibile porsi un problema più concreto, che sarebbe il
seguente : supponendo che il progresso sia caratteriz-
zato dal passaggio dalle idee e dai partiti di destra
alle idee e ai partiti di sinistra, supponendo cioè che sia
esatta la terminologia ordinaria della maggior parte dei
giornali italiani e dei loro lettori, i quali considerano
un'idea, un programma tanto più « moderno », « pro-
gressivo », « avanzato », « illuminato », quanto più si
avvicina alle idee e ai programmi dell'estrema sinistra
e particolarmente dei socialisti, i quali formano l'ala più
avanzata dell'estrema; supponendo che siano corri-
spondenti a realtà gli elogi di « audacia » e di « moder-
— 124 —
nità » e di « illuminismo >> che si rivolgono dall'opinione
pubblica ordinaria agli uomini di governo conservatori,
i quali fanno proprio il programma dei socialisti o ta-
luni punti di esso e dimostrano così che il socialismo
non è un appannaggio esclusivo dei socialisti, ma quel
che c'è di buono in esso, e sarebbe quasi tutto — salvo
la violenza, la rivoluzione, la lotta di classe, salvo cioè
i mezzi per ottenere il fine — è un ideale comune a tutti
i partiti; supponendo tutto questo, che oramai è patri-
monio del pensiero democratico più avanzato; quale
dei due gruppi combattenti, il blocco austro-tedesco o
la triplice intesa, si avvicina maggiormente alla conse-
cuzione dell'ideale sovra menzionato e deve quindi
essere reputato come il campione della civiltà e del
progresso?
Naturalmente, col porre il quesito in cotal maniera,
non voglio affermare che quella posizione risponda al
mio modo di pensare, né che essa sia vera ed esatta,
essendo chiara invece l'impossibilità della accettazione
di quelle premesse da parte mia. Voglio soltanto porre
il problema in un modo qualunque che sia compren-
sibile, e che, per la sua corrispondenza al modo cor-
rente e comune di pensare e di parlare in Italia, possa
farci alla meglio uscire fuori dal complicatissimo imbro-
glio di definire il « progresso », la « democrazia », la
« modernità n e altrettanti parole.
Se poi partiamo da questa premessa, appare subito
evidente che almeno una delle potenze appartenenti
alla triplice intesa deve essere senz'altro esclusa del no-
vero dei paesi progressivi e moderni : ed è la Russia.
— 125 —
Non perchè in Russia si adoperi il fenur, o vi sia lo Zar
ed accadano dei progroms di israeliti. Tutto ciò può
essere variamente giudicato e non può essere conside-
rato come un indizio specifico di reazione, quando in
Francia, a cui tutti guardano come all'antesignana della
democrazia, sono o erano prima della guerra in tanto
onore i progetti di cacciata e di persecuzione fiscale
degli operai stranieri. L'esilio e la esclusione dalla terra
e dal fuoco sono sempre stati nella storia metodi sim-
paticissimi alle democrazie più evolute. La vera ragione
per cui non vi è dubbio che la Russia deve essere repu-
tata un paese reazionario sta in ciò, che le classi domi-
nanti sono riuscite astutamente a iniziare ed a condurre
innanzi su vasta scala la distruzione di un istituto socia-
listico per eccellenza : la proprietà collettiva della terra.
Fino a pochi anni or sono la, terra in. Russia, per quella
parte che non apparteneva alla nobiltà o allo Stato —
e quest'ultima, estesissima, era anch'essa proprietà col-
lettiva — apparteneva quasi interamente ai mir, ossia
alla collettività dei contadini del comune, ed era colti-
vata secondo regole collettivistiche. Attraverso ai se-
coli, i contadini russi erano riusciti a conservare intatta
la fiamma dell'ideale collettivo, ricongiungendo gli ul-
timi e più moderni postulati della scienza occidentale
coi mitici ricordi dell'età dell'oro. Tutto questo magnifico
edificio va ora sgretolandosi ad opera delle reazionarie
classi dominanti; le quali, giovandosi di vani pretesti,
come sarebbe la mala coltivazione dei terreni dei mir,
approfittarono del momento in che dalla Duma erano
stati espulsi gli. spiriti più audaci e rivoluzionari, per
decretare l'abolizione del vincolo della proprietà col-
lettiva e per autorizzare ed in varie maniere aiutare e
— 126 —
promuovere la divisione della proprietà comune dei mir
in proprietà individuali private dei contadini. Questi,
avidi di terra, abboccarono all'amo teso loro dalle classi
conservatrici, vogliose soltanto di creare attorno a sé
una guardia del corpo dei piccoli proprietari contro i
moti degli operai progressivi e industriali della città.
Così si sta oggi commettendo il più grande delitto so-
ciale del nuovo secolo : la distruzione del regime col-
lettivo della proprietà in Russia. Quando i partiti socia-
listi d'avanguardia prevarranno in quel paese, dovranno
durare sforzi colossali per ricostituire quegli istituti che
la reazione ha oggi distrutto. Come si può, dopo ciò,
sostenere che la Russia sia un paese democratico?
Tra l'Inghilterra e la Francia da un lato e la Germa-
nia e l'Austria dall'altro non vi è possibilità di dubbio
nella scelta. Noi non possiamo invero considerare come
antesignani del progresso e delle idee avanzate quei
paesi i quali vanno a scuola di progresso e di socialismo;
bensì quelli che insegnano agli altri il verbo novello e
sono i pionieri delle sue feconde applicazioni.
Ora è indubitato che non la Francia e l'Inghilterra
hanno insegnato alcunché altrui; sibbene esse sono state
rimorchiate dalla Germania; ed è certissimo che la ini-
ziatrice delle riforme sociali più moderne, la antesi-
gnana del collettivismo è la Germania. II generale von
Bernhardi non è solo quando assevera che, per consenso
universale, la Germania occupa il primissimo posto,
innanzi a tutte le altre nazioni, nel socialismo scienti-
fico. Veramente il bravo generale attribuisce alla Ger-
— 127 —
mania il primo posto nelle scienze economiche Ma è
evidente che si tratta di un lapsus calami dell'illustre
scrittore pangermanista. È impossibile che egli potesse
considerare degne di nota le analisi dei Gossen, dei
Bohm Bawerk, dei von Wieser, ecc., che possono pa-
rere finissime solo ai seguaci della economia classica
inglese; ne è presumibile che egli volesse lodare le di-
mostrazioni, serrate ed elegantissime bensì, ma troppo
intinte di manchesterrianismo, con cui il Dietzel addi-
tava i danni della politica doganale tedesca odierna.
È chiaro che il Bernhardi voleva alludere a Carlo Marx
ed ai suoi interpreti e commentatori Schmoller e Wagner
e rispettivi discepoli, saliti agli onori delle cattedre uni-
versitarie, grazie a quella intima fusione, purtroppo non
abbastanza apprezzata all'estero, che in Germania si
nota fra tutte le classi sociali, per cui il vangelo delle
classi proletarie è divenuto carne della carne della
scienza universitaria. Nella sola Germania è avvenuto
che il pensiero economico si sia talmente imbevuto di
socialismo, da far quasi del tutto dimenticare l'antica e
reazionaria Economia politica, ormai condannata a me-
ritato oblio e sostituita) dalla nuova e moderna « scienza
economica socialista » o, più brevemente, « socialismo
scientifico. Non l'orgoglio tedesco, ma il consenso uni-
versale addita nella Germania l'innovatrice profonda nel
campo scientifico economico e l'iniziatrice delle riforme
sociali più audaci. Chi, se non Carlo Marx, ha dimo-
strato che la scienza economica inglese degli Smith, dei
Malthus, dei Ricardo, dei Senior era un volgare trucco
delle classi capitalische e plutocratiche per tenere a
bada nella miseria le classi proletarie? Chi, se non Carlo
Marx, ha esposto la nuova teoria del valore, dimostran-
— 128 —
do che esso non ne altro che lavoro coagulato e che
quindi solo il lavoratore ha diritto all'intiero valore delle
merci da lui solo prodotte? Chi, se non lui, ha detto :
operai di tutto il mondo, organizzatevi!)
L'organizzazione, ecco la grande scoperta della Ger-
mania moderna, che tutti gli altri paesi vanno a gara
ad imitare. Organizzazione, che vuol dire sforzo col-
lettivo e cosciente, organizzato in vista di un fine comu-
ne, senza mire particolari, per il raggiungimento del
maggior benessere della collettività. Neil* applicare il
principio collettivista dell'organizzazione, tutte le classi
sociali sono concordi. I socialisti italiani si sono mera-
vigliati della quasi unanimità con cui i socialisti tedeschi
hanno appoggiato il governo imperiale in occasione
della odierna guerra. Ma chi abbia letto e meditato il
volume di Roberto Michels su La Sociologia del partito
politico nella democrazia moderna (Torino, U. T. E. T .,
1912) non ha provato alcuna meraviglia. Come si voleva
che la democrazia sociale tedesca, dopo avere consu-
mato tanti anni, tanti sforzi e tanto denaro per creare
una organizzazione di partito, di leghe operaie socia-
liste, di propaganda, di stampa, tanto minuta e perfetta,
dopo aver costituito una gerarchia così bene conge-
gnata, così solidale, così agevolmente manovrabile dai
capi supremi, potesse arrischiare di distruggere l'opera
propria col permettere l'introduzione in Germania, al
seguito degli eserciti francese ed inglese, dello spirito
di individualismo, di anarchia, di irrequietudine, pro-
prio degli « agitati » compagni d'oltre Vosgi, o d'oltre
Manica? Essi, i socialisti tedeschi, ben sanno che il
socialismo di marca francese è tutta spuma e si esau-
risce nei discorsi incendiari e nella violenza; mentre in
— 129 —
realtà è lo strumento, non si sa se inconsapevole, del-
l'alta finanza parigina. I socialisti o meglio gli anar-
chici francesi sono le scolte del capitalismo individua-
listico e reazionario. Mentre in Germania le cose vanno
ben diversamente. Tutto è organizzato: il capitalismo
e lo Stato. 1 capitalisti hanno imparato che era inutile
farsi concorrenza, coi solo scopo di danneggiare la col-
lettività, sovratutto la collettività dei lavoratori; ed
hanno costituito, in ogni ramo industriale, i cartelli o
sindacati, mercè i quali la produzione è organizzata in
modo scientifico e moderno. In nessun paese del mondo
il capitalismo è proceduto tant'oltre sulla via della or-
ganizzazione collettivistica; in nessuno la concorrenza,
con la unificazione delle imprese, è stata egualmente ri-
dotta al minimo. In nessuno è così breve il passo ne-
cessario a farsi affinchè i lavoratori organizzati dal par-
tito socialista possano partecipare e alla perfine dive-
nire i dirigenti dell'organizzazione industriale e com-
merciale.
Lo Stato, spinto dalla fervida parola degli Schmoller
e dei Wagner e degli altri socialisti della cattedra, ha
compiuto anch'esso miracoli sulla via del collettivismo.
A non parlare delle foreste, delle ferrovie e delle mi-
niere di ferro e di carbone e di potassa che gli Stati
tedeschi esercitano meravigliosamente, lo Stato germa-
nico ha potentemente aiutato — con dazi protettivi, con
un'equja distribuzione nelle ordjinazìioni di rotaàe, di
materiale mobile ferroviario, di navi da guerra e di
quant' altro gli occorre — gli industriali tedeschi a for-
marsi una coscienza collettiva. Ormai essi sono abituati
a seguire un indirizzo comune; non più lavorano sol-
tanto per conseguire un utile e per sfruttare gli operai,
— 130 —
come nei paesi dove domina ancora l'individualismo
reazionario. No; essi lavorano per la consecuzione di
un fine comune, secondo le linee di massima stabilite
dal governo, come rappresentante della collettività; e
se ottengono spesso utili ingenti, superiori a quelli dei
concorrenti inglesi o francesi o italiani, quegli utili sono
il meritato compenso dell'azione sviluppata nell'inte-
resse comune; non sono il profitto del capitalista, ma
quasi l'onorario di chi conserva ancora del capitalista
le parvenze esteriori, ma in realtà è già la crisalide di
un futuro ministro o funzionario della produzione in
uno Stato collettivista.
La stessa coscienza degli interessi collettivi la Ger-
mania ha cercato di ispirarla nelle -masse lavoratrici,
mercè la meravigliosa legislazione sociale, di cui essa
è indiscutibilmente la maestra al mondo. Poiché si può
essere scettici intorno al valore degli altri contributi
politico-sociali dati dalla Germania airincivilimento
mondiale. Si può considerare la creazione dell* impero
tedesco come un fatto di prim'ordine solo dal punto di
vista storico e come mediocre il suo valore dal punto
di vista del tipo di organizzazione politica. Si può quin-
di credere che la unità germanica valga moltissimo ma
non più dell'unità italiana o francese; e che la forma
politica dell'impero sia un adattamento, ne migliore ne
peggiore di un altro, alle esigenze del momento. Ma
nessuno può negare che la legislazione sociale tedesca
sia quanto di più collettivisticamente complesso, di più
tecnicamente perfetto sia mai stato attuato nel mondo :
con le sue assicurazioni contro gli infortuni, la malattia,
la invalidità e la vecchiaia, con i suoi sanatori, i suoi
ospedali, i suoi parchi di convalescenza, i suoi investi-
13
menti in case popolari, in opere di pubblica utilità, il
sistema assicurativo tedesco forma un tutto armonico,
con tutti gli elementi del meccanismo meravigliosa-
mente ingranati uno nell'altro, il quadro migliore di ciò
che su scala più vasta sarà in avvenire la società col-
lettivistica organizzata del mondo intiero.
Le masse operaie ne sono così persuase che esse si
rifiutano, per noni perdere i bentefizi della mutualità e
delle assicurazioni sociali, ossia del collettivismo in
azione, ad abbandonare il suolo germanico. Da quando
in Germania invero si è iniziata l'attuazione del nuovo
regime sociale, i tedeschi più non emigrano. Invece
delle parecchie centinaia di migliaia di emigranti del-
l'epoca feudale e capitalista, sono ridotti a poche mi-
gliaia gli emigranti dell'epoca nuova collettivista. E quei
pochi che emigrano sono i missionari delle nuove for-
me di civiltà organizzata, che è compito della Germania
diffondere nel mondo.
***
Di fronte a questi miracoli, Francia e Inghilterra so-
no degli scolaretti balbettanti. In apparenza il socia-
lismo ha fatto dei grandi progressi in ambidue i paesi :
in Francia nel ministero vi sono uomini rappresentativi
del partito, e in Inghilterra il signor Lloyd George ha
scatenato contro di sé le ire della Camera dei Lordi e
di tutti i conservatori. In realtà, se il baccano è stato
grande ,i fatti sono stati piccolissimi. La Francia è e
pare debba rimanere un paese di piccoli proprietari ir-
riducibili agli ideali nuovi, di plutocrati che non hanno
nemmeno consentito finora 1* applicazione dell'imposta
sul reddito, neppure nella forma che in Italia abbiamo
— 132 —
da 50 anni; un paese dove le camere votarono, per
fare del bluff elettorale, una legge per pensioni di vec-
chiaia, salvo poi a tollerare che gli operai non pagas-
sero la loro quota di contribuzione e che il tutto si ri-
ducesse a un guazzabuglio inestricabile. In Inghilterra
le leggi per le assicurazioni sociali sono appena all'inizio
della loro applicazione; le famigerate imposte Lloyd-
georgiane contro la proprietà fondiaria rendono delle
somme ridicole, segno che non sono neppure riuscite
a scalfire l' epidermide del privilegio; gli operai conti-
nuano a votare per i partiti storici della borghesia, la
quale, detentrice del potere politico, continua ad avere
gli stessi ideali antichi di scimmiottatura della aristo-
crazia. No; non è verso la Francia e l'Inghilterra che ci
dobbiamo volgere per vedere attuati i postulati più au-
daci del socialismo scientifico; non è ivi che possiamo
credere di vedere presto i collettivisti al governo del
paese. Tutt'al più ivi vedremo dei « compagni » farsi
strada presso le masse elettorali con la predicazione del
rivoruzionarismo più acceso, dell'abbasso le armi!,
salvo a diventare, appena saliti al potere, i più fedeli
sostenitori della plutocrazia conservatrice e i presidenti
— a 100 mila lire Tanno di onorari — delle grandi so-
cietà capitalistiche viventi dei favori governativi. In
Germania invece noi vediamo, affratellate dalla guerra,
fondersi insieme le due burocrazie, quella statale e
quella socialista, che già prima erano tanto affini di
spirito; e la fine della guerra, se vittoriosa per la Ger-
mania, vedrà forse il primo Kaiser socialista diventare
T evangelizzatore del mondo a prò dei nuovi ideali della
solidarietà organizzata collettivista. Né sarà cosa strana
o ripugnante; poiché le teorie del socialismo scientifico
— 133 —
sono lo svolgimento razionale e logico dei principi che
in germe già si leggevano negli scritti e sovrattutto nelle
opere degli organizzatori dello Stato prussiano, dai
tempi del Grande Elettore insino agli anni in cui fiorì
Carlo Marx.
V'è bisogno di dire che le cose dette sopra — le
quali sono state nello scrivere forse leggermente colo-
rite, ma rispondono sostanzialmente alla verità, non
come la vedo io, ma come, se fossero logici, la dovreb-
bero vedere i democratici e i socialisti italiani — non
bastano ne a farci ritenere utile ed augurabile l'ideale
collettivistico germanico e neppure ad indurci a pren-
dere partito per l'una o l'altra delle due parti conten-
denti, a seconda che i nostri ideali si avvicinino di più
agii ideali individualistici inglesi o collettivistici germa-
nici? Ho voluto soltanto — mettendo in bocca un di-
scorso immaginario a un ipotetico demo-socio-moderno-
evoluto teorico italiano — mettere in chiaro come ra-
gionino falsamente quei democratici italiani i quali vor-
rebbero che l'Italia scendesse in campo per la difesa
degli ideali democratici francesi e inglesi contro la rea-
zione germanica. La verità si è che Francia e Inghil-
terra stanno — pur troppo a mio parere — attingendo
i loro ideali più moderni e più nuovi a purissime fonti
tedesche; cosicché, se i democratici fossero logici do-
vrebbero combattere per la Germania, che oggi è
maestra al mondo di democrazia collettivista. Ma ragio-
nano del pari falsamente quei conservatori più stretti,
frequentatori dei clubs del Whist o della Caccia, i quali
adorano la Germania perchè essa ha il pugno forte ed
— 134 —
è il solo Stato capace; di domare gli straccioni socialisti.
Li doma, assorbendone tutto lo spirito e attuandone
tutti gli ideali. Chi voglia vedere ancor coi suoi occhi
le delizie dello Stato collettivista, costui auguri alla
Germania la vittoria e quindi l'egemonia mondiale. Bu-
rocratismo e socialismo sono due fratelli siamesi; e se
noi accettiamo come un ideale il collettivismo, dob-
biamo inchinarci a quella Germania la quale — come
ha detto queirOstwald, il quale pare sia illustre tra i
chimici — ha il privilegio di possedere lo spirito orga-
nizzatore.
La verità si è che il problema della guerra non si
può discutere sulla base di parole di contenuto incertis-
simo, come a democrazia », « reazione », « ideali mo-
derni »; ogni popolo e principalmente noi italiani dob-
biamo discuterlo partendo dalle nostre concrete e pre-
cìse esigenze nazionali. Le quali sono di lingua, di cul-
tura, di razza, di confini militari, di equilibrio di forze.
E tra queste necessità principalissima è quella di non
lasciarci a organizzare » da nessun altro popolo, fosse
pure il sapientissimo tra i popoli della terra, e di non
imparare da nessun altro quali siano gli ideali politici,
nazionali e sociali a cui vogliamo attingere. Facendo
così, noi forse riusciremo a non cadere nel circolo vi-
zioso dei francesi e degli inglesi, che a malincuore com-
battono la Germania, dopo averla per tanti anni am-
mirata e adorata, specialmente per ciò che essa ha di
meno ammirabile : l'organizzazione », ormai degene-
rata in un collettivismo morti ficatore delle più belle
ed originali energie individuali.
(Dalla Minerva, 16 gennaio 1915).
GLI IDEALI DELLA INCAPACITÀ'
Ognuno di noi vede a modo suo i fatti caratteristici
della guerra odierna; ed a me uno dei fatti più singolari
di essa parve sempre la meraviglia, raccontata dalle
gazzette, del maresciallo von der Goltz quando, essendo
governatore del Belgio, vide gli operai belgi accogliere
con scarso entusiasmo il suo proposito di importare nel
Belgio gli istituti di assicurazione sociale, per cui va
celebre la Germania. Non so se siano veri il proposito
e la meraviglia, perchè di ogni fatto raccontato dalle
gazzette in tempo di guerra fa d'uopo dubitare; ma
sono certamente verosimili, in questo senso, che rispon-
dono da un lato all' altissima e, secondo l'universale,
meritatissima opinione che i tedeschi hanno della pro-
pria legislazione sociale, e dall'altro lato al naturale
senso di repugnanza dei belgi verso i doni recati da
quello che essi considerano ingiusto oppressore della
loro patria. Essendo opinione corrente e pacifica di tutti
i popoli che la legislazione sociale tedesca sia quanto
di più perfetto il mondo abbia in tal campo veduto, è
naturale l'onesta meraviglia del maresciallo nel vedere
i belgi repugnanti a tanto beneficio. E si comprende
come in taluni tedeschi sia sorta l'idea di una loro mis-
sione di diffondere nel mondo i principi e le applica-
zioni di queste più alte forme di civiltà di cui essi sono
gli antesignani. Ad essi o almeno ad una parte — che
— 136 —
è difficile valutare quale importanza abbia — di essi si
può soltanto rimproverare di volersi servire degli eser-
citi e della forza per affrettare ed assicurare la propa-
ganda delle nuove forme di civiltà; e il rimprovero ap-
pare giustificato quando si rifletta all'ardore, alla fre-
nesia con cui pensatori e uomini politici andavano da
tempo propugnando in Francia, in Inghilterra, negli Stati
Uniti e nella nostra Italia l'applicazione di metodi fog-
giati sul modello germanico.
La guerra forse ha ritardato la attuazione degli ideali
tedeschi nel mondo; poiché potrà darsi che, per una
legittima reazione, i paesi che con la Germania si tro-
varono in lotta ritardino a riconoscere la bontà degli
istituti tedeschi o vogliano cercare nuove vie diverse da
quelle che fatalmente avrebbero seguito. *
Comunque sia di ciò che in futuro potrà accadere,
certo è che nell'opinione universale gli istituti tedeschi
di assicurazione paiono ancora adesso la conquista più
alta della moderna civiltà nel campo economico-sociale.
Benedetto Croce non ha forse in una lettera recente
ad un amico (pubblicata nell'Italia nostra del 27 dicem-
bre 1914) fatta questa confessione? « Vedi : io ho pal-
« pitato un tempo pel socialismo parlamentare alla
« Marx, e poi pel socialismo sindacalistico alla Sorel;
« ho sperato dall'uno e dall'altro una rigenerazione
« della presente vita sociale. E tutte le due volte ho
« visto corrompersi e dileguare il mio ideale di lavoro
« e di giustizia. Ma ora mi si è accesa la speranza di
« un movimento proletario inquadrato e risoluto nella
« tradizione storica, di un socialismo di Stato e nazione;
« e penso che ciò che non faranno, ó faranno assai male
« e con finale insuccesso, i demagoghi di Francia, di
— 137 —
« Inghilterra e d'Italia (che aprono la via non al prole-
« tariato e ai lavoratori, ma, come dice il mio venerato
(( amico Sorel, ai noceurs), lo farà forse la Germania,
« dandone l'esempio e il modello agli altri popoli. Per-
« ciò giudico assai diversamente dai socialisti italiani
« l'atto compiuto da quelli di Germania; e credo che
(( quei socialisti tedeschi, che si sono sentiti tutt'uno
« con lo Stato germanico e con la sua ferrea disciplina,
« saranno i veri promotori dell'avvenire della loro
<( classe ».
Nelle quali idee del Croce molto vi è di accetta-
bile; poiché i demagoghi d'Italia e di Francia sono vera-
mente spregevoli, ed è assai deplorevole che, invasati
dalla manìa di imitazione germanica, i demagoghi in-
glesi abbiano fatto getto delle loro più belle tradizioni
nazionali. Ed è degno di rispetto grande l'atto dei so-
cialisti tedeschi che, in questo principio di guerra, si
strinsero attorno allo Stato nazionale; e sarà ancor più
ammirevole se, comunque volga prospera o avversa la
fortuna, essi seguiteranno sino alla fine della lottta nel
loro atteggiamento di solidarietà.
Ma il problema posto dalla vera o immaginata mera-
viglia del generale governatore del Belgio e dalla let-
tera del Croce è, parmi, un altro : il socialismo di Stato,
di cui la manifestazione più caratteristica è la organizza-
zione statale, suffragata oggi anche dal consenso soli-
dale dei lavoratori, dei più svariati rami di assicurazione
sociale, è davvero un ideale così alto di vita che la
speranza di vedere il movimento proletario inquadrato
e risoluto in essa debba sorriderci dinanzi agli occhi
della mente e debba farci guardare con fiducia all'av-
venire ?
— 138 —
Poiché io non ho questa speranza e non nutro questa
fiducia, credo opportuno di dire le ragioni del mio scet-
ticismo. Può darsi che il dissidio sia meramente contin-
gente; e che i fautori del socialismo di Stato tedesco mi-
rino agli stessi ideali miei, volendoli raggiungere per
una strada che ad essi può sembrare più sicura. Ad ogni
modo, poiché un certo dissenso, almeno iniziale, esiste,
è opportuno porre il problema.
Il quadro del socialismo di Stato tedesco* è certo
magnifico. Tutti gli operai, un po' per volta tutti gli
uomini al disotto di un certo livello di fortuna, vengono
irreggimentati in casse di assicurazione, gerite ini parte
dai rappresentanti degli stessi assicurati, che facendo
pagare adeguate quote agli assicurati, ai loro impren-
ditori e ai contribuenti in genere, e ripartendo i rischi,
li assicurano contro i darmi della invalidità, della vec-
chiaia, delle malattie, della maternità, degli infortuni e
li assicureranno contro i danni della disoccupazione e
della morte. In tal modo l'operaio, sicuro di sé e del
proprio avvenire, attende alle opere della produzione,
si abitua al maneggio degli affari delle proprie organiz-
zazioni e si eleva via via ad un più alto tenore di vita,
materiale e spirituale.
E sta bene. Questo è il diritto della medaglia. Il ro-
vescio sta nella premessa fondamentale da cui parte
tutto l' edificio del socialismo di Stato, ossia di orga-
nizzazione e di assicurazione universale ed obbliga-
toria : la incapacità dell'operaio, dell'uomo dotarlo di
scarsi beni di fortuna a provvedere da sé alle cose prò-
139
prie. Se noi facciamo questa ipotesi di incapacità, tutto
l'edificio si sviluppa logicamente. Si spiega come faccia
d'uopo costringere gli uomini a diventare previdenti,
a prelevare dal proprio salario varie quote per prov-
vedere alle diverse esigenze della vita, come occorra
organizzare ed inquadrare il movimento operaio nella
macchina statale per farlo funzionare in guisa da con-
durre al massimo benessere collettivo. Ma è pur sempre
una perfezione, un ideale che si muove entro una bas-
sura : l'esistenza di masse umane le quali hanno bi-
sogno di essere costrette alla previdenza, alla organiz-
zazione, alla solidarietà.
Che, se noi supponiamo di essere usciti da queste bas-
sure e di essere giunti a un momento storico in cui gli
uomini da sé sappiano curare i propri interessi, in cui
essi sappiano fare il confronto tra la convenienza di
spendere oggi o domani o fra un anno i propri guada-
gni, in cui sappiano valutare la convenienza di unirsi
volontariamente tra di loro per raggiungere un fine co-
mune, e sappiano calcolare quando' convenga lottare con
gli altri uomini o venire a una transazione, se noi fac-
ciamo questa avventurata ipotesi, il quadro cambia.
Il socialismo di Stato e le assicurazioni sociali germani-
che diventano una macchina ingombrante e inutilmente
costosa. L'uomo previdente sceglie da sé le vie di ri-
sparmiare e di prevedere; ed è probabilissimo che sce-
glierà le vie le quali siano più adatte ai suoi bisogni, al
suo temperamento, alle sue condizioni di famiglia. Che
bisogno ha egli di impiegare i propri risparmi aì
3 o 4 %, ossia all'interesse minimo che è compatibile
con l'assoluta sicurezza che deve essere tenuta di mira
da una organizzazione pubblica, e per giunta di lasciar
40
prelevare su questo scarso reddito una fortissima per-
centuale per le spese di gestione? Le spese della mac-
china sono false spese, le quali diventano convenienti
solo quando esse servano a sormontare l'ostacolo della
incapacità degli uomini a provvedere a se stessi. Ma,
rimosso l'ostacolo, la macchina funziona a vuoto, solo
per' procacciare stipendi agli amministratori e agli
impiegati.
Parimenti una cassa di disoccupazione è utile finche
si ha da fare con una massa operaia incapace a rispar-
miare volontariamente, nei periodi di occupazione sta-
bile e di prosperità economica, la somma necessaria a
superare le morte stagioni e i periodi di crisi. Ma se
l'operaio o l'impiegato» sa ragionare e sa prevedere, egli
preferirà di gran lunga tenere per sé tutte le 6 lire di
salario, versandone una su un libretto di cassa di ri-
sparmio. Quando, dopo aver lavorato 250 giorni, verrà
la morta stagione dei 50 giorni, egli si ritroverà l'intiero
gruzzolo delle 250 lire e potrà tranquillamente consu-
marle tutte, a 5 lire al giorno. La cassa di assicurazione
contro la disoccupazione, che non può far miracoli, gli
avrebbe restituito le sue 250 lire, meno le 25 o le 50
necessarie per il suo proprio funzionamento. Facendo
così, la cassa compie opera utile se l'operaio è dedito
all'imprevidenza, all'intemperanza e ai consumi imme-
diati; ma inutilmente costosa e quindi dannosa se
l'operaio è capace di provvedere a se stesso.
E si potrebbe seguitare. La legislazione relativa agli
arbitrati di lavoro è buona per quelle società in cui im-
prenditori e operai sono sforniti di educazione econo-
mica; e, partendo da ignoranze diverse, hanno bisogno
che qualcuno li consigli o li costringa a mettersi d'ac-
— 141 —
cordo. Mentre, se l'educazione economica è diffusa, se
le parti contendenti hanno saputo darsi dei capi colti,
intelligenti e accorti, le contese vengono risolute dai
rappresentanti delle due parti, discutendo, con criteri
tecnici accettati pacificamente, sui dati concreti delle
condizioni dell'industria, della sua produttività, dei
prezzi e dei costi, variabilissimi da caso a caso. E si
può, con molto fondamento di ragione, affermare che
quanto più cresceranno la educazione e la capacità dei
lavoratori, tanto meno essi avranno interesse di ricorrere
alle organizzazioni, non solo obbligatorie ma persino
volontarie, coi propri compagni. A che prò sopportare
le false spese della organizzazione quando gli identici
o migliori risultati possono ottenersi con l'azione indi-
viduale?
Laonde il socialismo di Stato alla tedesca ci con-
tinua ad apparire come una organizzazione mirabile
bensì, ma adatta soltanto a uno stadio inferiore di ci-
viltà. Non sarebbe del resto il suo maggior difetto. Co-
me, invero, togliersi di dosso il dubbio che esso sia al-
tresì uno strumento efficacissimo per fare rimanere gli
uomini nella condizione inferiore in cui essi si trovano?
Finche non sia dimostrato che la costrizione è il modo
migliore per educare gli uomini a essere previdenti, vo-
litivi, consapevoli dei propri fini, io continuerò a du-
bitare che esso sia invece il modo più efficace per con-
servarli in istato di servitù. Che differenza sostanziale vi
è fra lo schiavo, a cui, doveva paternamente provvedere
il padrone, e l'operaio, cui lo Stato insegna con la forza
quanto deve risparmiare per le malattie, per gli infortuni,
— 142 —
per la vecchiaia, per la famiglia, a cui il tribunale fissa
il salario, a cui la lega, inquadrata in un organismo sta-
tale, consiglia se e quando deve litigare col padrone e
quando accordarsi con lui per spennare, d'accordo con
lo Strato, l'anonima e inafferrabile folla dei consumatori?
Confesso candidamente che quando mi si dice che
in Germania vi sono 7 od 8 o 10 o 12 milioni di lavo-
ratori obbligatoriamente assicurati per una pensione di
vecchiaia o di invalidità, non mi sento menomamente
commosso. Sì, quando sento dire che in Italia vi sono
300,000 associati volontari alla Cassa nazionale per la
invalidità e la vecchiaia. Non mi commuovono i 12 mi-
lioni, perchè essi non hanno fatto, per essere assicurati,
alcun atto di volontà. È probabile che essi siano o stiano
diventando previdenti, per proprio conto, per altre vie
diverse da quella della assicurazione obbligatoria.
Questa, in quanto tale, non li trasforma. Restano inca-
paci, quali erano. Almeno in generale. Per sapere qual-
cosa delle virtù della assicurazione obbligatoria, biso-
gnerebbe poter rispondere alla domanda : quanti di
quei 12 milioni sono stati spinti, dalla sicurezza di avere
una pensione statale di vecchiaia di 200 lire, a rispar-
miare ulteriormente? La assicurazione obbligatoria è be-
nefica solo entro i limiti in cui è capace di produrre
questo effetto, ossia di trasformare psicologicamente gli
uomini1 e di preparare generazioni venture migliori, più
volitive delle attuali. Ha essa questo effetto ed entro
quali limiti? Questo bisognerebbe sapere; ed! a questa
stregua bisognerebbe valutare la virtù di elevazione, la
quale potrà essere elevatissima e di pregio superiore al
costo, della legislazione sociale tedesca. Frattanto so co-
me cosa certa che i 300,000 assicurati alla cassa nazio-
— 143 —
naie italiana, o almeno la parte di essi che non furono
assicurati dai propri principali ma liberamente da se si
associarono alla cassa, sono già trasformati, ossia ap-
partengono a quella eletta schiera di persone che si
sono sapute trarre su dal gregge di coloro a cui è gioco-
forza provvedere con la verga degli schiavi o con la
legislazione e le inquadrature dei professori di socia-
lismo di Stato.
(Dalla Minerva, 1° aprile 1915).
GERMANOFILI ED ANGLOFILI
Mario Borsa, il quale, essendo vissuto dodici anni
in Inghilterra ha amato quel paese ed a differenza di
quasi tutti i suoi colleghi corrispondenti dei giornali ita-
liani, ha cercato di penetrare dentro nella vita e nella
storia del popolo britannico, si chiede, in un suo re-
cente opuscolo (Italia ed Inghilterra, Milano, Società
Editoriale italiana, 1916) quale sia la ragione « di quello
« strano e sottile spirito di diffidenza e di antipatia che
« si è infiltrato nel popolo nostro contro l'Inghilterra ».
Mi sia consentito di aggiungere, a quelle acutamente
osservate dal Borsa, un'altra ragione potentissima di an-
tipatia; e sono gli anglofili italiani.
Credo di avere il diritto di parlar male di costoro,
prima che la marea ci soffochi. Siamo stati dei pochis
simi in Italia, noi del gruppo degli scrittori di questa
rivista, ad avere il cultoi dell'Inghilterra : non della ric-
chezza inglese e delle cifre grosse dei bilanci inglesi, ma
delle idee inglesi e del modo di ragionare e del modo
di concepire la vita, la libertà e la politica che si usa
in Inghilterra. E poiché, dopo avere molto letto e stu-
diato, eravamo persuasi di non sapere ancora nulla, ci
sia lecito dire che quella dei nuovissimi ammiratori del-
l'Inghilterra è una fastidiosa e velenosa fugaia.
Costoro minacciano di diventare una peste peggiore
dei tedescofili di non lontana memoria. Adesso, non si
— 146 —
trova più un tedescofilo a volerlo pagare un occhio. Ma,
se si guarda bene in fondo, si osserva senza meraviglia
che essi si sono tutti tramutati in anglofili, e predicano
la necessità di stringere intimi rapporti con quella che
prima usavano chiamare « la perfida Albione ».
Erano già insopportabili in qualità di germanofili;
ma almeno non erano assurdi. Alcuni avevano viaggiato
in Germania ed avevano « ammirato » la pulizia, l'or-
dine, il rispetto alle autorità, i treni in orario, le bir-
rerie e la birra. Altri erano andati a visitare le fabbriche
tedesche, ed erano rimasti stupefatti dinanzi alle enor-
mi superfici occupate, alle macchine potenti, agli ar-
chivi sterminati dove tutte le esperienze chimiche, elet-
triche, ecc. sono catalogate, afnncate e messe in ordine
e s'erano persuasi che i tedeschi fossero, i soli genii or-
ganizzatori del mondo; e per poco non avevano imma-
ginato che solo i tedeschi sapessero con la organizza-
zione costringere carbone e minerali di ferro a cacciarsi
nel loro sottosuolo, od i fiumi a scorrere placidamente
attraverso a pianure artefatte. Altri era andato a spen-
dere T importo del premio di perfezionamento nelle uni-
versità germaniche ed era rimasto commosso per l'onore
fattogli di un invito a pranzo da parte del direttore del
laboratorio o di una collaborazione col « celebre » pro-
fessore tedesco in una prima monografia sperimentale.
Tutti costoro erano germanofili nati ed erano perciò grot-
teschi. Ma almeno erano stati in Germania ed erano di-
venuti ammiratori perchè c'era qualcosa che aveva fatto
colpo su di loro. S'erano persuasi, vedendo tutto grosso,
enorme, colossale, potente, che il popolo provvisto di
tutto questo ben di dio fosse destinato a dominare il
inondo; ed, anime di servi, s'erano affrettati a predi-
— 147 —
care che gli italiani dovevano mettersi alla coda dei te-
deschi, se volevano diventare anch'essi grossi, enormi,
colossali, potenti ed avere, alla fine della guerra, Nizza,
Corsica, Tunisia, Siria, e forse anche il Madagascar ed
il Tonchino.
Ma almeno i germanofili erano stati in Germania;
od avevano fatti affari con dei commessi-viaggiatori te-
deschi, od avevano comperato da essi buone macchine
che lavorano magnificamente, od avevano venduto in
Germania, con lucro, merci italiane.
Gli anglofili sono peggiori e più noiosi dei germa-
nofili. Ho il vago sospetto che siano quegli stessi aspi-
ranti-professori, viaggiatori perditempo, clienti di com-
messi-viaggiatori tedeschi di prima della guerra, che
ora, dovendo per forza ammirar qualcuno, si sono fatti
pedissequi dell' Inghilterra. La « perfida Albione », è
divenuta « l'antica e tradizionale amica dell'Italia ».
Suppergiù questa frase è tutto ciò che gli anglofili ita-
liani sanno dell'Inghilterra. Hanno sentito dire nei di-
scorsi e letto sui giornali che Cavour, Garibaldi, Mazzini,
Ruffini e gli altri apostoli e costruttori dell'Italia nuova
erano vissuti in Inghilterra, ovvero ivi erano stati am-
mirati, incoraggiati ed aiutati; sanno che Gladstone
scrisse un famoso opuscolo contro i Borboni; e con
questo pesante bagaglio letterario sono divenuti ammi-
ratori ed amici del paese che oggi è nostro alleato.
L'animo del servo e lo stupore dell'asino non sono
l»erò venuti meno. Coloro che un tempo manifestavano
il loro servilismo e la loro ignoranza citando il signor
Berselbe nelle dotte note del titolo da concorso, oggi
— 143 —
che la guerra ha costretto anche i professori a scendere
in piazza ad evangelizzare i popoli, spropositano comi-
camente nel discorrere dei loro nuovi amici inglesi. V'è
un modo rapido, poco costoso, ma sicuro di individuare
gli anglofili che non hanno mai letto nessun libro inglese
e non sono neppure arrivati a scalfire la pelle della col-
tura inglese; ed è l'uso dei prefissi Mr., Sir, Lord. Gli
anglofili reduci dalla germanofilia non sospettano nep-
pure che lo scrivere « Lord Asquith » invece di « Mr.
Asquith » è un delitto atto a far fremere nelle loro tom-
be i custodi delle più belle tradizioni politiche del par-
tito liberale; e che un grammatico inglese potrà passar
sopra ad un errore di sintassi, ma non perdonerà giam-
mai a chi osi scrivere « Sir Grey » invece di « Sir Edward
Grey ». Perchè chi commette questi errori, come pure
chi nello scrivere premette al nome di un deputato in-
glese l'adulatorio aggettivo italiano ori. invece di far suc-
cedere al nome le lettere M. P. (member of parliament),
o tratta correntemente con Y eccellenza i ministri inglesi,
dimostra di ignorare, oltreché la grammatica, parecchie
cose le quali non possono essere rimaste ignote anche
al più modesto conoscitore della storia, delle consuetu-
dini e delle tradizioni politiche inglesi od al più distratto
lettore di romanzi di Dickens e di Walter Scott. Dimo-
strano i nostri anglofili di ignorare, per citare solo qual-
che esempio, che una grande tradizione vuole che il
premier in un governo liberale, se già non appartenga
per nascita alla nobiltà, non accetti titoli di nobiltà o
cavallereschi : Gladstone volle sempre rimanere un sem-
plice Mr. o signore e l' Asquith ne segue l'esempio.
E, s'intende, codesti anglofili, che conoscono così
bene i caratteri più esteriori e noti della vita politica in-
— 149 —
glese, pretendono ad ogni altro giorno che l'Inghilterra
debba in furia mettersi a studiare l'Italia. Poiché la
caratteristica di codesti anglofili è la smania di insegnare
agli inglesi che cosa sia l'Italia. Vorrebbero che gli edi-
tori inglesi cambiassero le loro guide, cosicché i viag-
giatori britannici potessero visitare, oltreché le pinaco-
teche ed i musei ed i ruderi, anche le opere « pulsanti »
della vita moderna; a rischio di far fuggire inorriditi i
forestieri, i quali in Italia cercano sensazioni riposanti
e tranquille e diverse da quelle, dopotutto assai noiose
esteticamente, del fumo e dei camini e del baccano dei
saloni delle moderne manifatture.
Sanno, anche, gli anglofili che l'Inghilterra è ricca.
I discorsi del bilancio del signor Mac Kenna hanno dato
loro alla testa. Vedono miliardi e sterline dappertutto.
Al culto dell' <( organizzazione » tedesca hanno sostituito
il culto della « sterlina » inglese.
Vorrebbero, perciò, codesti anglofili l'elemosina dal-
l'Inghilterra. Si possono perdonare loro gli errori di
grammatica, il seicentismo italo-tedesco nelle titolature
verbali, la smania di far visitare fabbriche e bonifiche a
chi vuol vedere quadri e monumenti; ma non si può
perdonare loro la miserabile figura di pezzenti che ci
fanno fare dinanzi agli alleati.
Aumentano i noli, perchè il tonnellaggio marittimo
è ridotto alla metà; e perchè da che mondo è mondo,
quando una merce è rara, è impossibile impedire che
i prezzi aumentino, o che, a prezzi uguali, la quantità
sia razionata colla forza e che quindi, nel caso del na-
viglio, molta minor merce sia trasportata? E subito si
chiede che l'Inghilterra debba assegnare, il che vuol
dire regalare prò tempore, navi all'Italia a noli di favore.
50
Crescono i cambi ed occorrono 32 lire italiane per
comperare quella lira sterlina che prima ci comprava
con 25 lire? E subito i soliti anglofili od adoratori della
borsa inglese, come prima lo erano della borsa tedesca,
gemono sulla sconoscenza da parte dell'Inghilterra della
bontà della lira italiana; ed invocano non si sa che, es-
sendo il loro linguaggio singolarmente vago, ma in so-
stanza vogliono che l'Inghilterra ci dia prova di amici-
zia accettando 25 lire soltanto in cambio della sua lira
sterlina.
Il che, in lingua povera e chiara, è un chiedere l'ele-
mosina; ed è intollerabile per un paese come l'Italia il
quale è entrato in guerra per il raggiungimento dei suoi
ideali nazionali. Nessun popolo è capace di raggiun-
gere un ideale quando nel tempo stesso si abbassa al-
l'atto servile di chiedere l'elemosina di una merce a
sotto-prezzo. Noi dobbiamo, sì, chiedere all'Inghilterra
di aiutarci con denaro e con navi e con carbone; noi
abbiamo diritto di partecipare, insieme con gli altri al-
leati e prò rata, al limitato fondo di denaro, di carbone
e di navi che gli Alleati, compresa l'Inghilterra, posseg-
gono. È augurabile che un modo si trovi per ripartire
prontamente, efficacemente denaro, carbone, navi fra
gli Stati a norma dei loro bisogni militari; perchè ciò
è necessario al successo della causa comune. L'Italia non
deve pagare nulla più del minimo prezzo corrente delle
cose ad essa necessarie; ed è ragionevole che per scopi
militari si cerchi di ottenere prezzi non superiori a quelli
che possono essere considerati prezzi normali di costo.
Ma l'Italia deve aver l'orgoglio di pagare, sui capitali
ricevuti a prestito dall'Inghilterra, nulla di meno dei
tasso contente di interesse; e di non accettare carboni
15
e noli a prezzi di favore. L'Italia non sa che farsene de-
gli anglofili che di volta in volta hanno bisogno di lec-
care gli stivali ad un nuovo padrone. L'amicizia si ce-
menta coli 'opera comune, collo sforzo per raggiungere
ideali affini; si distrugge quando è basata su mal chieste
ed a stento concesse elemosine.
*
In realtà ad essere anglofili sul serio è cosa ardua,
come era cosa ardua essere prima veramente germano-
fili. Ma quando lo si è, si rimane tali, guerra o non
guerra, per tutta la vita, perchè l'essere germanofili od
anglofili sul serio vuol dire soltanto che si è riconosciuto
che nel pensiero o nella vita di un altro paese vi era
qualcosa che meritava di essere appreso e meditato e
trasformato in pensiero proprio ed in forza modificatrice
della vita del proprio paese.
Io non sono mai stato — d'accordo, del resto, in ciò
con la maggior parte degli studiosi italiani di scienze
economiche — germanofilo. Ma non per odio irragio-
nevole verso quel paese; o perchè disconoscessi quali
grandi contributi i tedeschi abbiano recato al progresso
di altri rami scientifici. Bensì perchè il contributo ger-
manico al progresso delle scienze economiche è stato
mediocrissimo, assai inferiore, per non parlar dell* In-
ghilterra, a quello dell'Italia, della Francia ed oggi anche
degli Stati Uniti. Specialmente i massimi baccalari uffi-
ciali viventi della scienza economica tedesca, i Wagner,
gli Schmoller, a cui ora si può aggiungere il Sombart,
mi erano sempre sembrati mediocri economisti. Perciò
la cultura tedesca mi interessava poco ed i suoi scrittori
52
più rimarchevoli mi erano sempre sembrati quelli che
godevano minor fama nella loro patria e recavano meno
spiccata l'impronta germanica. Ma comprendo perfet-
tamente che i giuristi ammirassero e studiassero il Sa-
vigny, lo Jehring ed altri sommi, gli storici il Mommsen
ed il Ranke, i filosofi la pleiade di menti sovrane fiorite
nella Germania del passato. In che cosa la guerra ha
potuto mutare questo atteggiamento spirituale? I giuri-
sti, almeno quelli degni di questo nome, se non gli scim-
miotti dei Derselhe, seguiteranno a studiare ed a citare
il Savigny, gli storici il Mommsen, i filosofi Kant ed He-
gel, ed i chimici ed i fisici gli scienziati che hanno sco-
perto nuove verità nel campo loro. O che gl'italiani do-
vrebbero diventare ignoranti, scrivere degli spropositi,
reinventale le verità già scoperte solo perchè il popolo, a
cui quei grandi appartennero, si è reso colpevole della
guerra odierna? Io seguiterò a non studiare ed a non
citare i Wagner, gli Schmoller ed i Sombart; ma non
perchè siano tedeschi, sibbene perchè, a parer mio,
scrissero cose di poco conto e fecero dell'economia e
della storia economica di quart'ordine.
Per la stessa ragione — scarsa originalità e scarsa
bellezza di sviluppo spontaneo — le istituzioni politiche
e sociali germaniche hanno destato sempre in me scarso
interesse. Il volgo può trovare ammirabili le a organizza-
zioni » politiche germaniche, perchè il volgo ammira le
cose regolari, gerarchiche;, macchinose. Ma, in fatto di
organizzazione politica centralizzata, qual cosa mai po-
tevano i tedeschi aggiungere al meraviglioso organismo
ricreato dalla mente geniale del primo Napoleone sulle
traccie dell'opera dei Re di Francia? La macchina te-
desca delle assicurazioni sociali può tutt'al più sembrare
— 153 —
degna di interesse scientifico ad un amatore di regola-
menti. Poiché, quando si sia deciso di obbligare alcuni
milioni di uomini a fare certe cose, qualunque funzio-
nario che abbia una perizia tecnica del piccolo proble-
ma da risolvere, può elaborare gli articoli di regolamento
necessari all'uopo; e con regolarità meccanica i milioni
di assicurati sussidiati, pensionati, indennizzati si alli-
neano nelle colonne delle statistiche periodiche. Che
cosa vi è di interessante in tutto ciò e di realmente utile
al perfezionamento intimo dell'uomo?
Per contro, se anche la sventura avesse voluto che
l'Italia dovesse trovarsi, per ipotesi assurda, o per po-
tenza di triplicisti, in guerra con l'Inghilterra, avrei po-
tuto cessare di essere un lettore appassionato, quasi mo-
nomaniaco, di libri inglesi, come sempre sono stato fino
dai banchi dell'università? La guerra potrebbe forse far
sì che non siano nati in Inghilterra Adamo Smith e Da-
vide Ricardo e che insieme con essi una pleiade di
grandi economisti non abbia fatto per il progresso della
scienza economica più di quanto non poterono fare tutti
gli scrittori delle altre nazioni presi insieme? Potrebbe
forse la guerra distruggere la formazione storica della
costituzione inglese e dell'impero britannico, di cui nulla
di ugualmente meraviglioso si vide nel mondo fuor
dello sviluppo storico della costituzione e dell'impero
romano? E potrebbe forse la guerra distruggere il fatto
che nessun paese può vantare, appunto' a causa della
sua formazione storica, una letteratura politica parago-
nabile a quella dell'Inghilterra? Ed io dovrei, solo per-
chè capitassimo ad essere in guerra, preferire alla let-
tura di quei grandi capolavori la noia di dovermi sorbire
le chiacchierate imperialistiche senza costrutto di qual-
— 154 -
che vanesio scrittorello italiano in cerca di novità? Di
essere anglofili o germanofili o francofili non si può far
a meno quando l'esserlo risponda ad un intimo bisogno
dello spirito di conoscere e di assimilare il pensiero de-
gli altri paesi. È. grottesca la germanofilia dei cannoni
da 420, della birra buona e delle fabbriche di colori;
come è ridicola 1* anglofilia delle miniere di carbone o
delle dreadnoughts, o la francofilia della torre Eiffel;
ma l'amore delle idee vere e delle cose belle non può
essere distrutto neppure in tempo di guerra. E sarebbe
un danno lo fosse. Perchè vorrebbe dire che saremmo
meno ricchi degli altri nel mondo delle idee, da cui alla
perfine provengono quelle cose passeggere e senza im-
portanza nella storia umana che sono le fabbriche di
colori, le miniere di carbone e le torri Eiffel.
(Da « La Riforma Sociale », aprile 1916).
LA TEORIA INGLESE
DELL'EQUILIBRIO EUROPEO
£ tornata di moda in questi ultimi tempi e in Italia
una scoperta scientifica intorno aUa quale avevano me-
nato' gran rumore i giornali tedeschi nei mesi di agosto
e settembre 1914: essere la teorìa della equilibrio delle
potenze » sul continente europeo un idolo a cui ora
si immolano i popoli ». Questa teoria sarebbe nata non
in Germania ma in Inghilterra, e sarebbe un congegno
conservatore dell' imperialismo inglese, ora contro la Ger-
mania, ora contro la Russia, ora contro la Francia. L'In-
ghilterra avrebbe consolidato sempre la sua posizione
egemonica sugli altri popoli europei scagliandoli in guer-
ra l'uno contro l'altro.
Questa concezione della guerra si può chiamare « vol-
gare » come quella che non richiede alcuno sforzo di
pensiero e risulta dall' applicazione ai grandi avvenimen-
ti storici dei metodi di ragionamento propri di coloro
i quali non badano ad altro che al vantaggio pecuniario
immediato. Il contadino ignorante, il quale vuole spie-
garsi la ragione per cui certi « signori » richiedono il
suo voto per riuscire deputati o fanno pubblica propa-
ganda per il prestito nazionale, non sa trovarne altra
fuor della speranza che coloro abbiano di fare, con quel
metodo, denari. Egli invero non concepisce vi possa
— 156 —
essere altro movente all'azione degli uomini fuorché il
desiderio del denaro. Così gli uomini digiuni di ogni
cultura storica ed economica, i quali costituiscono trop-
pa parte della classe politica italiana, non sapendo com-
prendere perchè l'Inghilterra si sia voluta impacciare in
faccende che non la riguardano, come l'annessione del
Belgio e della Serbia o la cessione delle colonie fran-
cesi a vantaggio della Germania, dicono che l'Inghilterra
si decise alla guerra per lucrare alle spalle dell'Europa
divisa, mutuando denari a forte interesse, impadronen-
dosi delle colonie tedesche e facendosi pagare cari noli
e carbone. Poiché queste spiegazioni da montanaro
dalle scarpe grosse possono non sembrare ai lettori raf-
finati abbastanza eleganti, i giornali tedeschi prima ed
ora alcuni italiani hanno pensato di sostituirle con « l'i-
dolo atroce e funesto » dell'equilibrio europeo, grazie
al quale l'Inghilterra diventerebbe gigante fomentando
la discordia tra i popoli europei.
Non farò appello alla ricca letteratura, la quale pro-
va il magnifico svolgimento che in Inghilterra hanno
avuto le idee di libertà politica e di indipendenza delle
nazioni, e quale profonda influenza quelle idee hanno
avuto sull'azione degli uomini politici inglesi. Non ri-
corderò che l'impero inglese è divenuto grande perchè è
il maggiore conglomerato, conosciuto nella storia, di
nazioni libere ed indipendenti le une dalle altre e dalla
madrepatria. Non ricorderò neppure come l'esperienza
della guerra attuale abbia provato quanto fervore di pa-
triottismo siasi manifestato, senza alcuna costrizione
— 157 —
dalla madrepatria, nel Canada, nell'Australia, nel Sud-
Africa, nell'India stessa. Non ricorderò come siano state
crudelmente deluse le speranze di coloro i quali spera-
vano vedere sollevarsi l'India o per lo meno rompersi i
vincoli di unione fra l'Inghilterra e la boera Africa del
Sud. Tutto ciò — agli occhi dei mercanti di buoi, dei
montanari dalle scarpe grosse e dei giornalisti sopraf-
fini, i quali avrebbero preteso che l'on. Salandra contrat-
tasse con l'Inghilterra prima della nostra dichiarazione
di guerra la fornitura gratuita, o il che fa lo stesso, a
50 lire per tonnellata, di tanti milioni di tonnellate di
carbone reso a Genova — appartiene al mondo delle
idee e delle sentimentalità e non conta nulla.
E sia. Atteniamoci al puro interesse. La teoria vera
dell'equilibrio, spoglia di ogni elemento ideale di sim-
patia verso le nazionalità oppresse, dal punto di vista
inglese è la seguente : « è necessario per la salvezza del-
l'Inghilterra e del suo impero che nessuno Stato euro-
peo diventi talmente forte da potere dominare su tutta
l'Europa. Perchè, se ciò accadesse, l'Inghilterra in un
momento successivo diventerebbe preda dello Stato ege-
monico e sarebbe finita la sua esistenza come nazione
indipendente ».
Non vi è dubbio che la teoria dell'equilibrio, così
concepita :
— risponde ad una necessità assoluta per 1* Inghil-
terra, fino a quando almeno si creda che uno Stato agi-
sca in modo da potere continuare a vivere;
— risponde all'interesse più evidente di tutti gli.
Stati europei, salvo di quell'uno, il quale vuole acqui-
stare dominio sugli altri;
— non è in contrasto con l'idea della nazionalità;
— 158 —
poiché in um continente così vario per razze, lingue, tra-
dizioni come l'Europa, il rispetto delle nazionalità non
può non lasciare sussistere una varietà grande di Stati
sovrani, incompatibile con il predominio di uno solo;
— non è in contrasto con l'ideale di una futura
federazione europea; poiché siffatta federazione, se non
imposta da uno Stato egemonico, non potrà non essere
rispettosa degli ideali, della civiltà, della lingua e degli
interessi di ogni nazione federata. Contro una federa-
zione di simile genere la teoria inglese dell'equilibrio —
quella vera, non quella inventata dai pseudo storici te-
deschi recenti — non ha più obbiezioni da fare. L'im-
pero inglese è anzi il tipo, oggi vivente e dalla guerra
rafforzato, di queste libere federazioni di Stato; ne si
vede la ragione per cui tra l'impero inglese e la even-
tuale federazione europea non possano stabilirsi vincoli
politici in forme che oggi non è possibile immaginare,
ma che i politici dell'avvenire saprebbero escogitare.
***
Queste sono vecchie verità, note a quanti hanno letto
qualche libro di storia. Io ho tra mani un interessante
opuscolo politico di Paul de Thoyras Rapin, storico fran-
cese, ugonotto, cacciato di Francia dopo la revoca del-
l'editto di Nantes (1686), emigrato in Inghilterra e morto
nel 1723 in Olonda. L'insigne autore di una delle prime
storie scientifiche dell'Inghilterra in questa sua Disscr-
tation sur les whtgs et les torys (A la Haye, 1717) ha
alcune pagine che spiegano benissimo la ragion d'essere
della politica d'equilibrio seguita già allora da secoli
dall'Inghilterra.
159
« Dopo l'ingrandimento della Casa d'Austria — scri-
veva lo storico francese nel 1717, ossia subito dopo la
fine della guerra di successione d'Austria durata dal 1701
al 1713 — ossia da circa duecent'anni in qua, l'Inghil-
terra ha sempre potuto far pendere la bilancia o dal
lato di Casa d'Austria o dal lato della Francia, secondo
il partito che essa riteneva migliore. Ma il suo interesse
costante e perpetuo è stato di conservare l'uguaglianza
fra questi due poteri. È questo il perno, su cui da due
secoli ha girato tutta la politica dei Re d'Inghilterra ».
Se Luigi XIV ha fatto tanti tentativi per impedire agli
inglesi di prendere partito contro di lui, ciò fu dovuto
« soltanto ai vasti disegni che egli aveva formato con-
tro la libertà dell'Europa. Senza di ciò, egli non avreb-
be avuto bisogno di preoccuparsi degli inglesi. Tutti
sanno che Luigi XIV aveva concepito il progetto di sta-
bilire una monarchia universale in Europa. Siccome egli
non ignorava che l'interesse dell* Inghilterra era di man-
tenere la bilancia dell'Europa in equilibrio e che gli in-
glesi consideravano questa massima come il fondamento
principale della loro sicurezza, era da temersi che essi
si sarebbero opposti alla esecuzione dei suoi disegni ».
Di qui gli intrighi francesi rivolti a profittare del desi-
derio di Carlo II di ristabilire il potere assoluto in In-
ghilterra per farlo annuire alla sua campagna contro
l'Olanda; di qui la protezione concessa dappoi ai pre-
tendenti Stuardi affine di tener occupati gli inglesi a
casa loro ed impedire ad essi di intervenire negli affari
europei mentre egli cercava di stabilire sul continente
la sua egemonia. Di qui le diversioni in Irlanda, dopo
1* cacciata di Giacomo II. Il Re di Francia, conclude il
TJioyras-Rapin, ha ragione di temere l'Inghilterra
— 160 —
« quando egli nutre qualche progetto contro il resto del-
l'Europa. Ma se egli ha per iscopo soltanto di vivere in
pace e di difendersi semplicemente, nel caso egli fosse
attaccato, nulla può essergli tanto vantaggioso come di
coltivare l'amicizia dei Re d'Inghilterra ».
Sostituiamo Filippo II di Spagna, Napoleone ovvero
la Germania odierna a Luigi XIV e noi abbiamo nelle
parole del Thoyras-Rapin la spiegazione logica della
condotta dell'Inghilterra da Elisabetta ai giorni nostri.
Essa non ha alcun interesse a mescolarsi delle cose
europee, se non quando alcuno degli Stati continentali
(( nutra qualche progetto contro la libertà del resto del-
VEuropa )) e minacci di « stabilire una monarchia uni-
versale sul continente ». Per impedire la monarchia uni-
versale europea l' Inghilterra ha profuso miliardi ed ha
versato il miglior sangue dei suoi figli. Ne è possibile
negare che, grazie all'ostinazione inglese contro Luigi
XIV ed ai sussidi britannici, il Piemonte potè conservare
la sua indipendenza ed il suo valoroso principe, Vittorio
Amedeo II, potè continuare a far la guerra di bande
contadine contro gli eserciti di Catinat, fino alla pace
del 1696 e poi nella nuova guerra contro la Francia, fino
alla liberazione di Torino nel 1706. Chi, senza l'ostina-
zione disperata del Piemonte e la pertinacia inglese
avrebbe potuto impedire alla Francia di Luigi XIV di
estendere praticamente il suo dominio su tutta l'Italia?
Alla teoria inglese dell'equilibrio non dobbiamo perciò
forse la indipendenza e la forza del Piemonte prima e
l'indipendenza italiana poi?
— 161 —
Un secolo dopo la medesima esperienza si ripete.
Senza l'ostinazione inglese, la Germania ben difficil-
mente avrebbe potuto scuotere il giogo napoleonico.
Nessuno vuol sminuire l'abnegazione e le virtù civiche
della piccola Prussia, dove sotto le ceneri covava il fuo-
co delia rivolta e dove insigni statisti, nei momenti del
servaggio più duro, apparecchiavano i mezzi per la ri-
scossa. Ma è certo che, senza il blocco inglese, senza
l'annientamento della potenza marittima francese a Tra-
falgar, senza gli aiuti forniti dall'Inghilterra alla Russia,
alla Spagna, all'Austria, il sogno di dominio universale
sull'Europa era prossimo ad avverarsi con Napoleone.
L'Inghilterra salvò se stessa, lottando contro Napoleone:
ma nel tempo stesso salvò la causa della nazionalità
tedesca e di quella italiana. Appunto perchè grandi era-
no gli impulsi al rinnovamento venuti di Francia, gran-
dissimo era il pericolo che l'Italia divenisse francese, ri-
nunciando alla sua autonomia nazionale. Fu d'uopo il
duro servaggio autriaco per far rifulgere quella coscien-
za nazionale, che prima era obliterata e le cui lievi trac-
eie facilmente andavano cancellandosi nel fulgore del-
l'impero napoleonico.
Due volte l'Inghilterra, durante il secolo XIX, rinun-
ciò a far valere la teoria dell'equilibrio. Mal ne incolse
a lei ed all'Europa. La prima volta fu quando essa as-
sistette inerte allo smembramento delle contrade danesi
dello Schleswig-Holstein dalla Danimarca. Non avere
impedito che Austria e Prussia, unite per allora nella
brutta impresa, togliessero alla Danimarca anche le pro-
vince prettamente danesi del disputato territorio, dimi-
nuì grandemente il prestigio inglese nella Scandinavia.
— 162 —
La seconda volta fu quando non osò intervenire a dispu-
tare alla Prussia la appropriazione dell'Alsazia Lorena.
In ambedue questi casi di assenteismo dell'Inghil-
terra si ebbero ferite profonde all'ideale di nazionalità
ed agli interessi della pace europea duratura.
No; la teoria inglese dell'equilibrio non è un idolo
atroce e funesto; ma è una forza benefica contro la pre-
potenza egemonica di uno Stato prepotente sugli altri
Stati europei. Fino a quando il sorgere di una federa-
zione europea, avente comunanza di ideali e di interessi
con la federazione britannica non la renda inutile, la teo-
ria dell'equilibrio, concepita nel modo vero inglese, ossia
sotto la forma negativa di lotta contro l'egemonia di una
sola potenza continentale, rimane la garanzia più salda
della libertà delle nazioni di cui l'Europa si compone.
Hanno « l'ansia penosa di rimanere soffocati » da que-
sta teoria soltanto i popoli e gli Stati i quali meditano
di dominar gli altri; non quelli i quali aspirano soltanto
a vivere liberi e composti in unità nazionale.
(Dal Corriere della Sera, 1° febbraio 1917).
L'IDEA DELLO STATO COME FORZA
ENRICO VON TREITSCHKE : La politica, traduzione di
Ettore Ruta; voi. I. L'essenza dello Stato, pag. XV- 191;
voi. II. Le basi sociali dello Stato, pag. 189; voi. III.
La costituzione dello Stato, pag. VIII-331; voi. IV. L'am-
ministrazione dello Stato. Lo Stato nei rapporti tra le
nazioni, pag. 219 (Bari, Gius. Laterza e figli, 1918.
Prezzo L. 25).
Gli editori Laterza, i quali si erano già resi bene-
meriti pubblicando l'anno scorso i due volumi del T.
su La Francia del primo impero al J87J (L. 8), hanno
grandemente accresciuto le loro benemerenze verso la
cultura italiana facendo tradurre questa Politica, che
insieme alla Storia della Germania è una delle opere
capitali del Treitschke.
Non ho sottomano il testo tedesco e non posso dire
fino a qual punto la traduzione del Ruta sia fedele.
Dove il T. parla di argomenti tecnici, di diritto, di am-
ministrazione, di economia politica si sente il vago di
chi non è padrone della materia e non può quindi sa-
pere che certe parole tedesche si traducono con certe
altre italiane, le quali hanno un posto preciso nella
terminologia scientifica. È un errore, ad es., tradurre
Ein\ommensteuer con « imposta di ricchezza mobile »
o peggio, semplicemente con « ricchezza mobile »; che
— 164 —
è traduzione giornalistica di chi non ha visto che il con-
tenuto delle due imposte è differente : l'imposta te-
desca, corrispondente alla cosidetta imposta globale o
di famiglia, essendo sul reddito complessivo della per-
sona, e l'imposta italiana cadendo sui redditi mobiliari
soltanto, esclusi quelli fondiari e non tenendo conto del-
le condizioni particolari del contribuente. Imposta « sul
reddito » si doveva tradurre; ma ciò avrebbe contrastato
con una piccola manìa del Ruta di tradurre con parole
italiane vive, fresche, mosse, talvolta inventate da lui,
che vorrebbero dare al testo spigliatezza e brio. Ed in
complesso egli si fa leggere volentieri; e si vorrebbe
sperare che egli renda lo stile del T. Che la speranza
sia una realtà, ripeto, non so. Si stenta a credere che
l'originale dia una impressione di stravaganza come tal-
volta si ha dinnanzi al testo italiano, nel quale si leggo-
no anche, per eccezione, dei tedeschismi. Che cosa è,
ad es., una disgraziata « Cursassonia » che in italiano
non ha neppur significato? Immagino si tratti della « Sas-
sonia elettorale »; ma potrebbe anche essere qual-
cosaltro.
Quanto al contenuto del libro, non oserei essere d'ac-
cordo col Ruta nel dire che la sua pubblicazione
« venga ad ovviare al difetto in Italia di un trattato mo-
derno di Scienza dello Stato, con benefizio non scarso,
oltreché del pubblico e degli studiosi in generale, più
in particolare degli studenti delle nostre università e in
ispecie degli aspiranti alla carriera diplomatica e con-
solare, i quali vi apprenderanno cognizioni precise e
ferme, non facili, una volta comprese, ad essere dimen-
ticate ». È certo che studenti e concorrenti non pren-
deranno alla lèttera il consiglio del traduttore, poiché
165
correrebbero il rischio di essere bocciati all'esame. La
Politica di Treitschlce è un « libro », ma non è un « trat-
tato » per le scuole; non è sistematico, non dà una ela-
borazione giuridica degli istituti, non fornisce quelle
« cognizioni precise » di cui hanno bisogno giuristi e
funzonari.
In questo campo, per non uscire di Germania, i te-
deschi vantano una magnifica fioritura scientifica, di cui
citerò solo // diritto pubblico dell impero germanico del
Laband, di cui YUtet va pubblicando una buona versione
dovuta al Siotto-Pintor. Ma trattasi di opere le quali non
hanno nulla a che fare con questa del T. Chi vuole
avere idee precise sul diritto costituzionale ed ammini-
strativo cerchi altrove. Ciò che il T. dice intomo ai sin-
goli istituti politici non va al di là di quelle nozioni ge-
neralissime, le quali si trovano meglio esposte, più nu-
trite e precise nei trattati specialmente ad essi con-
sacrati.
Gli studenti, i concorrenti faranno assai bene a leg-
gere e meditare il libro del T., non per apprendervi la
scienza delle costituzioni, ma per la stessa ragione per
cui dovrebbero leggerlo gli scrittori di trattati sulla
scienza delle costituzioni, i giornalisti, gli uomini poli-
tici, gli studiosi di storia, di economia, ed in genere
tutte le persone colte : per apprendervi a giudicare gli
avvenimenti politici e storici attraverso un'idea generale.
Il che è indispensabile non a sapere quella determinata
scienza (scienza delle costituzioni o dell* amministrazio-
ne o del diritto internazionale), ma a valutare i fatti
che di quelle singole scienze sono l'oggetto, ad apprez-
zare la portata delle costruzioni giuridiche che via via
sono andate elaborandosi. I pubblicisti hanno durato
— 166 —
lunghe fatiche per elaborare la nozione dell « Impero
germanico », stato federale, con un imperatore tedesco,
primus inter pares, composto di Stati sovrani e sovrano
esso stesso, ecc. Il T. guarda un po' con compatimento
queste fatiche degli illustri suoi colleghi ed esclama,
con Guglielmo I : « Ma, se l'impero altro non è che la
Prussia allungata! ». Con la quale esclamazione egli non
distrugge le teorie dei pubblicisti; le quali rimangono ed
hanno una portata, anche pratica, grandissima, poiché
senza di esse non si conoscerebbe il funzionamento
reale della macchina statale tedesca. Il T; vuole avver-
tire soltanto che, sotto alla forma, sotto agli istituti giu-
ridici, con cui si è voluto facilitare il passaggio dalla
vecchia alla nuova Germania, come spirito animatore
e dominatore della complicatissima struttura dello Stato
tedesco vi è la Prussia e nient' altro che la Prussia. Gli
Stati minori se ne ricordino : « la Prussia colla sua spada
creò l'unità tedesca, e colla spada la manterrà, anche
contro le velleità di fronda della Baviera o del Baden o
del Wurtemberg ».
L'idea-madre della Politica dì T. è nota : « Lo Stato
è la pubblica forza coordinata a difesa ed offesa ». Idea
profondamente vera, quella stessa del « Principe » di
Machiavelli; e che non giova respingere con grida di
orrore, come è di moda adesso presso la gente svene-
vole. Il T. si incarica egli stesso di chiarire e di com-
mentare : Machiavelli disse una verità profonda quando
ai vani simulacri degli Stati di diritto, degli Stati morar
lizzanti, degli Stati che si raccomandano alla pietà, al
sentimento di giustizia e di umanità contrappose l'idea
dello Stato-forza. Ma il suo Duca del Valentino non po-
teva ridurre a Stato 1* Italia, perchè egli l'avrebbe fon-
— 167 —
data sulla forza pura; la sua costruzione statale cadde
perchè egli ammazzava i nemici solo perchè erano ne-
mici e per mettersi lui al loro posto. Finche fu il più
forte, lo Stato suo crebbe; quando la forza gli mancò,
anche lo Stato suo ruinò miseramente. « Lo Stato non
è forza fìsica come fine a sé stesso; è forza, per proteg-
gere e promuovere i supremi beni degli uomini ».
Se noi partiamo da questa idea-madre, si spiegano
tutti gli atteggiamenti di T. : la passione del suo amore
fervidissimo per la Prussia e per la dinastia degli
Hoenzollern, rude, povera, pertinace, riuscita, a tra-
verso secoli di sforzi perseveranti, a dare unità alla
Germania, prima campo di battaglia delle grandi po-
tenze europee. Si spiega l'odio inestinguibile contro
l'Austria, questa maschera ipocrita di Stato, priva di
contenuto morale e spirituale, sopravvivenza degli an-
tichi Stati a tipo orientale; la simpatia accesa verso
l'Italia, questa « nazione », risorta anch'essa perchè
seppe avere nel Piemonte la sua Prussia unificatrice e
nella Dinastia di Savoia una stirpe di capitani e di poli-
tici capaci di attuare una grande idea; l'Italia a cui per
diventare una grande potenza manca (1892) una cosa
sola : battersi. Da questa sua idea, dello Stato che è
forte perchè vuole conseguire un ideale morale, proven-
gono anche le male parole contro gli Stati Uniti, che
tolgono il respiro agli uomini fini con la loro caccia al
dollaro, e contro l'Inghilterra, che egli sovratutto con-
cepisce come adoratrice del borsellino. Ed in questo di-
sprezzo egli ha torto; ma non per mala-fede o passione
nazionale. Semplicemente per ignoranza. La lettura del
suo libro persuade che il T., fuor di una conoscenza or-
dinaria della storia costituzionale e politica dell' Inghil-
— 168 —
terra e degli Stati Uniti, ignora quei paesi. Ne parla
come un qualunque neutralista italiano, il quale conosca
l'Inghilterra e gli Stati Uniti attraverso le sterline ed i
dollari, che avrebbe voluto, almeno almeno, vedersi ca-
pitare in tasca senza fatica come prezzo dell'essere scesi
in guerra. Ma è rimasto assente dalla letteratura, dalla
filosofia, dalla scienza economica inglese; parla della
scuola di Manchester, come un protezionista volgare
— egli che pure non era tale! — ne può dirsi che egli
sia penetrato nello spirito di Adamo Smith e di Ricardo.
Nonostante le sue incomprensioni il T. è un grande
scrittore. Scrittore di aforismi, che gittano luce sui pro-
blemi della storia, della guerra, della pace, che mettono
a nudo la vanità delle frasi, delle ipocrisie, delle teorie
con cui i partiti ed i politici spiegano le loro azioni.
Dicono che il T., sordo, parlasse a scatti, in falsetto,
con effetti di voce e di intonazione curiosi ed impen-
sati, con invettive e sarcasmi feroci contro i sassoni,
i bavaresi, i russi, gli austriaci che affollavano la sua
aula. Così è anche lo stile della Politica, raccolta viva
di lezioni compilata dai suoi studenti. È una corsa attra-
verso ai problemi fondamentali, che sono discussi nei
trattati di Scienza di Stato e del Diritto pubblico, com-
piuta da chi vuol vedere la verità vera, nuda, semplice
sotto alla vernice di frasi ed ali* appello alle teorie.
T. smaschera falsità ed ipocrisie su questo o quel pro-
blema e passa oltre. Mette alla luce il tronco vivo della
verità storica e va innanzi, senza indugi arvisi. Contro a
quelli che non vogliono più fare la storia politica e di-
sprezzano i re, i capitani e le battaglie e vogliono solo
parlare del popolo e delle istituzioni e condizioni sociali
grida irritato : « Gli uomini fanno la storia, uomini come
— 169 —
Lutero, Federico e Bismarck ». Contro gli assertori della
sanità dei trattati butta in faccia : « Forsechè fu ingiusto
che la Prussia rompesse il trattato di 1 ilsitt ed il Pie-
monte la pace imposta a Novara? ». Ed ancora, contro
il feticcio dei trattati perpetui : « Il superbo « noi riprin-
cipieremo » dei piemontesi battuti manterrà sempre il
suo posto nella storia dei popoli nobili ». Contro coloro,
i quali per impedire l'abbassamento del giornale voglio-
no sottoporre i giornalisti ad esame, rinfaccia : « Non
è l'intelligenza che fa difetto ai catilina della penna, ma
il carattere ». A Buckle, il quale spiegava la civiltà con
le condizioni geografiche, contrappone Pericle a cui Tu-
cidide aveva fatto dire : « Non il paese fa l'uomo, ma
l'uomo fa il paese ». A coloro, i quali credono di potere
con la forza pura soggiogare i popoli, ricorda l'esercito
di Cromwell, il quale si sciolse da sé, quando la na-
zione volle il ritorno di Carlo II ed aggiunge : « La forza
fisica dell'esercito riesce a molto meno di quanto opi-
nano i dottrinari contro la volontà dichiarata di una
nazione ». A proposito della pena di morte : « Una isti-
tuzione giudicata barbara dal sentimento universale, ad
es., la tortura, non ritoma. Invece la pena di morte
ritorna, perchè giudicata barbara solo dalla pipa pa-
cifica dei filantropi ».
Non dunque « un trattato moderno di Scienza dello
Stato », come lo definisce il traduttore, è l'opera di T.;
ma un libro, a cui i trattatisti hanno attinto ed ancora
attingeranno le idee con cui si scrivono i trattati sistema-
tici. Perciò bisogna leggerlo e meditarlo con altra ani-
ma di quella con cui gli studenti si preparano all'esame
ed alle carriere: con reverenza per le idee informatrici.
per lo spirito vivificatore, senza badar troppo ai parti-
— 170 —
colari, senza insistere sulle passioni, sulle assenze, sulle
ignoranze dell'autore. Egli ha voluto dare una chiave
per interpretare i fatti della storia : la forza messa al
servizio di un ideale ed ha predicato quindi un van-
gelo : conservarsi o diventare forti per attuare un ideale
morale. Quale sia questo ideale morale poco si vede.
È questa la lacuna vera dell'opera del T. Egli non è
un adoratore della pura forza. Sente che la vera forza
è quella messa al servizio di un'idea. Ma quale sia
questa idea, non è chiaro. Perciò il suo non si può an-
cora dire un trattato di politica. A tanta opera gli man-
cava, forse, lo spirito filosofico. Distrugge, abbatte le
false politiche basate su ideologie vacue. Epperciò è
una pietra miliare. Ma non vi è la creazione nuova.
Che cosa egli direbbe se fosse vivo oggi, non so.
Quasi certamente, dato il senso profondo di disciplina
che lo anima, parteggerebbe coi tedeschi. Ma non po-
trebbe neppure misconoscere che francesi, italiani, in-
glesi ed americani sono degni avversari della Germa-
nia, perchè essi sono sorti in armi e lottano fieramente
per difendere quelli che loro sembrano ideali nobili ed
alti. Le sole parole acerbe sue andrebbero contro la
Russia e, forse, anche contro l'Austria. Almeno, que-
sto, parmi, sarebbe il giudizio di un Treitschke coerente
sulla guerra attuale.
(Da La Riforma Sociale del settembre-ottobre 1918
e da L'Italia che scrive, settembre 1918).
le càuse dello scisma
e le tendenze verso una intesa
dei popoli di lingua inglese
Il Beer è lo scrittore delle tre opere : Origins oj the
British Colonici System (1578-1660), The Old Colonia!
System (1660-1754, di cui però è venuta fuori sinora
soltanto la prima parte, dal 1660 al 1688, in due vo-
lumi) e The British Colonial Policy (1754-1765), tutte
pubblicate dagli editori Macmillan di New York; ed
in esse egli ha gittato nuova luce sulle origini e sulla
vita del vecchio sistema coloniale inglese nelle isole
occidentali ed in quelle che poi diventarono le tredici
colonie originarie nord-americane. Ricerche pazienti di
archivio e studio della letteratura contemporanea gli
permisero di giungere a conclusioni in parte nuove e
sempre documentate intorno ai rapporti fra madre-pa-
tria e colonie. Principalissima tra le conclusioni a cui
il Beer giunse in quei suoi quattro volumi, modello di
seria indagine economica, in cui l'erudizione più scru-
polosa si sposa ad una penetrante visione storica, sem-
bra a me quella secondo cui la secessione delle tre-
dici colonie della madre-patria non fu dovuta, come
dice la tradizione volgare, ad una deliberata oppres-
sione fiscale esercitata dall'Inghilterra sulle colonie. Il
celebre principio no taxation without representation ha
— 172 —
un significato più complesso di quanto comunemente
si crede. La madre-patria non intendeva imporre tributi
a suo arbitrio ed a suo beneficio sulle colonie. Essa in-
tendeva risolvere un problema impellente : come far
contribuire le colonie alle spese che la madre-patria so-
steneva per la loro difesa contro gli Indiani e contro i
francesi del Canada e della Luisiana? La madre-patria
era disposta a sostenere l'onere maggiore di quelle spe-
se, considerandole utili all'impero in generale; ma de-
siderava che la parte minore fosse sostenuta dalle co-
lonie, a cui vantaggio diretto esse ricadevano. Ne le co-
lonie, specie quando erano premute dai pellirosse o
quando i francesi minacciavano alla frontiera, discono-
scevano la giustizia del richiesto pagamento. Ma erano
tredici, indipendenti le une dalle altre, prive di un si-
stema comune di imposte, prive anzi di "un comune si-
stema di rappresentanza di governo, con interessi par-
ziali divergenti, sicché non riuscivano a mettersi d'ac-
cordo. Alcuni tra i più eminenti coloni, come Beniami-
no Franklin, lamentavano il fatto ed avrebbero voluto
che la madre-patria si facesse iniziatrice di una orga-
nizzazione statale superiore, capace di risolvere il com-
plesso problema. Putroppo però nel secolo XVIII non
si erano ancora compiuti gli esperimenti di governo fe-
derale che nel Canada, nell'Australia e nell'Africa del
Sud diedero alle colonie lo strumento di un'azione comu-
ne. Quello che era un onesto tentativo di ripartire equa-
mente le imposte e di creare un governo coloniale fe-
derale parve ai coloni tirannia ed oppressione fiscale.
La madre-patria, che guardava agli interessi generali
ed ai rapporti internazionali, non riuscì ad intendersi
con i coloni, la cui visione del mondo era ristretta al
— 173 —
territorio locale ed il cui interesse a contribuire alle spe-
se comuni era diminuito il giorno in cui la Francia ce-
dette il Canada all'Inghilterra e venne a mancare la più
forte minaccia alla sicurezza dei coloni. La rivoluzione
americana fu il trionfo del municipalismo e della ri-
strettezza di vedute del colono avaro contro la coscien-
za degli interessi generali che, sebbene imperfettamen-
te, era sentita dagli statisti inglesi. E ben lo seppe Wa-
shington, il quale dovette lottare a lungo contro la ri-
pugnanza delle singole colonie ad unirsi, a mantenere
un esercito comune, e fare le spese del governo federa-
le: e solo vi riuscì, quando, abbandonando il primo ten-
tativo di federazione di Stati, si accolse nel 1787 il con-
cetto di un unico Stato federale, capace dì emanare leg-
gi proprie e di ripartire imposte e di mantenere un eser-
cito ed una flotta. La costituzione del 1787, tuttora vi-
gente, fu la rivendicazione dell'Inghilterra, poiché que-
sto e non altro voleva la madre-patria quando tentò di
stabilire, forse con scarsa abilità, ma con indubbio di-
sinteresse, un sistema generale d'imposte nelle colonie.
La separazione delle colonie dalla madre-patria fu
inevitabile, data la incapacità in cui le due parti della
medesima nazione erano di comprendersi. Forse fu an-
che benefica, perchè consenti alle due parti di svilup-
pare caratteristiche proprie e feconde. Ma è possibile
che essa abbia oramai dato tutti i frutti di cui era ca-
pace; e che oramai il processo storico abbia a ritornare
su se stesso, dando luogo ad una nuova unione, in for-
ma diversa ed adatta ai tempi, tra i due grandi rami
della famiglia anglo-sassone.
Dieci anni fa, nella conclusione di The British Co-
lonial Policy, il Beer scriveva : « Si può immaginare fa-
— 174 —
cilmente e non è affatto improbabile, che la evoluzione
politica dei prossimi secoli possa avere un andamento
siffatto che la rivoluzione americana perda la grande
significazione che oggi essa ha ed appaia semplicemen-
te una separazione temporanea di due popoli congiunti,
la cui intima somiglianza fu oscurata da differenze su-
perficiali nascenti da condizioni economiche e sociali
diverse ».
La guerra mondiale ha presentato all'attenzione di
tutti quello che era un problema visto dà pochi pensa-
tori e storici. Parlare oggi di unione fra Stati Uniti ed
Impero inglese è prematuro; ma non è prematuro par-
lare di intesa ed alleanza fra le due sezioni dei popoli
parlanti lingua inglese, che col tempo potrà dar luogo
a forme nuove e superiori di organizzazione statale. Il
tentativo gigantesco di predominio della Germania sul-
l'Europa prima e poi sul mondo è una minaccia diretta
al tipo di civiltà britannico e nord- americano ed ha
costretto gli Stati Uniti ad uscire dal loro isolamento su-
perbo, persuadendoli che 1* americanismo era un ideale
antiquato e che la vecchia dottrina di Monroe non sod-
disfaceva più alle esigenze nuove della politica mon-
diale, a cui gli Stati Uniti non possono non partecipare.
Sarebbe impossibile esporre compiutamente il pen-
siero del Beer, misurato, alieno da voli lirici, immune
dalle passioni belliche, le quali scemano il valore per-
manente di tanta parte della letteratura provocata dalla
guerra. Anche questo è un libro d'occasione; ma scritto
da uno storico insigne, il quale guarda alle grandi cor-
renti ed ai fatti essenziali che la guerra mise in più
chiaro rilievo. Ricorderò solo qualcuno dei punti essen-
ziali che la lettura dell* opera del Beer fa risaltare :
75
1) Un'intesa fra i due grandi rami della famiglia
parlante lingua inglese è divenuta più facile ora che gli
Stati Uniti non sono più un paese debitore verso la
Gran Bretagna e non sono quindi più mossi da quei
sensi di invidia, di animosità e di ribellione che spin-
gono i debitori contro i creditori. Già da due decenni
gli Stati Uniti avevano sostanzialmente cessato di es-
sere un paese debitore. La guerra ha accelerato il pro-
cesso di liberazione ed ha creato nuovi vincoli inversi,
non pericolosi, ed atti a stringere i legami economici
fra le due parti;
2) L'intesa non si deve compiere più fra gli Stati
Uniti e l'Inghilterra ma fra gli Stati Uniti e la Britlsh
Commonwealth, of Nations, quella comunità britannica
di nazioni indipendenti che è la maggiore creazione po-
litica del secolo XIX. Non è l'intesa fra l'antica madre-
patria e le antiche colonie, ma fra due grandi confede-
razioni mondiali, appartenenti alla medesima famiglia
storica. L'intesa deve in sostanza « fondarsi sul fatto
immutabile che questi popoli sono strettamente affini ed
hanno essenzialmente i medesimi ideali ed istituzioni
politiche », parlano la medesima lingua, hanno la stessa
letteratura, pensano alla stessa maniera, obbediscono
alla uguale norma dell'ossequio alla volontà della mag-
gioranza concretata nella legge;
3) In nessuna parte del mondo i loro interessi sono
in conflitto; e nei punti essenziali essi collimano : porta
aperta nella Cina, serbata indipendente, difesa degli
Stati dell'America meridionale contro le oppressioni al-
trui, difesa della Francia, dell'Italia, del Belgio, dell'O-
landa, della Scandinavia e della Grecia contro la mi-
naccia di predominio politico delle potenze centrali.
— 176 —
Il mezzo per raggiungere lo scopo è unico : la conser-
vazione del dominio dei mari in caso di guerra. Sepa-
rati, i due rami della famiglia inglese soccomberebbero
sotto al peso schiacciante; uniti, essi sono certi di rag-
giungere la sicurezza quasi assoluta del proprio svilup-
po avvenire, grazie ad una marina da guerra e ad una
marina mercantile invincibili. Il che metterà l'intesa dei
popoli di lingua inglese al riparo dalla necessità di man-
tenere enormi eserciti stanziali, con il conseguente pe-
ricolo di creare uno stato di spirito militarista ed ag-
gressivo. Basterà la nazione armata, con larghissimi qua-
dri, da riempire in occasione di guerre;
4) L'antica teoria dello Stato, sovrano assoluto ed
indipendente entro i limiti del proprio territorio, si di-
mostra sempre più in contrasto con le necessità attuali
e feconda di pericolosi conflitti. Essa porta allo Stato
isolato, e poiché questo è una assurdità economica,
conduce al bisogno di « sicurezze » e di « garanzie »
esterne. L'idea dello Stato che non riconosce vincoli su
di se, che esige obbedienza incondizionata ed esclu-
siva dai proprii sudditi contrasta col fatto che i sudditi
in misura crescente hanno relazioni economiche, intel-
lettuali, morali fuori del territorio statale. Per garantire
quelle relazioni, lo Stato vuole diventare bastevole a se
stesso; vuole mettere le mani sulle foci dei fiumi, sulle
miniere, sulle foreste, sui mari, sulle colonie. È il ce-
lebre ritornello tedesco dell' a aria che manca », del
« posto al sole », delle « garanzie reali », le quali con-
ducono fatalmente al dominio del mondo da parte di
una razza privilegiata e predestinata. Non vi è via di
mezzo : o si conserva l'idea dello Stato formatasi nei
secoli dal XVI al XIX, Stato sovrano, chiuso, perfetto,
— 177 —
e si giunge fatalmente allo Stato egemonico mondiale.
Ovvero si riconosce che quell'idea è antiquata; che vi
è una necessaria interdipendenza fra Stati; che nessuno
di essi può aspirare alla sovranità assoluta ed illimi-
tata, ma anzi i legami interstatali sono la necessaria con-
dizione per un più ricco e largo sviluppo dell'attività dei
singoli Stati e noi giungiamo all'idea della società delle
nazioni.
Ma questa per oggi rimane un ideale lontano, a cui
si deve giungere per gradi. Un passo gigantesco sulla
via della società di nazioni uguali fu compiuto con la
creazione della British Commonwealth of Nations, che
male si esprime con la espressione comune di « impero
inglese », quando non di un impero si tratta, ma di una
società di Stati liberi, indipendenti ed uguali. Un passo
ulteriore sarà compiuto con la conclusione dell'intesa od
alleanza anglo-americana. E se d'altro canto sorgerà
una lega latina — Francia ed Italia, a cui potranno ag-
giungersi poi la Spagna, il Portogallo e forse gli Stati
dell'America meridionale — la creazione di una unione
germanica centrale non potrà più riuscire pericolosa.
Anzi le varie unioni saranno il più saldo fondamento
pensabile alla futura società delle nazioni. « Quando si
studia il corso della evoluzione storica, diventa chiaro
che l'instaurazione della legge e della giustizia nei rap-
porti fra uomo e uomo e fra gruppo e gruppo è dive-
nuta possibile solo grazie alla formazione di aggregati
politici sempre più ampi. Quando questo processo è
volontario, esso è indice di progresso. Il mondo comin-
cia appena ora a comprendere che lo Stato non è uni-
cellulare e che possono entro di esso coesistere parec-
chie e concorrenti sudditanze. L'ideale dello Stato na-
— 178 —
zionale è sempre vigoroso, ma la comunità britannica
delle nazioni (British Commonwealth of Nations) dimo-
stra concretamente che può esistere un più alto tipo di
associazione politica in cui la legge e la giustizia for-
mano una congerie disseminata di popoli, ad ognuno dei
quali è assicurato il libero ed intiero sviluppo dei loro
proprii ideali. Le prospettive di un eventuale regno del-
la legge e del governo della ragione nel mondo sareb-
bero in verità ben negre se l'avvenire non recasse in
grembo organizzazioni politiche ancora più vaste, le
quali permettano la più ampia libertà alle nazioni ed
agli Stati, unendoli nel tempo stesso per il raggiungi-
mento dei comuni scopi dell'umanità. In una intesa dei
popoli parlanti lingua inglese si possono vagamente in-
tuire i lineamenti di una nuova, non mai vista forma di
associazione politica, la quale, preservando ad ogni
parte la sua intiera libertà, tutte le unisca permanente-
mente non solo per la difesa della comune civiltà e dei
comuni ideali, ma anche in difesa della libertà di tutti
i popoli minacciati dalle spade di coloro i quali si pro-
stemano dinanzi al tabernacolo della forza organiz-
zata ».
(Da a La Riforma Sociale », fase. 7-8, luglio-ago-
sto 1918).
IL RITORNO DELLA "FIOR DI MAGGIO,,
Nous voici Lafayette! corre già la leggenda abbiano
detto gli americani salutando i camerati francesi allo
sbarco sulla bella terra di Francia. The return o/ the
Mayflower, hanno intitolato gli inglesi l'arrivo delle
navi da guerra americane sulle sponde dell'antica ma-
drepatria, da cui era salpata la nave sulla quale i puri-
tani, ruggendo alle persecuzioni religiose degli Stuardi,
cercavano asilo sulla libera terra americana. Ambi i
motti hanno un nobile significato storico : vuol dire il
primo che gli americani vengono, dopo 142 anni, a re-
stituire ai francesi l'aiuto porto un tempo, duce La-
fayette, per la conquista della indipendenza e della li-
bertà. Dice il secondo che, dimenticata l'antica discor-
dia, dopo un secolo di pace ininterrotta, i discendenti
dei coloni americani hanno sentito profonda l'unità di
cultura, di ideali, di lingua che li univa all'Inghilterra
e sono accorsi a difendere in Europa quegli ideali,
quella cultura e quella lingua contro il pericolo minac-
ciante. Fra i due, il primo è più chiaro e semplice e
commovente : ed il tema della riconoscenza dei popoli
avrà in avvenire un'esemplificazione stupenda nel sim-
bolico ritorno di Lafayette in Francia. I francesi del
secolo XVIII, i quali cavallerescamente accorrono in di-
fesa dei coloni insorti; e gli americani del secolo XX,
i quali, trascurando guadagni e comodi, restituiscono
— 180 —
oggi l'aiuto ricevuto. Due repubbliche sorelle, due po-
poli i quali a distanza di secoli si soccorrono fraterna-
mente nella lotta contro lo spinto di tirannia e di con-
quista.
Meno commovente ma forse più profonda è la si-
gnificazione del motto che si intitola al ritorno della
nave puritana « Fior di maggio ». Ricordiamo. Alla vi-
gilia della guerra dell'indipendenza americana, l'impero
inglese era già divenuto il più potente dominio colo-
niale del mondo. Distrutta la potenza marittima spa-
gnuola, espulsi o quasi i francesi dalle Indie e dal Ca-
nada, ridotti il Portogallo e l'Olanda ad una posizione
di second'ordine, ben si poteva dire che il sole non
tramontava mai sui dominii della Gran Bretagna. La
storia corrente vuole che essa sia stata, per libidine di
tirannia, sul punto di perdere i vantaggi acquistati. Le
ingiuste esazioni degli inglesi nell'America del Nord
avrebbero fatto divampare la rivolta tra i coloni i quali,
aiutati dai francesi, conquistarono l'indipendenza, to-
gliendo così alla madrepatria la più promettente e po-
polosa delle sue colonie. Alla pace di Parigi, il domi-
nio mondiale dell'Inghilterra pareva davvero scosso :
l'India non ancora abbastanza apprezzata e quasi con-
siderata solo adatta a fondaci di mercanti, inesistente
l'Australia, olandese l'Africa del Sud, un deserto di
ghiaccio il Canada. Fu l'ostinazione ventennale contro
Napoleone che ridiede all'impero inglese l'antico splen-
dore. Ma nella sua storia la rivolta delle tredici colonie
è un punto d'arresto; il quale divenne il principio del
risorgimento solo grazie al senno politico della vecchia
Inghilterra, Ammaestrata invero dal rischio corso nel
volare imporre la sua volontà alle colonie recalcitranti,
— 181 —
essa concesse alle colonie rimastele ed a quelle nuove,
una dopo l'altra, governo autonomo, anzi indipendente :
sicché oggi l'impero britannico è una sciolta federazio-
ne di Stati gli uni indipendenti dagli altri, liberi di par-
tecipare o non alle guerre della madrepatria, immuni
da tributi, uniti solo dal tenuissimo vincolo dell'omag-
gio di sudditanza reso a Giorgio V, simbolo della unità
imperiale. Lo spettro della rivolta delle tredici colonie
turbò i sonni degli statisti inglesi per tutto il secolo
XIX, sicché gli uni già si adattavano al pensiero che le
colonie quali frutti maturi si dovessero ad un certo mo-
mento fatalmente distaccare dall'albero della madrepa-
tria; e gli altri le volevano conservare solo come sorelle
minori e indipendenti di un vago complesso di Stati
sovrani e tra di loro appena nominalmente federati.
Se questa concezione storica fosse la sola vera o
quella compiutamente vera, che cosa significherebbe il
ritorno^ nei mari britannici della mitica nave puritana?
Nulla più che il rinsaldarsi dei vincoli ideali di sangue
e di fratellanza sempre esistiti fra Inghilterra e Stati
Uniti, sebbene talvolta dimenticati nel calore dei litigi
fraterni. Molto, sì, ma nulla di ben profondo e inno-
vatore.
Ma quella concezione storica, se non è erronea, è
però incompiuta. La rivolta delle tredici colonie, che
parve rompere per sempre i vincoli fra le due parti del
mondo anglo-sassone, fu un fatto storico probabilmente
e certamente fecondo. Grazie ad esso gli Stati Uniti
svilupparono uno speciale tipo di civiltà, diverso da
quello primitivo anglo-sassone, diedero luogo ad uno
— 182 —
sperimento di governo federale, che ebbe un grande
successo; mentre l'Inghilterra, ammaestrata, a poco a
poco riuscì a creare un tipo di impero, che non ha ri-
scontro nella storia e che è la prima attuazione effet-
tiva di quell'ideale della consociazione delle nazioni che
è stato il sogno e il tormento di tanti pensatori. Tutto
ciò è stato il frutto della rivolta.
( Oggi però quel frutto è stato colto; e fa d'uopo pro-
cedere innanzi, se non si vuole che l'albero isterilisca.
Lo storico della politica coloniale britannica fin da dieci
anni fa scriveva : « È immaginabile e per nulla impro-
babile che la evoluzione politica dei prossimi secoli
possa assumere un andamento siffatto che la rivolu-
zione americana perda del grande significato che oggi
le è attribuito ed appaia meramente essere la separa-
zione temporanea di due popoli affini, • la cui intima
simiglianza fu oscurata da superficiali differenze risul-
tanti dalla diversità delle condizioni economiche e so-
ciali » (brano nuovamente riprodotto dal medesimo au-
tore G. L. BEER in The English Speaking Peoples. New
\ork, Macmillan, 1917). Le indagini storiche compiute da
Beer e da altri hanno invero dimostrato che non di op-
pressione inglese si deve parlare, non di volontà di esi-
gere imposte a favore della madre-patria e contro la
volontà delle colonie, ma di una incapacità reciproca
di comprendersi tra due rami dello stesso popolo giunti
ad un momento diverso del proprio sviluppo. Potenza
mondiale la madrepatria fin dal secolo XVIII, era ben
persuasa che ad essa incombesse l'obbligo e l'onore di
difendere l'Impero; ma non sapeva persuadersi che,
nell'America settentrionale, ad essa toccasse esclusiva-
mente l'onere di difendere i beni e le persone dei co-
183
Ioni contro le aggressioni degli indiani pellirosse e con-
tro i francesi del Canada e della Luisiana. E ad ogni per-
sona imparziale tra i coloni medesimi — e valga per
tutti il nome di Beniamino Franklin — la pretesa dei
coloni di essere difesi a spese altrui appariva priva di
qualsiasi fondamento. Ma le colonie erano tredici, divise
ed indipendenti le une dalle altre, reciprocamente ge-
lose e sospettose, sicché fu impresa impossibile metterle
d'accordo per costituire, a spese comuni, un esercito
ed una amministrazione comune. Neppure coll'offerta
di assumere a suo carico la parte maggiore delle spese
coloniali di difesa e di carattere generale potè l'Inghil-
terra indurre le colonie alla concordia ed all'unione.
Era il dissidio insanabile fra la concezione politica mon-
diale ed unitaria della madrepatria, e quella municipale
e ristretta delle colonie. La concordia venne meno e la
federazione nord- americana fu creata per virtù della
guerra civile; che tale fu la guerra fra l'Inghilterra e
le colonie rivoltose. Sotto la pressione della guerra, in-
fiammate dall'ardore dell'ideale dell'indipendenza, le
tredici colonie si unirono e crearono la federazione.
Fu il frutto della rivolta; e per esso, come per l'esem-
pio dato alla formazione delle federazioni canadese,
australiana, africana, e poi della comunità britannica di
nazioni quella rivolta è storicamente giustificata.
Oggi, il grande equivoco storico, da cui nacque
la rivoluzione americana, non ha più ragione d'essere.
I due rami del popolo anglosassone hanno raggiunto
un medesimo grado di sviluppo politico. Due potenze
— 184 —
mondiali, come la Comunità delle nazioni britanniche
e gli Stati Uniti, non possono rimanere dissociate.
Il ritorno della « Fior di maggio » ha questo significato :
che americani del nord ed inglesi — gli inglesi della
federazione di nazioni componenti il cosidetto im-
pero » e non gli inglesi della piccola madrepatria d'un
tempo — riconoscono di dovere agire concordi per il
conseguimento di comuni ideali politici.
Spiritualmente, essi formano un solo popolo, par-
lante la medesima lingua ed orgoglioso per la mede-
sima letteratura.
Economicamente, essi hanno interesse alla costitu-
zione di un unico grande mercato, dove i rispettivi
prodotti si scambino liberamente.
Politicamente, essi sono persuasi della necessità di op-
porre una fronte comune per la difesa dei propri ideali
spirituali e dei propri interessi economici contro il comu-
ne nemico, il quale oggi è la Germania e domani potrà
essere qualche altro aggregato politico forse extra-
europeo. Inglesi ed americani sulle rive della Marna
difendono il suolo francese e, difendendo questo, sanno
di combattere in difesa della propria esistenza politica
indipendente. Fu il pericolo della diminuzione oggi e
della distruzione domani, il quale ridestò i vincoli del
sangue, e quel pericolo li cementerà vieppiù col tempo.
Le tredici colonie sa erano separate dall'Inghilterra
perchè il Canada francese, diventato dopo il 1754 do-
minio inglese, più non le minacciava a tergo. Oggi il
sorgere dello spettro della egemonia mondiale germa-
nica ha persuaso i cugini anglo-sassoni a stringersi nuo-
vamente insieme. Uniti, essi sono probabilmente in-
vincibili per secoli. Nessuna nazione al mondo, anche
85
se diventasse la potenza egemonica europea, anche
se il sogno medio-europeo si realizzasse, potrà strap-
pare al popolo anglo-sassone unito il dominio del mare :
poiché nessun popolo potrà avere altrettanti marinai
ed altrettanti navi mercantili, che sono il vero nerbo
della forza militare marittima.
Uniti, essi possono difendere il principio della
porta aperta in Cina e quello di Monroe in America,
i quali dipendono, per la loro esistenza, dalla conserva-
zione del dominio dei mari da parte di una potenza
decisa a non sopraffare altrui.
Se le due grandi federazioni di popoli liberi proce-
dono concordi ed unite, l'India potrà a grado a grado
evolvere verso la comunità britannica, a parità con le
altre nazioni e senza alcuna rinuncia alle proprie carat-
teristiche nazionali.
La permanenza di una lega delle due federazioni
anglo-sassoni è, finalmente, la condizione essenziale
per la libertà dell'Italia, della Francia, del Belgio, del-
l'Olanda, dei Paesi scandinavi, della Grecia e della
Spagna. La lega anglo-sassone non ha alcun interesse
ad asservire le nazioni europee, ed ha invece inte-
resse grandissimo ad impedire che un potere egemo-
nico possa organizzare 1* Europa e parte dell'Asia per
minacciare la sua esistenza medesima. Data la scom-
parsa per un tempo indefinito dalla grande scena po-
litica del mondo slavo, l'unica speranza di impedire
l'egemonia germanica in Europa e nel mondo sta nella
riunione delle due frazioni del popolo anglo-sassone.
Noi non sappiamo qual forma quella riunione assu-
merà; probabilmente non di vera riunione politica, ma
— 186 -
di lega indirizzata a certi scopi di polizia internazio-
nale e di difesa della vera libertà dei mari.
Se questo, che è un programma imposto dalla ne-
cessità di difesa e di vita, è destinato ad avverarsi,
un'altra necessità si impone : la federazione, o la lega,
o la riunione franco-italiana. Nel mondo dei colossi di
domani, non vi è posto per le nazioni mediocri. Fran-
cia e Italia, se non vogliono diventare dei Belgio e
delle Grecie di dimensioni territoriali un po' più vaste,
viventi per le gelosie dei potenti vicini, devono riu-
nirsi. Divise, esse sono destinate a diventare nazioni in-
significanti, oggetti di curiosità storica; riunite, esse co-
stituiscono il nucleo di un rinnovato Impero Romano
d'Occidente, verso cui dovrà gravitare la Spagna e con
la Spagna forse le nazioni italo-spagnuole dell'America
meridionale, in cui già sorgono voci per il rinsalda-
rnento dei vincoli con l'antica madrepatria. La guerra
odierna pone problemi solenni. Guai a quei paesi i
quali non ne hanno sentore e lasciano passare l'ora,
la quale può decidere del loro destino per secoli!
(Dalla Minerva, 16 agosto 1918).
IL PROBLEMA FINANZIARIO
DELLA SOCIETÀ' DELLE NAZIONI
Forse uno dei problemi più difficili da somontare
per la costituzione della lega delle nazioni è quello di
creare la sua finanza. Nessun corpo politico può esi-
stere senza il fondamento di un bilancio di entrate
e di spese. Una lega delle nazioni, la quale non avesse
redditi, non potrebbe spendere, e quindi non potrebbe
efficacemente esercitare quella qualunque autorità che
gli Stati collegati volessero delegarle.
Se la polizia dei mari sarà un compito della lega,
essa dovrà costruire navi proprie da guerra, ripararle,
mantenere gli equipaggi e lo stato maggiore. Non gio-
verebbe che un consiglio internazionale di ammiragli
sovraintendesse ad unai flotta mista di navi apparte-
nenti alle nazioni collegate. Gelosie, confusione, inef-
ficacia, sarebbero le conseguenze inevitabili della man-
canza di unità di comando e di esecuzione. Avrà la
lega l'ufficio di decretare il boicottaggio commerciale
di uno Stato recalcitrante alle regole comuni? Siccome
il boicottaggio danneggia, insieme al paese messo al-
l'indice, anche i paesi, i quali prima esportavano verso
di esso, e li danneggia in misura diversa, così dovrà
escogitarsi qualche mezzo per ripartire uniformemente
sui confederati il danno prodotto dall'azione voluta
— 188 —
nell'interesse di tutti; così da evitare i malcontenti e gli
screzi di una incidenza disuguale sui singoli. E così via.
Qualunque funzione, di gestione dei porti interna-
zionali, dei fiumi, dei canali, degli stretti; di ammini-
strazione delle colonie; di tutela della proprietà indu-
striale ed artistica; delle poste, dei telegrafi e dei te-
lefoni, implica una spesa e quindi un'entrata corri-
spondente.
Talvolta, l'entrata è fornita dal servizio stesso, come
nel caso delle poste, dei canali, dei fiumi ecc.; ma
tal' altra no, come per compiti politici di polizia inter-
nazionale.
Due sistemi principali possono < essere messi innanzi
per provvedere alla formazione di una finanza della
costituenda lega delle nazioni : quello che italiana-
mente si direbbe dei ratizzi e quello' delle imposte
proprie.
Dicesi sistema dei ratizzi quello, per cui le nazioni
collegate si obbligherebbero a versare in un fondo co-
mune un contributo annuo determinato in ragione della
popolazione, superficie, ricchezza o reddito nazionale
rispettivo. Il metodo delle imposte proprie si ha quando
la lega delle nazioni direttamente si rivolge ai citta-
dini degli Stati collegati, e loro richiede tributi, che i
cittadini versano nella cassa della lega, senza passare
attraverso alle casse del proprio Stato. Col primo si»
stema i contribuenti sono i singoli Stati; col secondo
invece i contribuenti sono i cittadini degli Stati col-
legati. Il primo metodo è meglio ossequente all'idea
della sovranità statale: il secondo suppone che i citta-
— 189 —
dinx si considerino nel tempo stesso sudditi del proprio
Stato, ad esempio, l'Italia, e dello Stato mondiale, detto
della lega delle nazioni.
Pare più agevole accogliere il metodo dei ratizzi,
come quello che meno perturba l'assetto vigente, meno
urta il senso di indipendenza delle singole nazioni, e
non richiede la formazione di un sistema tributario
superstatale, con proprie imposte, propri esattori, con-
trollori e proprie tassazioni per i contribuenti. Costoro
non si inquieterebbero troppo, qualora potessero su-
perficialmente riflettere che chi paga le spese della
nuova società delle nazioni è lo Stato; mentre potreb-
bero rimanere sorpresi nel vedere che il primo e più
tangibile risultato della costituzione della lega è stata
l'iscrizione nella bolletta delle imposte dell'esattore di
una quarta finca, accanto a quelle del comune, della
provincia e dello Stato, recante l'imposta dovuta alla
lega delle nazioni.
Il metodo dei ratizzi, più semplice, più agevole ad
introdursi, meno urtante contro i sentimenti comune-
mente nutriti dagli uomini di oggi, offre tuttavia il
fianco ad obbiezioni gravi. Le hanno sentite tutti gli
uomini di Stato i quali hanno dovuto lavorare e go-
vernare alla sua mercè.
Si potrebbero moltiplicare gli esempi storici. Io mi
limiterò a qualche citazione, indubbiamente cara al
presidente Wilson. Scriveva Alessandro Hamilton
(Works, voi. I, p. 262) che in una società politica il
potere senza entrate è un puro nome. Ed Alessandro
Hamilton è una grandissima autorità in argomento,
poiché fu egli massimamente che, insieme con Jay e
Madison, col suo giornale The federatisi, promosse la
— 190 —
trasformazione della Confederazione delle 13 colonie
nord-americane del 1781, retta col metodo dei ratizzi,
nello Stato federale del 1787, governato col metodo
della finanza propria. Eransi bensì nel 1781 gli Stati
obbligati ad obbedire alle leggi del congresso dei de-
legati, e ad osservare in perpetuo le norme fondamen-
tali della costituzione federale. Di fatto gli Stati non
ubbidivano, la costituzione non era osservata : sicché
in pochi anni l'unione, la quale intendeva essere « per-
petua », sembrava « destinata a cadere sul capo di co-
« loro, che l'avevano formata, ed a schiacciarli sotto le
« sue rovine » (The federalist, N. XV). Washington,
il grande fondatore dell'Unione, era ridotto alla dispe-
razione dagli ostacoli frapposti dagli Stati a pagare
puntualmente i loro ratizzi, e dalle condizioni impossi-
bili, a cui subordinavano il pagamento. « Malgrado la
« grandezza del compito — scrisse il suo biografo
« Marshall — la urgenza dei bisogni e la influenza be-
« nerica che un reddito sicuro in mano del governo
a avrebbe avuto sulla guerra, mai accadde, finche durò
(( la confederazione (del 1781), che gli Stati si mettes-
« sero d'accordo per attribuire al congresso i poteri
« richiesti; tanto mal disposti sono gli uomini prowe-
<( duti di potere ad investirne altri, e tanto difficile è di
« fare qualunque cosa, anche importantissima, la quale
« dipenda dal consenso concorde di parecchie distinte
« sovranità ». Il biografo riassume in tratti lapidari le
lagnanze di cui riboccano le lettere di Washington :
<( Su qual parte del nostro continente troveremmo un
(( uomo od un corpo di uomini, il quale non arrossisca
« nel proporre provvedimenti calcolati appositamente
« per derubare i soldati del loro soldo ed i pubblici
— 191 —
« creditori delle somme loro dovute?... Nessuna visione
« più melanconica e pungente di quella degli uomini,
(( i quali hanno versato il sangue o sono rimasti mu-
ti tilati ai servizio del paese, rimasti senza asilo, senza
(( amici, privi dei mezzi di ottenere le cose necessarie
« o confortanti della vita, costretti ad elemosinare di
« porta in porta il pane quotidiano... ». Eppure agli
estremi, così commoventemente descritti in questo bra-
no di lettera di Washington, conduceva la mala vo-
lontà degli Stati sovrani nel pagare i dovuti ratizzi alla
cassa federale.
Alla mala voltnà degli Stati a privarsi della taro so-
vranità ed a fornire i mezzi di vita allo Stato federale,
9Ì aggiunga la perpetua gelosia di uno Stato contro
l'altro. È difficilissima già la prima ripartizione del
contingente totale tra i vari Stati. 1 criteri della super-
ficie territoriale e della popolazione sono troppo grezzi
e riescono ingiusti contro i popoli più poveri. Il cri-
terio della ricchezza o del reddito nazionale rispettivo
dei vari Stati, si fonda su valutazioni statistiche certa-
mente disformi e non comparabili G per lo più anche
soggette a dubbi gravi intorno alla loro esattezza. Ad
ogni variazione delle basi di calcolo dei ratizzi, ad ogni
triennio o quinquennio, ogni Stato farebbe sforzi so-
vrumani per dimostrare la propria povertà ed impossi-
bilità a pagare. Troppe volte vedemmo irrigidirsi il
provento di imposte ripartite con questo metodo nel-
l'ambito dei singoli Stati, per potere sperare una di-
versa conclusione nel caso della lega delle nazioni. Ra-
tizzi irrigiditi, fissi, velenose periodiche controversie,
malanimo fra gli Stati associati, pagamenti in ritardo o
mai fatti : ecco ciò che 1* esperienza storica ci insegna
92
essere il risultato meglio probabile dell'adozione del
primo sistema.
***
« La funzione di un ostacolo è quella di essere su-
perato », ha detto il Presidente Wilson in una di quelle
sue frasi semplici, scultorie, destinate a restare. Occorre
solo che l'ostacolo non sia rinascente, periodico, ina-
sprito dalle meno buone qualità della natura umana,
come sarebbe nel caso dei ratizzi.
Gli ostacoli del secondo metodo, quello delle im-
poste proprie, sono tutti iniziali; sono di quelli che si
devono e si possono superare con un atto di volontà
e di rinuncia. Basta che gli Stati collegati rinuncino,
una volta per sempre, ad una data entrata e la trasferi-
scano al tesoro della lega.
Supponiamo, ad esempio, che questa entrata sia il
provento di certi o di tutti i dazi doganali, di certe im-
poste sulla produzione di talune merci o su date muta-
zioni della ricchezza, come le successioni. È un sacri-
ficio rinunciare a cotal reddito; ma non è senza com-
penso. Gli Stati singoli dovranno spendere meno per
l'esercito, per la marina da guerra, per la sorveglianza
degli Stretti. Il bilancio si alleggerisce all'attivo ed al
passivo, e le partite ritornano ad equilibrarsi.
Dopo la rinuncia iniziale, il meccanismo fiscale fun-
ziona da sé, ali* infuori dei singoli Stati. La lega delle
nazioni non deve lottare con ognuno degli Stati per
ottenere l'aumento ed il pagamento del dovuto ratizzo.
Tratta con i singoli contribuenti, i quali più facilmente
sono costretti a fare il loro dovere. Non sorgono più
quistioni intorno alla quota spettante ai singoli Stati,
— 193 —
poiché essa è determinata automaticamente dai paga-
menti, che alla cassa federale ogni « cittadino del
mondo » farà in ragione dei propri consumi o delle
proprie ricchezze. Lo Stato, i cui cittadini consume-
ranno più carbone o più caffè — supponendo che queste
due merci, cito a caso, siano scelte per una tassazione
federale — pagherà di più; quello, i cui cittadini rice-
veranno eredità più cospicue, pagherà di più.
Se dapprima il sistema tributario federale sarà zop-
picante, il difetto col passare dei decenni e coli' accu-
mularsi dell'esperienza, sarà migliorato; così come si
migliorano i sistemi tributari statali.
Il mglioramento di esso sarà sempre un problema
di più equa ripartizione dei tributi tra varie categorie di
contribuenti, non mai tra Stati, e si potrà risolvere sulla
base dei criteri generali, con cui si risolvono tutti i
problemi di ripartizione dei tributi.
Fa d'uopo non esagerare neppure troppo l'impor-
tanza degli ostacoli, i quali dovranno essere superati
nel mettere in moto la macchina fiscale della lega. Ho
detto dianzi che gli Stati dovrebbero rinunciare a qual-
cuna delle loro entrate. Occorrendo, basterà che trasfe-
riscano alla lega il diritto di imporre, entro certi lìmiti
di ammontare o di percentuale, su certe merci o certe
ricchezze; nulla vietando che, ad es., oltre il 5 o il IO
per cento sul valore, riservato alla lega, i singoli Stati
possano poi sovrimporre dazi o tributi addizionali, così
come parrà opportuno ai singoli legislatori.
Non è nemmeno necessario che la lega crei di sana
pianta una propria nuova amministrazione fiscale. Le
esistenti amministrazioni dei singoli Stati — dogane,
ricevitorie del registro — potrebbero incassare, insieme
ts
— 194 —
colle proprie, le imposte federali e versarle nella cassa
comune. La lega potrebbe dapprincipio contentarsi di
mandare in giro propri controllori per verifiche e rese
di conti periodiche.
A poco a poco, col crescere dell'importanza delle
funzioni della lega, coli' abituarsi dei popoli alla soia
esistenza, col graduale migliore apprezzamento dei suoi
utili risultati, sarà possibile creare una amministrazione
finanziaria federale, diversa da quella statale. 1 singoli
problemi di applicazione si risolvono strada facendo.
Qui ho voluto solo, in rapidi tocchi, segnalare l'im-
portanza del problema fondamentale della necessità di
una finanza della lega, ed indicare i vantaggi e gli in-
convenienti precipui delle due vie, che si possono per-
correre per risolvere quel problema.
(Da L'Unità, 18 gennaio 1919).
FEDERAZIONE EUROPEA
O SOCIETÀ' DELLE NAZIONI?
G. AGNELLI e A. CABIATI : Federazione Europea o
Lega delle Nazioni? Un voi. di pp. VII- 126. In deposito
presso i Fratelli Bocca, Ed., Torino, 1918.
Il libro, che qui si annuncia, scritto in collaborazione
da un fine economista nostro collaboratore, il prof. At-
tilio Cabiati, e da Giovanni Agnelli, industriale, crea-
tore ed amministrare delegato di una delle maggiori e
più celebri fabbriche di automobili del mondo, la Fiat,
viene in buon punto. Pensato e discusso sin dalla fine
del 1916, scritto evidentemente nel primo semestre di
quest'anno, quando la Germania, affermato il suo do-
minio nelle Provincie Baltiche, vinta la Russia, schiac-
ciata la Rumenia, pareva avesse trasformato in realtà
il sogno della Mirtei Europa da Anversa a Bagdad e
sembrava dovesse vincere le ultime resistenze francesi,
mentre l'Austria tracotante minacciava dal Piave, è di-
venuto di ancor più viva attualità oggi che le parti sono
mutate e l'intesa ha vinto. La premessa necessaria al-
l'attuazione del loro piano, che gli A. A. pongono in
fine del - volume : bisogna vincere — è un fatto com-
piuto. E su questa base si può cominciare a ricostruire.
Come? In una recensione non è possibile seguire lo
sviluppo compiuto del pensiero degli autori, che è fon-
— , 1% —
dato sulla miglior letteratura in proposito e nutrito di
appropriati ricordi storici e di sodi ragionamenti. 11
« nodo vitale » del problema, come lo chiamano gli
A. A., è il seguente : Il concetto di « società delle na-
zioni » è troppo vago, instabile per potere dar luogo
ad una creazione politica permanente. L'esperienza
storica è lì per provare l'impossibilità di raggiungere
fini concreti sulla base di una semplice lega di nazioni :
dalla confederazione delle città greche del 470 a. C,
alle Provincie Unite del secolo XVIII, dal Sacro Romano
Impero (800-1806) alla Confederazione germanica del
secolo XIX, dalla Santa Alleanza alla Confederazione
nord-americana del 1776-87. Tutti insuccessi indispu-
tabili e necessari : perchè nessun Stato può esistere lad-
dove manca un potere centrale munito di mezzi pecu-
niari propri e di un esercito. Se le Federazioni di Stati
conducono alla discordia ed alla guerra, resistono e
prosperano invece gli Stati federali : Confederazione
Svizzera, Stati Uniti d'America ed anche Impero Ger-
manico. Bisogna interpretare il concetto della società
delle nazioni non nel senso di una società di Stati in-
dipendenti, i quali assumerebbero impegni di buona
amicizia e prometterebbero di accordarsi per punire i
recalcitranti violatori della pace comune — che è poco
più del vecchio concetto della « bilancia delle po-
tenze »; ma addirittura nel senso di una « Europa fe-
derale ». Stati indipendenti e liberi di sviluppare in
ogni senso le loro attitudini e le loro capacità di vita
e di progresso, salvo-che in alcuni campi determinati :
politica estera, forza armata di terra e di mare, finanza
federale, politica doganale. Questi compiti sarebbero
arridati ad un potere centrale, ad imitazione di ciò che
— 197 —
accade in quei tipi di Stati federali in cui il governo cen-
trale ha quei soli poteri che gli sono assegnati dalla
costituzione. Forze potenti spingono alla creazione di
questo ente superiore : 1) la impossibilità di poter fare
fronte alle conseguenze finanziarie della guerra altri-
menti che col ridurre le forze armate alle poche de-
cine di migliaia d'uomini necessari al mantenimento
dell'ordine pubblico; 2) la difficoltà di potere diversa-
mente distruggere a fondo le caste militari viventi sulla
guerra; 3) la difficoltà di semplificare la vita togliendo
gli impacci ora esistenti nei passaggi da Stato a Stato;
4) la possibilità, che vi sarebbe, di risolvere il problema
delle colonie, impedendo che queste diventino campo
di sfruttamento dei singoli Stati; 5) la necessità in cui
sarebbero gli Stati federali più indietro nella legisla-
zione sociale, nella igiene, nella istruzione di portarsi
al livello dei paesi più progrediti; 6) i vantaggi enormi
della unificazione dei mercati. Qui fa d'uopo riprodurre
la bella pagina scritta dagli A. A., non tanto perchè essa
porta la firma del Cablati, le cui idee erano ben note,
quanto perchè essa reca altresì la firma di uno dei più in-
traprendenti capitani industriali della nuova Italia : « In
Europa eravamo arrivati a questo colmo di assurdo, che
ogni fabbrica che sorgeva in uno Stato costituiva una
spina nel cuore per ogni altro Stato : che, mentre le su-
perbe invenzioni tecniche del vapore applicato ai traspor-
ti di terra e di mare, dell' elettricità come forza motrice,
del telegrafo e del telefono avevano ormai annullato le
distanze e reso il mondo un unico grande centro e mer-
cato internazionale, i piccoli uomini si affannavano con
ogni loro possa ad annullare gli immensi benefici delle
— 198 —
grandi scoperte, creando artificiosamente mercati iso-
lati e piccoli centri di produzione e di consumo.
E sembravano non accorgersi che il sistema protezio-
nista aveva finito con l'uccidere sé stesso e col rendere
il lavoro una tortura e non una gioia. Poiché, volendo
ogni Stato proseguire gli stessi fini, produrre di tutto,
produrre su vasta scala, mai come nell'ultimo venten-
nio quella concorrenza che si aveva avuto in mira di
evitare si era fatta più acuta, più spasmodica, più raffi-
nata e violenta. Si lavorava in grande, sempre più in
grande, a squadre e con fuochi continui, con un mar-
gine di guadagno sempre più ridotto, con lo spavento
incessante di ciò che faceva, di ciò che pensava, di
ciò che inventava l'estero. Solo l'Europa federale potrà
darci la realizzazione più economica della divisione del
lavoro, con la caduta di tutte le barriere doganali. Basta
pensare alla pesantezza dell' armamentario artificioso
che oggi grava su quasi tutta l'Europa continentale; ai
a doppioni » industriali creati dalla protezione; alla di-
struzione quotidiana di ricchezze che ne deriva; agli
ostacoli contro la rapidità degli scambi e della circola-
zione dei beni; alla farraginosa legislazione economica
che tutto ciò importa, con una non meno farraginosa e
costosa burocrazia, per comprendere come basterebbe
l' estirpazione di questo cancro dall'Europa, per com-
pensarci in breve degli sforzi a cui ci ha assoggettato
la guerra. Quale è la persona ragionevole la quale può,
senza timore, prospettare la possibilità che, dopo un
conflitto così gigantesco, si possa riprendere una poli-
tica economica di preferenze, di esclusivismi, di loca-
lizzazione, riversandone il carico sui consumatori
199
esausti? Una economia europea la quale, sostituendosi
con prudenza e graduali adattamenti alle economie
particolaristiche degli odierni singoli Stati, realizzi in
pieno la divisione del lavoro, ci darà, col benefìcio mas-
simo dei produttori, quel ribasso dei prezzi che per-
metta ai consumatori di sopportare gli oneri finanziari
della guerra senza un esaurimento delle proprie forze
fisiche e creative. 11 problema delle ripartizioni delle
materie prime, quello dei trasporti, quello dei prodotti
alimentari, che affannano tutti i comitati europei per lo
studio del dopo guerra, si troveranno automaticamente
risolti. E T ampliarsi gigantesco del mercato da nazio-
nale in continentale farà sì che gli industriali, superato
il primo periodo di assestamento, troveranno dinanzi
a sé tali capacità insospettate di assorbimento, che le
industrie ne riceveranno lo stesso slancio gigantesco
di cui diede prova l'industria americana dopo la guerra
di secessione ». Quando gli industriali italiani, che la
pensano come l'Agnelli, sapranno accordarsi per una
linea d'azione decisa o coerente, che sia di freno alle
pretese ed agli spropositi dei loro colleghi protezionisti,
per Io più tali per mancanza di riflessione?
Sul <( punto vitale » non v'è dubbio che hanno ra-
gione gli A. A.; d'accordo in ciò con tutti gli studiosi
seri che si sono occupati dell'argomento. 11 concetto di
« società delle nazioni » è utile come parola d'ordine;
è una formula politica conveniente per chiarire le posi-
zioni, distinguere, anche in seno alle nazioni dell'Intesa,
coloro che vollero la guerra per fini di sopraffazione, da
coloro che vollero conseguiti i fini nazionali, come ne-
cessaria premessa al raggiungimento di nuovi alti scopi.
Ma è un concetto indubbiamente indefinito. Bisognan-
— 200 —
do cominciare dal dargli un contenuto, l'unico conte-
nuto serio, vitale è quello dello « Stato federale ». Non
basta una associazione più o meno umanitaria fra Stati
sovrani; fa d'uopo un super-Stato, fornito di organi
propri e di forze finanziarie adeguate. Ma a quale ter-
ritorio si deve estendere questo Stato federale? Ho
paura che nel momento presente lo « Stato federale
europeo », quale è prognosticato dagli A. A., sia nel
tempo stesso troppo e troppo poco. Troppo, se si pon
mente alle profonde differenze nazionali che interce-
dono fra una contrada ed un'altra dell'Europa. Italiani,
francesi, spagnuoli, tedeschi, magiari, slavi del sud, bul-
gari, greci, polacchi, russi, rumeni, scandinavi sono
pronti a mandare rappresentanti ad un parlamento fe-
derale, a pagare imposte comuni, a mantenere un solo
esercito? Par dubbio; e par dubbio perciò che l'uomo
di Stato debba proporsi di raggiungere una mèta, la
quale non abbia probabilità di essere sentita dai suoi
governanti. Il processo di formazione di Stati nazionali,
violentemente impedito dall'esistenza di Stati anacro-
nistici, come l' Austria-Ungheria, la Turchia, la Russia
deve prima avere il suo compimento. Questo vogliono
i popoli che fin qui erano oppressi da popoli stranieri
egemonici; e non capirebbero affatto si volesse sosti-
tuire al loro presente un altro ideale. Per essi, e forse
anche da un punto di vista generale, la costituzione di
un'Europa federale sulla base degli Stati preesistenti
alla guerra sarebbe stata una sventura. Il « troppo » sta
dunque in ciò che un'Europa federale non si può con-
cepire costituita se non da e fra popoli, i quali vi siano
spinti da comunanza di interessi, di affetti, di tradi-
zioni, di volontà, di scopi da conseguire. Questa la pre-
— 201 —
messa di tutti gli Stati federali : Stati Uniti, Canada,
Australia, Africa del Sud, Impero germanico, Svizzera.
Finora, questa comunanza non si sente se non da una
parte dei popoli dell'intesa; una parte, dico, che dal-
l'intesa si è già straniata la Russia, mentre i legami che
l'avvincono ai popoli liberati dalla Russia e dall'Austria
sono ancora poco saldi. D'altro canto un'Europa fede-
rale è troppo poco. Comprenderemo in essa l'Inghil-
terra? Ma allora non si può più parlare di una « Europa
federale », bensì di un grande Stato mondiale federale
comprendente la comunità britannica delle nazioni e
le nazioni europee, con le loro colonie. Chi sappia le
difficoltà quasi insormontabili che si incontrano per
dare una costituzione veramente fedeiale alla common-
wealth britannica, impallidisce al pensiero di creare un
ente ancor più vasto e complicato. Rimarrà fuori l'In-
ghilterra? In tal caso, l'Europa federale sarebbe una
Europa media ingrandita, in cui dominerebbe probabil-
mente il gruppo nazionale più compatto, quello germa-
nico. Tra i risultati probabili di una siffatta formazione
politica v'ha una futura lotta di supremazia fra l'Eu-
ropa continentale e il mondo anglo-sassone (Impero
britannico e Stati Uniti d'America). Dopo avere lottato
a morte e sacrificato milioni di vite e centinaia di mi-
liardi di ricchezze, Francia ed Italia abbandonerebbero
i loro fedeli alleati d'oggi e si fonderebbero con chi
voleva ridurli a vassalli. In conclusione, il piano di una
Europa federale non è abbastanza realistico perchè è
troppo razionale, troppo economico. Se i popoli sapes-
sero ragionare e ragionassero soltanto dal punto di
vista del loro vantaggio, quel piano sarebbe tra le cose
attuabili. Non mi pare oggi lo sia, perchè non tiene
202
abbastanza conto degli imponderabili : sentimento di
nazionalità, tradizioni, amor della indipendenza, de-
cisione a vivere miseramente pur di ricuperare una
vetta od un fiume sacro. Il mondo è bello e grande
a causa degli imponderabili. Bisogna costruire te-
nendo conto di essi. In articoli sulla Minerva, scritti
a parecchie riprese dal 1915 al 1918, ho delineato
quali siano, a parer mio, le vie della ricostruzione. La
guerra presente ha rinsaldato una di queste grandi co-
struzioni di super-Stati : la comunità britannica delle na-
zioni; ed il Beer nel suo classico libro ha descritto le
forze le quali spingono alla unione dei popoli di lin-
gua inglese : comunità britannica e Stati Uniti d'Ame-
rica. Dal mondo slavo in effervescenza non si sa cosa
verrà fuori; ma non è fuor di luogo immaginare il sor-
gere di due federazioni slave, l'una del Sud — Boemia,
Jugoslavia, Bulgaria — l'altra del Nord-Est corrispon-
dente all'incirca all'antica Russia. I tedeschi rimarranno,
blocco compatto, al centro d'Europa. Sarebbe un di-
sastro storico se Italia e Francia, ricondotte ai loro sto-
rici naturali confini, non riuscissero a ricostruire l'an-
tico impero romano d'occidente. Dopo millecinquecento
anni di spinte germaniche dal nord ed arabe dall'orien-
te, gli eredi delle genti latinizzate da Roma sono riu-
sciti a ricondurre le loro bandiere quasi agli antichi con-
fini. Se la Spagna entrasse nella nuova costellazione po-
litica, il mare mediterraneo diventerebbe nuovamente
nella sua parte occidentale un lago latino. Colonie im-
mense da sfruttare, territori politicamente annessi da
colonizzare non farebbero difetto : un'opera di secoli
da compiere si presenta ai nostri occhi. E tutto ciò senza
rinunciare alle nostre caratteristiche di cultura, di lin-
— 203 —
gua, di tradizioni. Irresistibilmente, l'America del Sud
finirebbe di aderire ad una Unione latina. La quale non
starebbe a paro dell'Unione anglo-sassone; ma nep-
pure troppo al disotto ed, avendo comuni le origini nella
medesima guerra di liberazione, difficilmente potrebbe
essere tratta a lotta cruenta con essa. Frattanto, se a
poco a poco si attiverà la parte veramente sostanziosa
dell'idea wilsoniana della lega delle nazioni : unioni in-
ternazionali specifiche doganali, coloniali, ferroviarie,
fluviali, per gli stretti, monetarie, ecc. ecc., simili a
quelle già esistenti per le poste, per i telegrafi, per la
protezione della proprietà letteraria ed industriale, ver-
ranno a poco a poco meno i sentimenti che oggi spin-
gono alla guerra. Quando questa parrà assurda agli uo-
mini, come oggi pare assurdo il cannibalismo ed a
molti il duello, la guerra cesserà da sé. E gli uomini
faranno, senza accorgersene, l'ultimo passo non verso
l'Europa federale, ma verso la costituzione di un or-
gano supremo, che noi oggi non sapremmo neppure
bene definire, per regolare gli affari comuni a tutti i
popoli del mondo. E nessuno dei grandi aggregati poli-
tici esistenti : quello anglo-sassone, quelli latino e ger-
manico e slavo e cino-giapponese vedrà una menoma-
zione della propria indipendenza nella creazione di que-
st'organo comune, perchè le menti degli uomini saran-
no abituate all'idea che non a tutto è capace lo Stato,
sia nazionale, sia supernazionale e che, come in uno
Stato vi sono comuni e prò vinci e e governo centrale,
così nel mondo possono coesistere governi diversi, gli
uni applicati a risolvere problemi nazionali, gli altri su-
pernazionali o mondiali.
(Da La Riforma Sociale, novembre-dicembre 1918).
IL GOVERNO DELLE " COSE „
« Soltanto la liberazione internazionale
delle classi lavoratrici dal dominio capita-
listico potrà dare alle Nazioni la possici,
lità di restaurare rapporti di fraternità e
di concordia, perchè il governo delle cose,
sostituito al governo delle persone, assicu-
rerà a tutti la vita di un regime di giu-
stizia e di eguaglianza ».
(Da una lettera aperta del segretario del
Partito Socialista Italiano, Costantino
Lazzari, al Presidente degli Stati Uniti
Wilson, del 3 gennaio 1919 e pubblicata
neU'Avanti ! del 4 gennaio 19 19).
Non ho citato questo brano di prosa socialista uffi-
ciale italiana per discutere i concetti che vi sono conte-
nuti; che mi parrebbe arduo assunto precisare il valore
di due affermazioni inspirate unicamente alla fede e
prive di qualsiasi appoggio nlell' esperienza storica o
psicologica e nel ragionamento. Come « la liberazione
intemazionale delle classi lavoratrici dal dominio ca-
pitalistico possa restaurare rapporti di fraternità e di
concordia fra le nazioni » è misterioso, tanti essendo
nella storia gli esempi di società « non capitalistiche »
e talora « comunistiche » tra di loro guerreggianti; ed
è ancora più difficile indovinare in qual maniera un go-
verno di cose sostituito a quello delle persone possa
(( assicurare la vita di un regime di giustizia e di egua-
— 206 —
glianza ». Queste affermazioni vaghe e solenni nei tem-
po stesso, questa insistenza nel fare del regime capita-
listico l'unico motore della storia e l'unica spiegazione
delle guerre e delle paci, del caro viveri e del contento
e malcontento sociale è un'altra testimonianza dell'iso-
lamento intellettuale in cui l'adorazione del Vangelo di
Carlo Marx ha posto i seguaci della fede socialista; sic-
ché oggi non si accorgono che quella che poteva sem-
brare, sebbene non fosse, una grande scoperta sci enti-
fica ai suoi tempi, oggi è stata superata e nessuna sto-
ria più si scrive, la quale si inspiri a quell'unico ca-
none, che fece la fortuna del materialismo storico. Ma
il Lazzari ed i suoi compagni non vogliono scrivere sto-
rie. Vogliono fare della storia; ed all'uopo indubbia-
mente giova bandire un verbo, il quale, alla pari di
tutti i misteri, faccia presa sulle moltitudini e, colla pro-
messa del paradiso terrestre, le spinga all'azione.
Citando quel brano fu invece mio proposito rilevare
la frequenza con cui nei programmi politici di tutti i
partiti compare una frase, che il barone Manno avrebbe
potuto acconciamente illustrare nel suo libro intorno al-
la (( fortuna delle frasi » : quella del « governo delle
cose sostituito al governo delle persone ». L'occasione
particolare in cui la frase è ripetuta poco interessa. Im-
porta invece rilevare come essa venga introdotta nel
discorso politico per ottenere un certo effetto di persua-
sione e quasi di sbalordimento, che nessuna frase po-
trebbe ottenere, se per lunga consuetudine dessa non
fosse oramai penetrata nella mente degli ascoltatori e
non avesse la virtù di persuaderli irresistibilmente della
verità della tesi sostenuta dall'oratore e dallo scrittore.
207 —
***
Non ho tempo, e forse non ne varrebbe la pena,
di ricercare, colla pazienza di un Manno, le origini del-
la fortuna di quella frase. Ho la vaga impressione che
quell'orìgine sia italiana. Non mi è accaduto di tro-
varne traccia nella letteratura politica inglese, che è la
fonte di ogni sapienza politica moderna; ma di ciò for-
se la colpa è dovuta alle mie scarse letture. Tuttavia si
può osservare che ne quella frase ne alcun' altra che le
si avvicini è studiata nell'aureo libro di Sir George Cor-
newall Lewis intitolato Remarl^s on the use and abuse
of some Politicai Terms, il che mi fa credere che nel
1832 quel concetto non fosse ne popolare ne apprez-
zato nel mondo politico britannico. Ed i primi parla-
mentari nostri erano troppo imbevuti di teorie inglesi,
troppo persuasi della necessità di far trionfare la teoria
nella pratica per adattarsi a bandire un concetto che
avrebbe lor saputo troppo di materialismo. Il curioso
il quale ricercasse le origini della frase probabilmente
non avrebbe gran successo nel periodo anteriore al 1876,
quando nel parlamento e fuori si combattevano grandi
battaglie fra principii ed idee opposte. Le mie remini-
scenze mi porterebbero a credere che il grido « biso-
gna sostituire il governo delle cose al governo delle
persone » sia divenuto frequente e popolare durante il
trasformismo, quando faceva d'uopo trovare qualche
« motivo » semplice e trascinante di critica al caleido-
scopio di ministri e di ministeri, che fu caratteristico del
lungo governo personale di Depretis. Crebbe la sua
forza persuasiva ed acquistò quasi valore di assioma
quando, scomparso Depretis, si vide il governo d'Italia,
— 208 —
dopo l'interregno di Crispi, cadere e rimanere a lungo
nelle mani di un'altra persona, il Giolitti, governante
anch'egli a mezzo di suoi devoti servitori. Parve al-
lora alta sapienza politica invocare un governo « di
cose », che facesse contrapposto al governo u persona-
le » di quegli uomini. E l'accettazione dell'assioma fu
facilitato dal diffondersi del cosidetto socialismo « scien-
tifico » e dal suo affermarsi nelle aule parlamentari;
essendo ben noto che una delle idee madri del socia-
lismo cosidetto « scientifico », forse anzi la sua idea
filosofica fondamentale è quella esposta da Marx in suc-
cinto col dire che, mentre Hegel pone la storia sulla
testa, bisogna capovolgerla per rimetterla sui piedi. Ed
ognuno sa che, in base a questo capovolgimento, la sto-
ria dovrebbe essere spiegata con le variazioni dei pro-
cessi di produzione, delle macchine e cose simili. Poi,
siccome le idee stanno nella testa degli uomini e non
nello stomaco o nei piedi o nei processi produttivi o
nelle macchine, parve di buon tono credere che fosse
una nuovissima e grandissima scoperta scientifica l'a-
ver immaginato che la storia non la facessero gli uo-
mini, colle loro idee, passioni e sentimenti, ma gli og-
getti inanimati che circondano l'uomo e di cui questi
si deve servire per soddisfare ai suoi bisogni. E si sentì
discorrere delle cose che fanno la storia, della neces-
sità di sostituire nelle scuole allo studio delle battaglie
e delle successioni e delle vite e morti dei re e dei gran-
di uomini, lo studio delle istituzioni, delle moltitudini,
dell' « ambiente » economico, infine delle a cose », che
inducono gli uomini a muoversi e ad agire, come fan-
no i fili alle marionette in un teatro di burattini. Così,
la frase « governo di cose e non governo di persone »
— 209 -
nata dal fastidio di trentanni di governo « personale »
acquistò dignità di sentenza filosofica ed il suo potere
magnetico di convincimento immediato divenne più
grande che mai.
***
Se il Lazzari avesse semplicemente scritto che « sol-
tanto la liberazione delle classi lavoratrici dal dominio
capitalis-tico potrà dare alla nazioni la possibilità di re-
staurare rapporti di fraternità e di concordia perchè solo
essa può assicurare a tutti la vita di un regime di giu-
stizia e di uguaglianza » i lettori de\Y Avanti! sareb-
bero rimasti ugualmente persuasi, essendo i lettori dei
giornali, di qualunque giornale, per definizione propen-
si a lasciarsi persuadere dal loro foglio prediletto; e
tanto più sarebbero rimasti persuasi in quanto si trat-
tava della ripetizione, con parole variate, sotto forma
prima di teorema dimostrando e poi di dimostrazione,
del medesimo « mistero ». Ma sarebbe mancata quella
pienezza di persuasione, che può nascere dall' addurre
a prova di un concetto un principioi universalmente noto,
al quale tutti per moto spontaneo si inchinano. Quel
principio è (( il governo delle cose sostituito a quello
delle persone »; notissimo, sentito le mille volte ripe^
tere, non oppugnato da alcun uomo politico, anzi da
tutti assunto come segnacolo in vessillo; eppereiò do-
tato di una irresistibile forza convincente. Quando in
una assemblea politica si sente l'oratore bandire con
forza la necessità di sostituire il governo delle cose al
governo delle persone, par di vedere le teste degli ascol-
tatori inchinarsi in segno di approvazione e le mani
alzarsi da se per plaudire; e chi, per giovinezza od ine^-
14
— 210 —
sperienza di cose politiche, sente per la prima volta
quella frase è tratto a pensare, vergognandosi di se me-
desimo e della sua ignoranza, che il significato di essa
deve esser ben chiaro e ben profondo se il consenso
degli ascoltatori è così pieno e pronto. Ne, d'allora in
poi, egli tarderà ad unire i suoi ai segni di approva-
zione universali, ogni qual volta quella frase giungerà
al suo orecchio.
***
I guai cominciano quando lo stupefatto ascoltatore
tenta di rendersi ragione della vergogna che lo ha as-
salito quando s'avvide di non sapere quel che gli altri
dimostravano di comprendere così facilmente col plau-
so delle mani e con l'assenso di tutte le membra. Che
cosa sarebbero queste tali « cose » le quali dovrebbero
governare in luogo degli « uomini »? Cose sono tutto
ciò che esiste ad eccezione degli uomini. Pare che le
cose debbono essere oggetti materiali, tangibili e mi-
surabili od almeno estrinsecazioni esteriori di una atti-
vità umana. È « cosa » una macchina, un campo, un
albero, un libro, un quadro; sono cose anche un discor-
so, una lezione, in quanto il discorso e la lezione si
separino dalla persona dell'oratore, e certi moti delle
labbra diano luogo a certe vibrazioni dell'aria che si
comunicano all'ascoltatore. Non pare che possano es-
sere definite « cose » le qualità di intelligenza e di cul-
tura che consentono all'oratore di fare il discorso e nep-
pure le idee che vi sono contenute. Non sembra nem-
meno che le (( azioni » compiute dagli uomini in se-
guito a quei discorsi od a quelle idee possano essere
definite « cose! ».
— 211 —
Se tutto ciò è vero, come si può, con esattezza let-
terale di linguaggio, augurarci di essere governati dalle
« cose » invece che dagli uomini?' È già repugnante pen-
sare che si possa affidare il governo della società ai
piedi od allo stomaco degli uomini; ma pare privo di
senso volerlo affidare addirittura ai sassi, agli alberi,
alle macchine, ai libri ed ai discorsi, intesi questi ulti-
mi come oggetti tangibili o misurabili o fonograf abili.
Le frase dunque « governo delle cose » intesa nel suo
significato letterale è priva di senso.
Ove glie se ne voglia dare uno ragionevole, si pre-
senta alla mente quello di governo condotto in base
alla « natura delle cose », al ragionamento, alla logica.
La frase sarebbe perciò un appello a governare in base
ad idee generali, a principii dimostrabili e tali da so-
stenere l'urto della pubblica critica. Le « cose » stareb-
bero al posto della vecchia, alquanto screditata « ra-
gione ». In un'epoca di materialismo e di positivismo
si aveva un po' di ritegno nell'invocare l'avvento della
« ragione », la quale aveva dato così belle prove di se
durante il periodo aureo in cui essa imperò, producen-
do le costituzioni di carta della rivoluzione francese, il
terrore e Napoleone. Parve più « positivo » invocare
che gli uomini si dovessero governare secondò l'ordine
naturale delle « cose », il che vorrebbe dire secondo
la « ragione » p'ositivisticamente intesa, quella che vuo-
le giungere alla massima felicità del maggior numero
degli uomini. Il contrapposto delle « cose » agli « uo-
mini » dovrebbe mirare ad escludere quel che vi è di
212
fazioso, di personale, di passionale, di sentimentale nel-
l'anima dei governanti come dei governati. Si vorrebbe
il governo secondo leggi oggettive ed imparziali, in-
vece che secondo l'arbitrio degli uomini.
Anche questa è una definizione oltremodo debole
della frase governo delle « cose ». La esperienza sto-
rica prova essere impossibile governare secondo « ra-
gione »; ed essere un fatto incontroverso che i senti-
menti, le passioni ed anche i pregiudizi degli uomini
sono una forza di valore grandissimo di cui devono te-
nere assai conto la scienza e l'arte di governo. Si pos-
sono produrre effetti perniciosissimi quando si pretenda
governare col solo sussidio della ragion ragionante;
mentre spesso le nazioni furono condotte ad alto grado
di prosperità da uomini poco sapienti e volitivi, i quali
seppero volgere a mete sublimi le passioni, anche ir-
ragionevoli, delle moltitudini. L'oggettività e la impar-
zialità, che risiederebbero nelle « cose » non danno af-
fatto alcuna garanzia di governo efficace e corretto. Go-
verni celebrati nella storia come i migliori, che lascia-
rono dietro di se più buon ricordo nelle popolazioni
non furono quelli condotti colla logica del puro ragio-
namento. Dove e quando furono tentati, i governi « lo-
gici )) diedero assai lacrimevole prove di sé.
Una variante del concetto delle « cose governatici
degli uomini » è quella degli avvenimenti i quali acca-
drebbero all' infuori degli uomini e che spingerebbero
costoro innanzi come tratti da un turbine al quale sa-
rebbe follìa resistere. Specialmente in tempi torbidi la
teoria degli avvenimenti « superiori alla volontà degli
uomini » ha gran voga. Non più le cose materiali; ma
certi influssi extra-umani agirebbero potentemente a de-
213
terminare le vicende politiche, traendo, con una forza
magica, ad esempio, la Russia dallo Czar ai Cadetti,
dal principe Lvoff a Kerenski a Lenin ed a Trotzki; ed
oggi la Germania da Guglielmo II a Massimiliano di
Baden e poi ad Ebert e quindi, se noni fosse stato nel
frattempo fucilato, a Liebkneeht; ed ambedue i paesi
ad altri « fatali » e non mutabili destini. Una cosa mi-
steriosa ed inosservabile, il « fato » o la « storia » od
il « progresso » dalla nobiltà alla borghesia e da questa
al proletariato guiderebbe gli uomini e vana sarebbe
ogni resistenza.
È questa la teoria dei vinti, dei fiacchi e dei timidi.
Luigi XVI non osava dare l'ordine con cui un sottote-
nente d'artiglieria, che poi si chiamò Napoleone, si te-
neva sicuro di sapere incanalare la rivoluzione verso
una meta diversa da quella che fu raggiunta in man-
canza di una mano ferma e capace di indirizzarla. Se
si analizza a fondo la « cosa » inesplicabile, si vede che
gli avvenimenti di ieri e di oggi non sono « fuori di
noi », ma in noi stessi, e la loro direzione e la loro ve-
locità sono determinate dalla nostra volontà od assen-
za di volontà, dalla nostra operosità od ignavia, dalla
consapevolezza dei nostri doveri, dalla quantità di sa-
crificio e di sforzo che siamo disposti a sopportare pur
di raggiungere la meta da noi voluta o di impedire che
altri raggiunga una meta non voluta da noi. Quante
volte l'unità italiana parve una vana utopia e non fu
essa tuttavia raggiunta per la tenace volontà di pochi
uomini che si chiamavano Cavour, Mazzini, Garibaldi?
L'indipendenza americana e la vittoria del Nord libe-
ratore contro il Sud schiavista non furono forse avve-
nimenti tutt* altro che « fatali »; non furono anzi mira-
— 214 —
coli dovuti alla tenacia di volontà di uomini che ei>
bero nome Washington e Lincoln? Se domani un go-
verno supernazionale sarà un avvenimento concreto,
chi oserà affermare che esso sia stato un avvenimento
imposto dal di fuori agli uomini, e non invece un'idea
pura concepita dai filosofi ed imposta agli uomini re-
calcitranti da un uomo degli altri più veggente e tena-
ce? Certo, nessuna idea si attua d'un tratto, appena con-
cepita; e tale rapidità sarebbe una sventura per gli uo-
mini, soggetti ad un turbinio incomposto di esperienze
inconcludenti. Ogni idea ha la sua genesi in idee pre-
cedenti, da cui essa germina e che essa è destinata a
a superare. È un privilegio del genio quello di scovrire
ed affermare l'idea politica la quale in un dato mo-
mento è il perfezionamento possibile più alto delle idee
precedenti e dominanti; ma nel far ciò egli non accetta
un verbo impostogli da un misterioso ed inafferrabile
(( al di fuori », sebbene, conoscendo profondamente se
stesso e gli altri uomini, le loro passioni, i loro senti-
menti, le loro idee ed aspirazioni, sa formulare quel-
l'ideale che è più capace di trascinarli verso un gra-
dino più alto della loro vita materiale e spirituale.
Alcuni confondono le « cose » con i « programmi ».
Sfiduciati per aver veduto troppo spesso gli uomini ar-
rivati al potere governare dimenticandosi delle fatte
promesse, sognano un paese, in cui i governati sareb-
bero gli esecutori di un certo numero di punti di un
programma bandito nelle elezioni in contraddittorio con
altri programmi, e prescelto dal corpo elettorale; e sup-
— 215 —
pongono che in Inghilterra, negli Stati Uniti ed altrove
esistano davvero i governi di quei pezzi di carta, detti
programmi, che i ministri applicherebbero senz'altro.
Ecco, si dice, il governo delle cose sostituito al governo
delle persone. Nulla di più fantastico di queste cre-
denze. In ogni paese, anche in quelli che sono i de-
positari venerandi delle norme di governo rappresen-
tativo, l'inosservanza dei programmi è la regola. Che
i programmi rispondono a situazioni passeggere, le qua-
li non sono più, quando un partito giunge al potere, le
stesse che esistevano quando esso, anelante di arrivar-
vi, formulava il programma. Ed anche quando si ve-
dono grandi uomini di Stato come Camillo Cavour,
Washington, Lincoln, Wilson attuare sul serio i pro-
grammi e le promesse elettorali, ciò accade perchè ec-
cezionalmente essi antiveggevano i bisogni del futuro e
volevano essi stessi creare quel futuro. La virtù di quei
governi non stava nel programma — inerte pezzo di
carta — ma negli uomini che avevano, essi, voluto quel
programma. Ed è tanto vero ciò che tutti plaudirono a
Roberto Peel, quando abbandonando il partito suo e
le promesse contenute nel suo programma elettorale si
voltò verso la parte avversaria e propugnò l'abolizione
dei dazi sui cereali che aveva prima sostenuto.
Qui si vede che la virtù dei governi non sta nelle
cose inerti, negli schemi della ragion ragionante opposta
alle passioni umane, nelle elencazioni sterili dei pro-
grammi elettorali. Essa sta negli uomini che hanno idee
e che le vogliono far trionfare; che perciò combattono
— 216 —
gli uomini i quali, privi di idee, vogliono solo il trionfo
di sé stessi e dei piccoli loro interessi e delle ribalde
loro passioni. Governo di cose invece che governo de-
gli uomini vuol dire perciò governo delle « idee » in-
carnate in uomini, i quali per farle trionfare, si giovano
delle passioni umane, di quelle generose e di quelle
ordinarie, altruistiche od interessate e tutte le scagliano,
a guisa di catapulta, contro gli uomini semplicemente
dotati di accortezza o di furberia, i quali irridono alla
teoria e si tengono fermi alla pratica della soddisfazio-
ne ai piccoli interessi ed alle piccole passioni e coll'im-
broglio e con l'inganno usano sopraffare gli avversari.
Sono le idee che fanno muovere gli uomini e che fanno
servire le cose materiali ai fini che l'uomo si propone.
In questo senso soltanto la frase « bisogna governare
colle cose invece che cogli uomini » può acquistare un
valore che non pare abbia fin qui avuto. Essa sorse in
un'epoca scura per l'Italia; quando da taluni s'invoca-
vano le « cose » per aver agio di sostituire alla vecchia
generazione di coloro che avevano fatto l'Italia — ed
avevano gli uni, gli uomini di destra, idee salde e va-
sta esperienza, e gli altri, quei di sinistra, passioni ac-
cese — una nuova generazione di gente fredda e pra-
tica, senza idee e senza passioni, la quale si propo-
neva di governare l'Italia come se fosse una « cosa »
qualunque, un meccanismo morto da far lavorare a
proprio profitto; si rinvigorì quando, pel trionfo di un
grossolano positivismo e pel diffondersi di un materia-
lismo cosidetto « storico » parve elegante disconoscere
la forza delle idee e si pretese che il mondoi fosse go-
vernato dal ventre, il quale è indubbiamente un mecca-
nismo interessante, che deve essere fatto funzionare
— 217 —
perchè l'uomo possa vivere una vita più aita, ma non
è il fattore remoto e fondamentale della storia umana.
In questa bassa assenza di moventi ideali dell'azione
politica, parve vanto per gli uomini di governo stra-
niarsi della loro qualità di uomini, affermare che non
esistono e non possono esistere uomini capaci di gui-
dare colla forza del loro intelletto e colla vigorìa delle
passioni messe al servizio di una idea i popoli verso
più alti destini. Parve abile ai piccoli uomini, i quali
volevano, durante il trasformismo e poscia, sostituire
le loro « persone » alle persone dei governanti ed i
quali sapevano di non avere idee proprie da opporre
alle « non idee » altrui, affermare a scanso di fatica e
di impegni, che non gli uomini debbono da se decidere
delle proprie sorti, ma che queste debbono essere fis-
sate, volenti o nolenti gli uomini, da certe inerti entità
metafisiche, dette « cose » : macchine, terre, porti, val-
li, fiumi, mari, ferrovie, salariato, capitalismo.
Storia e teoria politica si popolarono di miti, di dei
dominatori a cui la gente guardava con terrore dicendo :
son « le cose » che ci governano! Frattanto, all'ombra
delle e cose » i piccoli uomini tessevano i loro intrighi
e impedivano che le moltitudini seguissero i loro duci
ideali. Così fu che, allo scoppio della guerra europea,
ci trovammo senza un capo, senza una guida univer-
sale riconosciuta; così fu che l'orazione di Antonio Sa-
landra in Campidoglio rimase senza seguito e nessun
frammento dell'oratoria interminabile, che si rovesciò
sul paese durante questi quattro anni suscitò un'eco
profonda nel cuore degli italiani, prima che le rapide,
fresche risposte del presidente americano ai nostri in-
dirizzi non ci ricordassero nuovamente che si può avere
— 218 —
delle idee ed esprimerle candidamente e trascinare col
candore e colla sincerità dietro di se i popoli. Ma ora-
mai pare che l'eco delle « cose » sia tramontata; e che
siano sorti nuovamente in Italia uomini che hanno delle
idee e vogliono primeggiare e governare, come uomini
vivi, per farle trionfare. La guerra fu vinta, perchè in
Italia vi fu chi seppe persuadere alle moltitudini che non
le « cose » concrete hanno valore, non gli eserciti for-
midabili ed i cannoni e le macchine, e le organizza-
zioni; ma il sacrificio e la tenacia e la virtù di resistenza
e la consapevolezza di dover vincere o morire per un
ideale. Che cosa importa se gli uomini che ebbero fede
non sempre si trovarono al governo della a cosa » pub-
blica? In realtà furono essi i veri governanti del paese,
perchè essi spinsero governi e popoli ad agire, a durare
la lunga fatica ed a vincere. Da quattro anni il motto
non è più : governano le cose per mezzo degli uomini
che non hanno né idee ne passioni; ma come già nella
grande epoca del risorgimento : « governano gli uomini
di pensiero e d'azione che mettono le loro passioni al
servizio di un'idea e sanno trascinare gli altri ad attuar-
la ». La pace sarà vinta ed i problemi del dopo guerra
saranno risoluti quanto più gli uomini dalle idee pro-
fondamente concepite e sentite prevarranno contro gli
uomini, i quali spregiano le idee ed hanno il culto delle
cose morte e degli avvenimenti accaduti al di fuori
della loroi volontà.
(Dalla <( Rivista d'Italia », 1919, voi. I, fase. 1).
LA SOCIETÀ' DELLE NAZIONI
E IL GOVERNO DELLE COSE
Ho analizzato i vari significati che si possono dare
alla frase in un articolo « Il governo delle cose » pub-
blicato nella Rivista d'Italia del gennaio 1919 e ripro-
dotto qui sopra. Ma l'analisi si riferiva ai significati che
la frase può avere quando si pretendesse sul serio di
governare « uomini » manipolando « cose ». Il che è
assurdo. Nel presente articolo si vuole invece distin-
guere i casi in cui si tratta di governare « uomini » da
quelli in cui si vogliono amministrare « cose ». E si
tenta di dire che cosa siano queste cose.
Probabilmente il significato più ragionevole che si
può dare alla frase « governo delle cose e non governo
di uomini » è quello per cui si tenta di distinguere le
specie dell'attività dello Stato le quali si indirizzano di-
rettamente o indirettamente agli uomini, da quelle le
quali si applicano « principalmente » a cose materiali,
ad oggetti inanimati. Governare l'Italia, a cagion d'e-
sempio, è governo di uomini; decidere se giovi meglio
all'Italia meridionale un regime doganale libero-scam-
bista o protezionista è governo di uomini; decidere se
ed entro che limiti si debbano imbrigliare le acque di-
laganti T Appennino, costruire laghi artificiali, rimbo-
220
schire le pendici dei monti sovrastanti è governo di
uomini. La decisione di questi problemi tocca interessi,
passioni, sentimenti contrastanti di uomini, di classi o
di regioni; e l'uomo di Stato deve quindi conoscere l'a-
nimo umano e saper governare uomini, avere idee chia-
re in mente, proporsi scopi ben definiti e da lui con-
siderati vantaggiosi all'universale, per sapere bene ri-
solvere quei problemi.
Ma, quando la decisione del rimboschire è presa,
si può in un certo senso affermare correttamente che
trattasi solo più di governare « principalmente » cose.
La scelta fra i migliori e più economici metodi di im-
brigliamento, di rimboschimento, di taglio dei boschi è
problema tecnico, in cui gli interessi e. le passioni de-
gli uomini hanno ancora una certa parte, ma piccola
e di secondaria importanza. Qui si governano davvero
« cose », ossia torrenti, boschi, precipitazioni acquee,
deflusso di acque e simili. Ed è chiaro che il governo
di queste « cose » è di gran lunga più facile del governo
degli « uomini ». Bastano per esse abilità tecnica, co-
gnizioni speciali imparate nelle scuole, sui libri o nella
pratica, e sufficiente onestà amministrativa; e quella che
dicesi buona « organizzazione » può riuscire a grandi
cose. A governare invece « uomini )> voglionsi tutte
queste qualità ed altre ancora : genio politico, intuito
di sentimenti e di passioni, capacità di entusiasmo,
freddezza di calcolo, arte della parola e virtù del si-
lenzio, comprensione dei grandi problemi storici, pro-
fonda cultura e capacità di dare risalto a volta a volta
agli aspetti economico, sentimentale, religioso, patriot-
tico del grande problema umano.
221 —
Le qualità necessarie a ben governare uomini es-
sendo tanto più rare e sublimi di quelle sufficienti a
governare cose, riesce subito manifesta la ragione per
cui si deve affermare che la novella società delle na-
zioni avrà maggiore probabilità di successo se invece
di affrontare il grandioso problema del governo del-
l'« umanità » dal lato degli « uomini », lo affronterà dal
lato « cose ». Esistono problemi interstatali « umani »
e problemi interstatali « reali ». Prevenire le guerre, iitr
staurare il regno della pace è problema « umano », dif-
ficilissimo a risolversi. Si può rimanere scettici intorno
alla efficacia delle corti di arbitrato, o alia osservanza
delle clausole arbitrali, pensando alla varietà inesau-
ribile delle passioni umane, alla incoercibile virtù di
taluni sentimenti che spingono alla lotta e al desiderio
di supremazia e per questa via conducono alla guerra.
Ma altri problemi sono, quasi si direbbe, al di fuori
delle passioni umane. Le lettere servono alla trasmis-
sione di pensieri e di sentimenti e sono perciò un fatto
umano; ma in se stesso il trasporto delle lettere è un
fatto tecnico, il quale può essere organizzato nel modo
più perfetto come una amministrazione di cose. L'u-
nione postale universale ha, suppongo, con qualche
adattamento e tenuto conto delle chiusure di frontiere,
continuato a funzionare anche durante la guerra. Gli
Stati belligeranti hanno continuato a delegare una parte
della loro sovranità a questo organo, che in embrione
è dia tempo una vera società delle nazioni in atto.
Molte di queste amministrazioni interstatali esiste-
vano prima della guerra. Vi fu chi calcolò che nel 1913
— 222 —
si erano adunati ben 135 Congressi intemazionali per
trattare affari di interesse comune a più Stati. Una delle
amministrazioni più interessanti, per chi voglia osservare
il graduale formarsi del superstato, il quale forse finirà
a governare, per un tempo più o meno lungo, il mondo,
è la commissione europea dei Danubio. Fu creata nel
1856 dal trattato di Parigi per due anni, e dura ancor oggi.
La compongono i delegati di otto Stati : Gran Bretagna,
Austria, Francia, Germania, Russia, Italia, Turchia e
Romania. Ha per iscopo di assicurare e facilitare la
navigazione del basso Danubio. Via via, per meglio
raggiungere i suoi scopi, essa acquistò poteri propri,
sovrani, che la rendono una vera immagine di uno Sta-
to astratto, supernazionale, senza territorio proprio e
nel tempo stesso capace di una azione efficace a prò
degli uomini. Essa :
a) Non può essere sciolta senza il consenso una-
nime di tutti gli aderenti. Di fatto ciò trasformò la com-
missione da provvisoria in perpetua. Teoricamente,
ognuna delle potenze contraenti può ritirarsi; ma nes-
suna si ritira, ben sapendo che la commissione segui-
terebbe a sussistere e a funzionare senza il suo concor-
so e forse contro i suoi interessi.
b) Ha un'amministrazione propria, con un inge-
gnere capo servizio. Ciò è bastato perchè l'ente fosse
un qualcosa di diverso da una delegazione dei singoli
Stati sovrani; avesse una politica propria, alla quale
ubbidiscono gli Stati, talvolta riluttanti. Accadde che la
maggioranza degli Stati aderenti ordinasse ai propri de-
legati di provocare la sospensione di certi lavori di as-
sestamento del fiume. Ma poiché i lavori erano ur-
genti, i commissari moralmente si considerarono tenuti
— 223 —
a deliberarne invece la prosecuzione; e il voto della
commissione prevalse su quello degli Stati sovrani de-
leganti. La pratica dimostra che, una volta costituita
una commissione internazionale, la sovranità si sposta
invincibilmente, nonostante ogni espressa e chiarissima
riserva, dai parlamenti e dai governi dei singoli Stati
al nuovo ente internazionale.
e) Il che tanto più facilmente accade se, come fu
il caso della commissione del Danubio, il nuovo ente
ha il diritto di imporre tributi. À coprire le spese dei
lavori sul fiume, la commissione danubiana può, a mag-
gioranza di voti e con eguaglianza perfetta di tratta-
mento per le bandiere di tutte le nazioni, imporre di-
ritti sulle navi che percorrono il fiume. Ecco un'altra
caratteristica del superstato : la maggioranza dei de-
legati può obbligare la minoranza recalcitrante a su-
bire imposte volute nell'interesse generale. Ciò salda e
perpetua l'ente.
d) Il diritto di prelevare imposte reca con se la
necessità di avere una forza armata capace di costrin-
gere i contribuenti al pagamento. La commissione da-
nubiana non ha un vero corpo armato a sua disposizio-
ne; ma il suo tesoriere può, a mezzo del capitano del
porto di Sulina, ordinare alle navi da guerra di qual-
cuna delle potenze aderenti o, in difetto, allo stazio-
nario turco, di ridurre all'ubbidienza le navi mercan-
tili che tentassero di evadere il pagamento della ta-
riffa stabilita dalla commissione.
e) Chi ha entrate, ha credito; epperciò esiste un
debito pubblico della commissione danubiana. Non è
un debito dei singoli Stati; ma un debito specifico del-
l'ente.
224
/) La sua natura di superr.tato è chiarita altresì
dalla sua neutralità. Dapprima non ammessa per l'op-
posizione della Russia, fu accolta dall'atto pubblico del
1865, il quale dichiarò che « le opere e gli stabilimenti
di ogni specie creati dalla commissione e in specie l'e-
dificio della tesoreria fluviale a Sulina avrebbero go-
duto del privilegio della neutralità e sarebbero stati in
caso di guerra ugualmente rispettati da tutti i belli-
geranti ».
***
Il governo della cosa « Danubio » creato nel 1856
ha avuto un magnifico successo. Così come l'hanno
avuto l'unione postale internazionale, le varie unioni
per la proprietà industriale, letteraria, ecc. ecc. Non
v'è nessuna ragione perchè l'esempio non debba es-
sere imitato in molti altri casi con uguale successo. E
questo diventerà maggiore se, come lo consente l'atto
costitutivo della società delle nazioni, le sedi di tutte
le commissioni e unioni internazionali esistenti e di
quelle da crearsi in avvenire verranno concentrate, in
quanto sia possibile, nella città capitale della lega; e,
in quanto ciò non sia possibile o conveniente, se le
singole commissioni avranno un rappresentante nella
stessa città press® il segretario permanente della lega.
Grande è la probabilità che a poco a poco si costituisca
un vero superstato il quale regolerà in una misura sem-
pre maggiore gli affari relativi alle cose che interessano
gli uomini in generale.
Ed è probabile che procedendo in questa guisa mo-
desta, contentandosi di governare le « cose », si giun-
ga alla fine a governare anche gli uomini. Ben fece la
società delle nazioni a rinunciare al governo diretto
— 225 —
delle colonie tedesche o dei territori dell'Asia Minore.
Sappiamo l'insuccesso del governo internazionale del-
l'Egitto, la quasi impossibilità di fare qualcosa di buono
a Tangeri. Qui si tratta di governare « territori », ossia
gli uomini che vivono in quei territori. L'impresa non
può essere tentata da un ente che sta appena ora for-
mandosi, soggetto a mille influenze diverse, come è
la società delle nazioni. I suoi delegati, che dovessero
amministrare l'Armenia o l'Anatolia turca, sarebbero
in realtà ministri plenipotenziari di potenze sovrane in-
dipendenti, gelose le une delle altre. Essi lotterebbero
quasi soltanto per strappare concessioni, privilegi, fa-
vori a prò dei connazionali. Perciò il governo delle co-
lonie deve essere affidato a una nazione singola, co-
stretta bensì a seguire certe norme comuni nell'inte-
resse generale, ma libera di governare uomini a seconda
del proprio genio e dei propri costumi. Si avranno, co-
me in passato, successi grandi o mediocri ed insuccessi;
ma almeno si avrà un governo.
La società delle nazioni può essere invece effica-
cemente incaricata di governare il Danubio, parte del
Reno, il canale di Kiel, i Dardanelli e il Bosforo, il
canale di Suez o di Panama; può prendere il seguito di
istituti internazionali esistenti, come quello' di agricol-
tura di Roma, l'unione postale universale, le unioni per
i brevetti e per i marchi, le unioni sanitarie, per gli
orari ferroviari, ecc. ecc. Potrebbe costituire un ufficio
comune per la repressione delle evasioni tributarie in-
ternazionali e per la elaborazione di norme atte a im-
pedire le doppie e le triple tassazioni. Qui non si tratta
più di governare direttamente uomini, ma di dragar
fiumi e canali, costruire banchine, trasportar lettere, re-
gistrare attestati di privative, confrontare e trasmettere
15
— 226 —
denunce di eredità. Funzioni importantissime, ma ese-
cutive; in cui gli uomini entrano come amministratori
o beneficiari, non come partecipi della sovranità.
Alla lunga, col moltiplicarsi di queste amministra-
zioni interstatali di « cose », la sovranità degli Stati sin-
goli verrebbe indubbiamente menomata. Da certi punti
di vista legislatori e governanti finirebbero ad accorger-
si che esiste al disopra di essi un ente superiore, vi-
vente di vita propria, ai cui comandi praticamente essi
non avrebbero forza di ribellarsi. Essi si sentirebbero le-
gati da mille invisibili fili, da cui sarebbe impossibile
districarsi. In moltissimi casi i parlamenti nazionali do-
vrebbero rassegnarsi ad essere pure camere di registra-
zione della volontà manifestata dal superstato. Già ora,
se l'unione postale internazionale deciderà il rialzo del-
la tariffa delle lettere da 25 a 40 centesimi, vi sarà forse
un parlamento il quale tenterà di non obbedire? Ogni
Stato, è vero, si consola pensando che quel rialzo fu
anche votato dal suo delegato. Ma quel delegato era
un oscuro funzionario, di cui nessuno del pubblico sa
neppure il nome. Ma quel delegato può aver votato
contro; e la maggioranza lo sopraffece. Ma certamente
la maggioranza votò inspirandosi a criteri di interesse
comune, supernazionale, mondiale. Ecco la nuova so-
vranità, già esistente in molti casi separati, e che do-
vrebbe essere compito della società delle nazioni uni-
ficare, ampliare, estendere a nuovi casi. A poco a po-
co il nuovo superstato, sorto dapprima per governar
« cose », creerà una amministrazione, attirerà a sé gli
uomini più capaci delle varie nazioni del mondo. I po-
litici di maggior merito e di ambizioni più alte, che ora
sdegnano servire nella commissione del Danubio, o nel-
l'ufficio di Berna dei marchi industriali, ameranno dar
— 227 —
la loro opera al segretariato permanente, o essere mi-
nistri delegati alle conferenze annue dei supremi con-
sessi della società delle nazioni. I parlamenti e i mini-
steri nazionali scadranno di dignità in confronto a
queste supreme cariche. Diventeranno simili ai parla-
menti o consigli regionali o provinciali, di cui l'opi-
nione pubblica generale poco si interessa. Ed ecco la
società delle nazioni divenuta capace di governare an-
che gli uomini. I poteri che essa non avrà ancora, li
otterrà o li usurperà; ne i parlamenti nazionali oseranno
rifiutarsi a sempre nuove abdicazioni dei loro poteri
sovrani.
Non so in qual lasso di tempo queste profezie po-
tranno avverarsi; ma certamente esse paiono il logico
sviluppo di una evoluzione già avvertita prima della
guerra e che questa sembra accelerare. La rapidità e
il successo della nuova formazione superstatale mi
paiono dipendere sovratuttoi dai suoi primi passi. Il
successo potrà arridere se per ora la società delle na-
zioni si contenterà di governare fiumi, laghi, mari,
stretti, canali, reprimere la diffusione di malattie con-
tagiose, spedire lettere, ecc., ecc. Se, in prosieguo di
tempo la società delle nazioni, col crear legami fra
uomini e nazioni, con lo sminuire i poteri dei singoli
Stati sovrani, con l'attrarre a se i migliori uomini di
tutte le parti del mondo, avrà acquistato la capacità di
governare gli uomini, si avrà il superstato, vivo, forte,
atto a reprimer guerre tra gli Stati apparentemente so-
vrani e in realtà suoi dipendenti. Il superstato sarà un
fatto; mentre la società delle nazioni, atta a sentenziare
fra Stati sovrani e ad impedire guerre, pare ed oggi è
una chimera.
(Dalla Minerva, 1° aprile 1919).
POPOLI DOMINATORI
E POPOLI OPPRESSI
L'India e l'Egitto furono due grandi speranze della
Germania durante la guerra. Sollevare il mondo mu-
sulmano agitando l'idea della riunione di tutti i se-
guaci del Corano sotto la bandiera del Califfo, ecci-
tare i partiti nazionalisti indiani ed egiziani; separare
nettamente la Russia dall'India risuscitando una antica
e quasi spenta idea panturanica, destinata a riunire la
razza, non più la religione, dei dominatori turchi del
residuo impero musulmano con i fortissimi nuclei tu-
ranici del Turchestan e delle altre regioni russe poste
sopra all'India e al Tibet; stringere così, grazie ai buoni
uffici dei giovani turchi, la mano ai gruppi atavici affini
della Cina occidentale estrema.
Il piano grandioso di dominazione mondiale non fu
forse mai compiutamente avvertito in Italia, dove lo
sguardo si estende al più, in politica internazionale, sino
ai lidi dell'Africa, al Mar Rosso e all'Asia Minore. Vi-
dero invece nettamente quel pericolo gli Inglesi e si
adoperarono a sventarlo con la spedizione di Mesopo-
tamia, che doveva impedire l'arrivo degli eserciti te-
deschi fin sul mar persico, con la difesa del canale di
Suez e la conquista della Palestina, con la creazione
del Regno d'Arabia, con un'opera inavvertita di pene-
trazione compiutasi, dopo il dissolvimento massimalista
— 230 —
dell'Impero russo, nelle regioni del centro dell'Asia si-
tuate di là dall'Himalaia. Quel cerchio di ferro che do-
veva stringere al collo la dominatrice dei mari e farla
cadere al suolo, oggi è una cintura magnifica di pro-
tezione dell'Impero britannico. L'Egitto e l'India, e con
essi l'Africa meridionale e l'Australasia, sono protetti
dalla Palestina, dall'Arabia, dalla Mesopotamia e dalle
zone di influenza del centro dell'Asia.
L'Impero britannico, non più minacciato dall'ester-
no, pare tuttavia vacillante per dissidi interni : l'Irlanda
rivoltosa costituisce un governo repubblicano indipen-
dente e segreto allato al governo ufficiale, per le vie
d' Alessandria e del Cairo corre a rivi il sangue egi-
ziano, e dall'India giungono notizie di movimenti in-
surrezionali gravissimi. L'idea della autodecisione e
delle nazionalità, agitata dall' Inghilterra e dall'intesa
durante la guerra contro il sogno germanico di domina-
zione mondiale, si rivolta contro 1* Inghilterra medesi-
ma, la grande dominatrice.
Tutta la gente fatua, che sui giornali italiani e fran-
cesi ha bisogno di inneggiare ai popoli oppressi, tutti
i germanofili hanno fatta propria la causa dell'Irlanda,
dell'Egitto e dell'India. E ritengono che, insieme alla
conculcata libertà dei mari, alla ferma decisione del-
l'Inghilterra di non allentare la mano la quale detiene
Gibilterra e Suez, il ricordo dell'Irlanda, dell'Egitto e
dell'India basti a dimostrare l'ipocrisia profonda delle
dichiarazioni anglosassoni di voler combattere per la
libertà del mondo, e l'abisso di schiavitù effettiva in
che siamo caduti per resistere a quello che in sostanza,
essi aggiungono, era un immaginario sogno di domi-
231
nazione, anzi una calunnia inventata dagli inglesi contro
l'egemonia germanica.
Di qui la simpatia di tanti cuori sensibili verso le
nuove nazioni oppresse dal tallone britannico, 1* ironia
sarcastica di tante penne scintillanti contro coloro i
quali hanno avuto il torto di invocare ragioni ideali e
mondiali per spingere 1* Italia a fianco dell'intesa. Di
qui lo scoramento di molti i quali chiedono : valeva la
pena di sacrificare tante vite e tanti miliardi per rin-
saldare sul mondo e su noi un giogo spregevole ed umi-
liante appunto -perchè si astiene dal piglio truce ma
leale del guerriero ed assume la forma insidiosa della
soprafT azione mercantile?
Il problema è, solo in parte, un problema di oppres-
sione militare e di sfruttamento mercantile. Quando i
nemici e gli invidiosi dell' Inghilterra affermano che, se
essa ritirasse i suoi eserciti, non un giorno di più dur
rerebbe la sua dominazione sull'Irlanda, sull'Egitto e
sull'India, e nessuno ripeterebbe l'invocazione che dal-
l'isola britannica abbandonata dalle legioni romane di-
speratamente giungeva all'imperatore, di voler conser-
vare la sua protezione ai sudditi fedeli, ormai romaniz-
zati e timorosi di cadere sotto il giogo di barbare tribù,
forse affermano il vero, sebbene nessuno possa oggi
prevedere se nell'India e nell'Egitto, dilaniati dalle di-
scordie intestine e facile preda di orribili miserie e di
tirannie effimere, ben presto il grido di angoscia e di in-
vocazione alla pax britannica non sarebbe prima som-
messamente e poi a gran voce ripetuto dalle bocche di
— 232 —
milioni di lavoratori industriosi, abbandonati in balìa
della classe letterata, i cui rappresentanti oggi infestano
le capitali europee con le loro querimonie.
11 problema di forza è chiaro : nessun paese rinuncia
da sé, salvo vi sia costretto da una forza militare pre-
potente, alle ragioni della propria esistenza. Quando
fosse proclamata la repubblica irlandese, e l'Irlanda
fosse scissa dal nesso dell'Impero, i suoi porti, i suoi
seni, il mare interno tra l'Irlanda e l'Inghilterra diven-
terebbero nidi di sottomarini, la sicurezza delle comu-
nicazioni della madrepatria con le colonie verrebbe
meno. Dopo poche settimane di guerra, l'Inghilterra,
incapace ora e sempre a nutrire i suoi figli, dovrebbe
arrendersi per fame. Se fossero rotti i rapporti dell'In-
ghilterra con l'Egitto, le comunicazioni con l'India e
con l'Australasia diventerebbero lente e diffìcili, e
quella potenza, la quale, d'accordo con il piccolo Stato
indipendente possessore del canale di Suez, vi si im-
piantasse, potrebbe davvero stringere al collo e buttare
a terra il colosso britannico. E chi conosce l'opera com-
piuta dagli inglesi nell'India, sin da quando la salva-
rono dall'anarchia sanguinosa e dalla carestia perenne
e la ridussero a paese popoloso e ordinato e pacifico,
non può credere che essi rinuncino, fuorché costrettivi
dalla forza, a quella che essi reputano ed è una grande
missione storica e civilizzatrice.
Se le accuse di fondarsi sulla forza si spuntano
contro la volontà di vita dell'impero, quelle di nascon-
dere con parole umanitarie una sostanza di sfruttamento
mercantile sono frutto esclusivamente della incapacità
di comprendere i vantaggi economici grandiosi che una
saggia amministrazione può arrecare ai popoli econo-
— 233 —
micamente arretrati. La dominazione inglese nell'Ir-
landa fu macchiata da colpe gravi nei secoli passati;
ma quelle colpe furono largamente riparate con una po-
litica lungimirante che dura oramai dà tre quarti di
secolo. Scomparsa o quasi la grande proprietà inglese,
restituita, con sacrificio di miliardi, la terra ai contadini
irlandesi, spezzato il latifondo, ricostruite le case, co-
perta l'Irlanda da una rete di cooperative dì produ-
zione, mai l'Irlanda fu così prospera come oggi; e la
sua prosperità fu a mille doppi cresciuta dalla guerra,
quando, libera dalla coscrizione militare, essa vendette
alla dominatrice iugulata dalla fame i suoi prodotti a
prezzi altissimi. La ribellione irlandese d'oggi è la ri-
bellione contro il fiume d'oro rovesciatosi a inondare
l'isola verde grazie al relativo impoverimento degli
inglesi.
Le stesse verità inconfutabili si possono ripetere per
l'Egitto e per l'India. Non mai nella storia quei due
paesi ebbero a traversare un periodo di floridezza eco-
nomica maggiore dell'odierno. Uno dei fatti monetari
principali di oggi è l'imboscamento dell'oro e dell'ar-
gento in masse mai più vedute nell'India. C'è nel
mondo oggi una vera crisi dell'argento, determinata
dall' assorbimento senza limiti che i contadini indiani
fanno del metallo bianco a scopo di costituirne tesori
monetari e trasformarlo in oggetti di ornamento. E le
classi più alte requisiscono oro. È un imboscamento
che in parte ha salvato il mondo da un rialzo di prezzi
maggiore di quello che si verificò di fatto; ma è un in-
dice altresì di risparmi colossali, compiutisi in paesi i
quali si pretendono dissanguati economicamente dalla
potenza dominante, ed i cui rappresentanti raccontano
— 234 —
novelle di aneddoti senza senso e di arricchimenti mi-
nori di quelli che essi avrebbero potuto conseguire se
avessero potuto mettere liberamente il coltello alla
gola delle nazioni europee combattenti per la propria
salvezza.
***
Tuttavia, questi non sono fatti conclusivi per i po-
poli dominati e per gli stranieri, come siamo noi. Pro-
vano solo che la liberazione dell'Irlanda, dell'Egitto e
dell'India ferirebbe a morte l'impero britannico e dan-
neggerebbe economicamente i paesi ora soggetti. Ma
anche noi italiani — si deve qui rispondere trionfal-
mente — volemmo ferire a morte l'impero austriaco;
ed anche noi, se ci fossimo contentati di divenire i vas-
salli della Germania, avremmo guadagnato in ricchezza,
avremmo potuto assurgere presto ad un grado di pro-
sperità materiale quale forse non otterremo in decenni
di sforzi perseveranti. Tuttavia noi abbiamo avuto ra-
gione di ferire a morte a Vittorio Veneto l'impero au-
striaco, ed a ragione preferiamo di rimaner poveri piut-
tostochè arricchire in servitù. Se l'Inghilterra potesse
invocar soltanto la forza dei suoi eserciti ed i benefici
economici arrecati ai popoli da essa dominati, la sua
causa sarebbe perduta.
La sua forza è altrove; è nel principio che essa di-
fende. L'Austria meritava di cadere perchè non rap-
presentava più nulla al mondo : ne la armonia delle na-
zionalità conviventi sullo stesso territorio, ne la difesa
della cristianità contro il turco o contro il barbaro mo-
scovita. Venuta meno la sua missione europea, essa do-
veva cadere. nostri soldati furono lo strumento di
— 235 —
questa necessità infrangibile. E quale ideale più alto
di organizzazione politica avrebbe saputo attuare! la
Germania per pretendere a giusto diritto la rinuncia alla
nostra indipendenza spirituale? Nessuno; ed oggi i
suoi stessi scrittori sono costretti a riconoscere ciò che
da tempo avevano osservato gli stranieri : essere la for-
ma politica germanica antiquata e inetta ad elevare il
popolo medesimo germanico ad una vita collettiva pie-
namente consapevole.
L'Inghilterra, difendendo se stessa — e ciò per noi
non conta nulla, — difende invece un principio il quale
oramai si è imposto anche ai più ciechi : il principio
che non esiste nessuno Stato veramente indipendente,
e che tutti gli Stati sono legati insieme da vincoli, i
quali andranno via via facendosi sempre più stretti e
saldi. L'indipendenza compiuta degli Stati è un'utopia
ed è un male. Non esiste e non può esistere uno
Stato, il quale, in tempi di ferrovie, di navigazione a
vapore, di telegrafi e di rapporti economici moltipli-
cantisi, possa vivere autonomo e indipendente. È vero
invece che ogni Stato è legato agli altri, che non può
senza di essi vivere, che deve limitare la sua sovranità
per renderla compatibile con la sovranità degli altri.
Alla lunga, la verità che l'indipendenza è un mito ir-
reale, e che solamente è vera la reciproca dipendenza,
fa sorgere le utopie della pace perpetua e della uni-
versale società delle nazioni. Non occorre qui discutere
perchè queste siano destinate a rimanere utopie, ossia
aspirazioni ideali destinate a tradursi nella realtà in
forme contingenti ed imperfette; e come solo per il suc-
cedersi di tentativi imperfetti si possa giungere ad una
realtà la quale si avvicini all'ideale accarezzato dagli
— 236 —
utopisti. Orbene, il più grandioso tentativo di organiz-
zazione di una vera società delle nazioni — oltre a
quelli magnifici ma ristretti della Svizzera e degli Stati
Uniti — è l'impero britannico. Val più un fatto che
mille aspirazioni impotenti. Ed il fatto vero, storica-
mente non emulato, è che non esiste nell'impero bri-
tannico uno Stato dominatore e molti popoli soggetti,
ma esiste una vera società di nazioni diversamente par-
tecipanti al governo della cosa comune ed ai relativi
oneri, a seconda del rispettivo grado di civiltà e di ca-
pacità politica, ma tutte avviate a esercitare una eguale
influenza sulla cosa comune.
Finche sul continente d'Europa si persisterà a guar-
dare l'impero inglese e le sue colonie come se i rap-
porti reciproci fossero quelli medesimi che intercede-
vano fra l'impero germanico e l'AIsazia-Lorena, fra
l'Austria e l'Italia irredenta, fra l'impero russo e la
Polonia, fra la Turchia e l'Armenia, non sarà mai pos-
sibile giudicare rettamente della contesa fra l'Irlanda,
l'Egitto e l'India da una parte, e l'Inghilterra dall'altra.
Finche i primi vorranno scindere le proprie sorti da
quelle dell* associata principale, l'Inghilterra dovrà bru-
talmente usare la forza delle armi e soffocare nel sangue
le rivolte sanguinose, così come fecero gli Stati Uniti
contro gli Stati sudisti secessionisti. Quando essi si de-
cideranno ad entrare come soci, a parità di diritti e di
doveri, nella grande comunità britannica delle nazioni,
l'uso della forza diverrà superfluo. Irlanda, Egitto e In-
dia difendono una forma antiquata di consociazione
politica; l'Inghilterra difende quella che è l'utopia del-
l'oggi e sarà la realtà del domani. Se quelle di ugua-
glianza e di libertà nell'ambito della società britannica
— 237 —
fossero solo promesse, avremmo ragione di dubitare
della loro serietà. Ma sono realtà attuata per il Canada,
per l'Africa del Sud, per l'Australia, per la Nuova Ze-
landa, per Terranova, Stati perfettamente indipen-
denti, ma associati nella cerchia dell'impero per il rag-
giungimento di fini comuni. L'ideale a cui si deve ten-
dere è una trasformazione intima, spirituale dei popoli
irlandese, egiziano, indiano, per cui essi diventino ca-
paci di governarsi da sé, pure riconoscendo l'utilità dei
singoli e di tutti al conseguimento di scopi comuni con
sforzi ass oci ati .
Questa, e non l'indipendenza assoluta, è il massimo
bene a cui i popoli possano aspirare. Dall'esempio
dell'impero britannico noi dovremmo imparare, noi
italiani, francesi, spagnoli, americani del Sud, per rico-
stituire, con ampiezza maggiore, l'impero romano di oc-
cidente, con civiltà comune e con ideali propri, da con-
servare mercè la comunità degli sforzi. Se ciò non sa-
premo fare, ben diffìcilmente potranno i nostri popoli
conservare un potere politico proprio tra i colossi, i
quali di là dai mari si afforzano. Saremo indipendenti;
ma saremo anche una quantità trascurabile nel gioco
delle forze spirituali ed economiche che muovono il
mondo.
(Dalla Minerva, 16 gennaio 1920).
COME SI GIUNSE
AL TRATTATO DI VERSAILLES
(Dal libro di un economista)
Vi è un libro che sta mettendo a rumore l'Inghil-
terra contro la giustizia e la sapienza del trattato di
Versailles. Quel libro non predica il millennio e non
vuole si rompa il trattato, che è una garanzia di pace
formale; ma vuole preparare la formazione di un'opi-
nione pubblica mondiale la quale faccia apparire a
tutti necessario e conveniente rivedere quelle condi-
zioni di pace che oggi talune nazioni difendono con
estrema energia.
Per comprendere lo spirito del trattato ed il perchè
della sua necessaria revisione, l'autore ci fa assistere
alla sua genesi.
La pace di Versailles fu in realtà l'opera di un
uomo solo.
« Il signor Clemenceau era di gran lunga il perso-
naggio più eminente del Consiglio dei quattro. Egli
solo aveva un'idea e l'aveva meditata fino alle sue ul-
time conseguenze. Non si poteva sentir disprezzo od
antipatia per Clemenceau, ma solo avere un'opinione
diversa sulla natura dell'uomo civile od almeno nutrire
una speranza differente intomo ad essa... Egli sentiva
per la Francia quel che Pericle sentiva per Atene; sol-
— 240 —
tanto la Francia contava ai suoi occhi, e tutto il resto
era men che nulla. Ma la sua politica era quella di
Bismarclc. Per lui il tedesco non capisce e non può com-
prendere null'altro fuorché l'intimidazione; è senza
generosità e senza rimorso nel negoziare, senza onore,
orgoglio o pietà. Perciò non bisogna mai negoziare con
un tedesco o cercare di conciliarselo; voi dovete im-
porvi a lui. A nessun' altra condizione egli vi rispetterà
o voi impedirete che egli vi inganni... Nei rapporti in-
ternazionali non vi è posto per « sentimentalismi ».
Soltanto le nazioni sono cose reali, di cui voi amate
una e sentite per il resto indifferenza od odio. La gloria
della nazione che voi amate è uno scopo desiderabile;
ma generalmente deve essere ottenuta a spese altrui. La
politica della forza è fatale; e non vi è davvero nulla
di molto nuovo da imparare intomo all'ultima guerra
ed agli scopi per cui fu combattuta : l'Inghilterra ha di-
strutto, come in ogni secolo precedente, un rivale com-
merciale ed un grande capitolo si è chiuso nella lotta
secolare fra le glorie della Germania e della Francia.
La prudenza consiglia di rendere omaggio a fior di lab-
bra agli ideali di americani ingenui e di inglesi ipocriti:
ma sarebbe sciocco di credere che vi sia molto posto
nel mondo, così come è fatto, per imbrogli simili alla
lega delle nazioni o molta significazione nel principio
dell* auto-decisione, salvochè lo si riguardi come un'in-
gegnosa formula per accomodare la bilancia della po-
tenza nel proprio interesse ».
Perciò era necessario che la forza della Germania
fosse ridotta a quella che era nel 1870 affinchè la Fran-
cia potesse dirsi di nuovo sua eguale. Essendo la guerra
lo stato normale dell'Europa, era d'uopo che la Francia
- 241 —
si garantisse, diminuendo il territorio e la potenza eco-
nomica della Germania. Perciò la sola pace possibile
era una pace cartaginese; ed il signor Clemenceau non
si preoccupava minimamente dei quattordici punti, e
lasciava ad altri di escogitare i trucchi necessari per
salvare gli scrupoli o la faccia del Presidente.
Come accadde che Wilson, il « Presidente » si sia
lasciato indurre a mettere la sua firma sotto un trattato
di pace cartaginese invece che sotto ad un documento
di giustizia? Ad osservarlo si vedeva subito che il
Presidente non aveva il temperamento dello studioso e
neppure quell'abito mondano che a segnalano il signor
Clemenceau e il signor Balfour come campioni squisi-
tamente fini della loro classe e della loro generazione ».
Quale probabilità di far trionfare le sue idee aveva il
Presidente, insensibile al mondo esterno, contro la in-
fallibile sensibilità, quasi medianica, di Lloyd George
verso chiunque gli stesse attorno?
« Il primo ministro britannico nel tempo stesso os-
servava i colleghi con sei o sette sensi non esistenti per
la comune degli uomini, giudicava caratteri, motivi ed
impulsi subcoscienti, percepiva ciò che ognuno pen-
sava e persino ciò che ognuno intendeva in seguito dire
e preparava con istinto telepatico 1* argomento o l'ap-
pello più adatto alla vanità, alla debolezza, ed all'inte-
resse del suo immediato interlocutore... Invece la mente
del Presidente era lenta e incapace di adattamento.
Egli non poteva in un minuto entrare nel vivo di ciò
che gli altri dicevano, afferrare in un lampo la situa-
zione, formulare una replica e fronteggiare un assalto
cambiando opportunamente di terreno; ed era perciò
destinato ad essere battuto dalla semplice prontezza,
16
— 242 —
intuizione ed agilità di un Lloyd George... Nessun uocmo
mai entrò in consiglio vittima più perfetta e predesti-
nata dell'abilità sopraffina del Primo Ministro ».
Ad essere vittima lo designavano le sue qualità :
non era uno studioso, non un filosofo, non un uomo
daffari, non un politicante comune. Che cosa era dun-
que il Presidente? Pare che la caratteristica non fosse
facile a scoprire. Ma trovatala, fu « illuminante ». Il
Presidente rassomigliava ad un ministro nonconfor-
mista, forse ad un ministro presbiteriano. Il suo pen-
siero ed il suo temperamento erano essenzialmente
teologali, non intellettuali, con tutta la forza e la de-
bolezza di questa maniera di pensare, sentire ed espri-
mersi ». La similitudine, che per un inglese è « illumi-
nante », dice poco agli italiani, che hanno in mente il
tipo del teologo italiano fino, ragionatore, abile dialet-
tico e politico scaltrito. Forse, al tempo del Savonarola
e dei suoi Piagnoni, abbiamo avuto anche noi qualche
tipo vivo dell' asceta che non fa l'eremita, ma il predi-
catore, che dall'alto del pulpito sulla piazza ordina ai
fedeli in linguaggio apocalittico di attuare severamente,
su sé stessi, senza scuse ed eccezioni, a qualunque
costo, il verbo della verità e della fede. Wilson è un
Piagnone redivivo.
Il suo verbo è la Società delle Nazioni, la sua meta
una pace di giustizia. Ma egli non andava al di là delle
tavole della fede.
« Si credeva comunemente al principio dei lavori
della Conferenza di Parigi che il Presidente avesse
elaborato, coir aiuto di un numeroso stuolo di consi-
glieri, un ampio progetto per 1* attuazione della Lega
delle Nazioni, e per la trasfusione dei quattordici punti
— 243 —
in un effettivo trattato di pace. Di fatto il Presidente
non aveva elaborato nulla; quando fu chiamato a for-
mularle praticamente, si vide che le sue idee erano ne-
bulose ed incomplete. Egli non aveva un piano, un
progetto, un'idea costruttiva qualsiasi per vestire delle
carni della vita i comandamenti che egli aveva fra i
tuoni ed i lampi della Casa Bianca comunicato ai po-
poli. Pigli avrebbe potuto predicare un sermone su uno
qualunque dei punti o indirizzare una solenne pre-
ghiera all'Onnipotente per il loro adempimento; ma
non era capace di formularne la concreta applicazione
allo stato attuale dell' Europa... Non solo egli non aveva
proposte da fare, ma era sotto molti rispetti male in-
formato, forse inevitabilmente, intorno alle condizioni
dell'Europa... Ne egli rimediò a questi difetti ricorrendo
all'aiuto della sapienza collettiva dei suoi luogotenenti.
Egli aveva bensì riunito intomo a se, per quanto ri-
guarda i capitoli economici del trattato, un abilissimo
gruppo di uomini d'affari. Ma essi erano privi di espe-
rienza nelle pubbliche faccende, e fatta una o due ec-
cezioni, sapevano dell'Europa altrettanto poco come il
Presidente e venivano chiamati a dare il loro parere
solo di quando in quando su punti particolari... Gli altri
plenipotenziari americani erano mere teste di legno; ed
il fidato colonnello House, di gran lunga miglior cono-
scitore degli uomini e dell* Europa che non il Presi-
dente, cadde nell'ombra a mano a mano che il tempo
passava... Giorno per giorno, settimana per settimana,
il Presidente si chiuse sempre più in se stesso, senza
aiuto e senza consiglio, solo, di fronte ad uomini molto
più astuti di lui, in situazioni di difficoltà suprema,
quando per ottenere il successo egli avrebbe avuto bi-
— 244 —
sogno di ogni specie di risorse, fertilità di concezioni
e conoscenze... Arriva un momento in cui la vittoria
nelle camere di consiglio è vostra se con qualche leg-
gera apparenza di concessioni voi potete salvare la fac-
cia degli oppositori ò conciliarli riformulando le vostre
proposte in maniera gradita ad essi e non dannosa in
nulla di essenziale al vostro interesse. Il Presidente non
era dotato di questa semplice e comune abilità. La sua
mente era troppo lenta e troppo poco agile per potere
inventare una qualsiasi alternativa. Il Presidente era
capace di puntare i piedi e di rifiutare di muoversi, co-
ma fece per Fiume. Ma non aveva nessun altro mezzo
di difesa, e bastava di regola qualche piccola manovra
dei suoi oppositori per impedire alle cose di giungere
ad un punto da non poterlo più smuovere. Con qualche
bella maniera ed una parvenza di conciliazione, era
facile trarre il Presidente fuori del suo terreno, fargli
perdere il momento di puntare i piedi, sicché prima
che egli sapesse dove si trovava, era per lui troppo
tardi per ribellarsi Nel momento della crisi suprema,
egli aveva gran bisogno della simpatia, dell'aiuto mo-
rale, dell'entusiasmo delle masse. Ma a lui non giunse
nessun'eco dal mondo esteriore, nessun palpito di pas-
sione, di simpatia, di incoraggiamento dei suoi silen-
ziosi elettori di tutti i paesi ».
Intorno a lui la trama del trattato andò tessendosi
sotto la ispirazione degli inglesi e dei francesi solo
preoccupati di rivestire con le formole verbali dei quat-
tordici punti i desideri egoistici dei vincitori. Nel con-
siglio dei quattro « Clemenceau era intento unicamente
a schiacciare la vita economica del suo nemico, Lloyd
George a fare un bel colpo e portare a casa qualcosa
— 245 —
che per una settimana potesse sembrare un successo,
il Presidente a non far nulla che non fosse giusto e di-
ritto ». Lloyd George aveva promesso ai suoi elettori
di far pagare alla Germania le spese della guerra; e
voleva ottenere quei tanto che gli bastasse a dire di
avere attuato le sue promesse.
(( I più sottili sofisti e di redattori più ipocriti furono
messi al lavoro ed inventarono molti ingegnosi spe-
di enti che non avrebbero ingannato per più di un'ora
uomini più accorti del Presidente. Così, invece di dire
che all'Austria tedesca è vietato di unirsi con la Ger-
mania eccettochè col permesso della Francia, il che
sarebbe stato in contraddizione col principio dell' auto-
decisione, il trattato, con delicatezza di tocco, stabi-
lisce che « la Germania riconosce e rispetterà stretta-
mente la indipendenza dell'Austria, entro le frontiere
da fissarsi nel trattato fra questo Stato e le principali
potenze alleate ed associate; essa consente che questa
indipendenza rimanga inalienabile, salvo il consenso
(unanime, in virtù di un altro articolo) del consiglio
della lega delle nazioni )). Nel porre il sistema fluviale
della Germania sotto il controllo straniero, il trattato
parla di dichiarare internazionali « quei sistemi fluviali
i quali provvedono naturalmente a più di uno Stato un
accesso al mare, con o senza trasbordo da una nave
ad un'altra ». Esempi simili potrebbero essere molti-
plicati. L'onesto e chiaro scopo della politica francese,
di limitare la popolazione della Germania e di indebo-
lire il suo sistema economico è rivestito, per buttar pol-
vere negli occhi del Presidente, con l'augusto linguaggio
della libertà e dell'uguaglianza internazionale ».
246
Tutti riuscirono a buttar polvere negli occhi del-
l'arbitro. Tutti, salvo il quarto membro del consiglio
supremo, di cui nel libro dal quale ho tratto le citazioni
fin qui fatte, pallido estratto di un vividissimo quadro,
non ho trovato ricordo alcuno apprezzabile. L'autore
parla sempre del « consiglio dei quccttro », ma dipinge
le caratteristiche, la mentalità, gli scopi, le manovre di
tre soli. Per lui esistono solo il signor Clemenceau, il
Presidente ed il Primo Ministro. Conosciamo quale fosse
la pace cartaginese, di distruzione della Germania, vo-
luta dal primo; sappiamo che il Primo Ministro inglese
voleva riportare in patria la notizia di una grossa in-
dennità e del processo al Kaiser, a cui non credeva
fino ad una settimana prima delle elezioni del dicembre
1918 e tornò a non credere subito dopo. Sappiamo quali
fossero le vie per cui il Presidente a poco a poco capi-
tolò dinnanzi ai colleghi, dopo essere stato convinto,
da teologi sopraffini, di essere rimasto fedelissimo ai
quattordici punti. Sappiamo che egli ritornò in Ame-
rica indignatissimo contro i tedeschi, che avevano osato
rimproverargli la sua mancanza alla parola data al mo-
mento dell'armistizio. Ma dell'Italia e dei negoziatori
italiani nulla sappiamo, salvochè il Presidente aveva
« puntato i piedi » nella questione di Fiume, mentre
a questo estremo di puntare i piedi nessun altro l'aveva
lasciato venire, bastando di regola qualche « piccola
manovra », qualche « bella maniera » qualche « par-
venza di conciliazione » per smuoverlo dal suo terreno
e costringerlo con perfetta logica e con sua stupefa-
247
zione (bewildered) alla resa. Sappiamo che egli si trovò
solo, senza aiuto, senza conforto nella lotta per far
trionfare le idee della giustizia; ed intuiamo quale sa-
rebbe stata la forza straordinaria di quel negoziatore,
di quella nazione che gli si fosse messa a fianco ed
avesse dato contenuto reale ai principii astratti wilso-
niani, ed avesse fornito al Presidente quel sussidio di
abilità duttile e di adattamento resistente, di cui egli
totalmente mancava. Sappiamo solo che la nomea di
(( arbitro » assoluto e dispotico delle cose europee, di
cui il Presidente fu circondato in Italia e che fu accre-
ditata anche ufficialmente dai nostri negoziatori era
una leggenda. Arbitro fu solo per coloro che non arri-
varono in tempo ad impedirgli di puntare i piedi, « co-
me egli fece per la questione di Fiume », unico esempio
citato di questo terribile puntamento di piedi. Ma sap-
piamo che per tutti gli altri il a povero » Presidente
era predestinato all'ufficio dell'uomo bendato nel giuoco
a mosca cieca (the poor President would be playing
blind man's bufT in that party).
Chi scrive queste cose non è un tedesco meditante
sulle sorti della sua patria, non è un italiano il quale
voglia attribuire alla imperizia dei suoi negoziatori od
alla testardaggine di Wilson le difficoltà di Fiume; non
è un socialista il quale condanni il trattato di Versail-
les come il frutto di egoismi imperialistici e capitalistici.
£, un inglese, il quale è persuaso che il trattato è di
impossibile applicazione, il quale avrebbe voluto tra-
durre in formule concrete i principi di Wilson, e non
— 248 —
esita perciò a parlare con vergogna ed a condannare
implacabilmente i partiti e gli uomini inglesi piegatisi
alla campagna popolaristica e giornalistica a favore
delle indennità e del processo al Kaiser. È. un inglese il
quale vuole che il suo paese non solo rinunci alla in-
dennità tedesca ma anche al rimborso dei debiti con-
tratti dagli alleati verso il tesoro britànnico.
John Maynard Keynes era noto dà anni, fin da pri-
ma della guerra, agli studiosi di economia. Figlio di
un altro noto economista, John Neville Keynès, vinse
giovanissimo il concorso più arduo dell' amministrazione
britannica, quello dell'India Office, ilustrato già dai due
Mill, vi rimase per due anni e ne uscì nel 1909 quando
fu nominato fellow del King's College a Cambridge.
Nel 1912, sebbene pochissimo avesse scritto, fu chia-
mato alla direzione dell'Economie Journal, organo della
Royal Economie Society e senza dubbio la prima tra
le riviste che nel mondo sono dedicate alla scienza eco-
nomica. A lui gli economisti devono giorni di insupe-
rato compiacimento intellettuale, quando nel 1913 po-
terono leggere il suo libro su la circolazione e la finanza
nell'India (Indian Currency and Finance), libro classico,
che sta a paro con quei saggi di Ricardo, di Tooke,
di Fullarton, di Lord Overstone, che contrassegnarono
l'età dell'oro della scienza economica. Nel 1914 e nel
1915 la firma del Keynes apparve sotto alcuni saggi
descrittivi delle giornate d'agosto e sui primi mesi di
scompiglio bancario a Londra, che sono quanto di più
bello sia mai stato scritto sui problemi monetari durante
la guerra.
Dopo d'allora il silenzio s'era fatto intorno a lui nella
famiglia internazionale degli studiosi. Il governo in-
249
glese aveva veduto in lui una delle teste più fini del
paese e l'aveva voluto suo consigliere presso la teso-
reria britannica. Alla Conferenza di Parigi il Ke3'nes
rappresentò ufficialmente il tesoro inglese sino al 7
giugno 1919 e sedette come sostituto del cancelliere
dello Scacchiere nel consiglio supremo economico. Era
noto, inoltre, negli ambienti della Conferenza, che il
Keynes era il vero inspiratore dei governo nelle cose
finanziarie e che dagli alleati nulla potè vasi ottenere dal
tesoro britannico contro il suo consiglio.
Dopo cinque anni, egli rompe il silenzio con il libro
The economie consequences of the peace, (Macmillan,
London), di uno dei cui capitoli ho dato sopra un pal-
lido riassunto. Il Keynes si ritirò dagli uffici coperti a
Parigi e presso il tesoro inglese quando si convinse di
non potere più nutrire alcuna speranza di modificazioni
sostanziali alle condizioni di pace. La sua critica al
trattato è fondata esclusivamente su motivi di carattere
pubblico e su fatti noti al mondo intiero. Così egli di-
chiara nella prefazione. Ma la sua conoscenza intima
dell'ambiente in cui il trattato sorse e delle persone
che lo compilarono, la maestria, con cui ne espone le
linee essenziali e le conseguenze necessarie, la parsi-
monia nei particolari e nelle cifre, e l'abilità con cui le
poche cifre citate sono fatte parlare fanno sì che si co-
mincia a leggere il libro con interesse, lo si prosegue
con ansia crescente e lo si chiude convinti che il la-
voro per la pace e per la ricostruzione dell'Europa co-
mincia appena oggi. Verranno dopo i politicanti dei
partiti comunisti, a saccheggiare, senza entrare nello
spirito del libro, cifre e ragionamenti del Keynes, così
come fecero tutti i loro più famosi campioni, a cornili-
— 250 —
dare dal Marx, modesto plagiario e rabido denigratore
dei Ricardo, dei Senior e dei Malthus. Verranno essi
a dire che la pace di Versailles è una cattiva pace per-
chè voluta da un capitalismo per schiacciare altri ca-
pitalismi. Sta, contro le loro declamazioni, il fatto che
il libro, da cui comincia la vera discussione, la discus-
sione feconda e rinnovatrice della pace europea è stato
scritto da un economista; e sta il fatto che egli condan-
na la pace di Parigi come un tentativo vano, assurdo e
pericoloso di ricostruire un'economia morta cinquanta
anni fa, un tentativo contro cui protestano tutte le forze
vive, del capitale e del lavoro, tutte le idee creatrici del
mondo moderno.
(Dal Corriere della Sera, del 15 febbraio 1920).
IH.
LA GUERRA ITALIANA
L'EDUCAZIONE POLITICA
DEL CONTE DI CAVOUR
Francesco Ruffini ha scritto un libro, che egli ama
chiamare d'occasione, intitolato La Giovinezza del Con-
te di Cavour. (Francesco Ruffini, prof, nella R.
Università di Torino, La Giovinezza del Conte di Ca-
vour. Saggi storici, secondo lettere e documenti inediti.
Due volumi di pag. XLVIII-376 e 422, con ritratto del
Conte di Cavour nella giovinezza. Torino, Fratelli Boc-
ca, 1912). Affrettiamoci a dire che ben di rado una
raccolta di saggi e di documenti inediti è riuscita
viva, mossa, affascinante come questa e che molti
saranno gli italiani i quali vorranno, riponendo i due
volumi, ringraziare la fortuna che ha dato occasione ad
un giurista di trasformarsi in biografo della più compiu-
ta e ricca figura politica del Risorgimento.
Francesco Ruffini ha l'aria di scusarsi di aver messo
mano, lui giurista e storico del diritto ecclesiastico e
dell'idea della libertà religiosa, ad un'opera che sareb-
be spettata, per ragion di competenza, agli storici di
mestiere ed ai raffinati nella critica degli accadimenti po-
litici. E quasi vuole attribuire alla fortuna soltanto il
merito di avergli fatto scoprire carteggi importantissimi,
rivelatori, intorno alla giovinezza del Conte. Dicasi an-
cora subito che la fortuna assiste coloro che se la sanno
procacciare. Francesco Ruffini ha scoperto molte let-
254
fcere preziose di Camillo Cavour ai parenti e dei parenti
a lui, perseguendo un filone logico. La fortuna, cke ha
aiutato lui, forse non avrebbe aiutato un altro il quale
non avesse posseduto la chiave logica per aprir© il for-
ziere racchiudente l'ignorato tesoro.
La chiave logica fu l'idea della libertà religiosa, cR
cui.Rufnni è universalmente riconosciuto il più insigne
storico vivente (FRANCESCO RuFFINI, La libertà religiosa.
Voi. I: Storia dell* idea. Torino, Fratelli Bocca, 1901,
della quale opera sta per uscire la traduzione inglese),
fu la curiosità scientifica prepotente d'indagare come si
fosse formata nella mente del Cavour la celebre for-
mula : « Libera Chiesa in libero Stato ». Gli sparsi ac-
cenni che si leggono nel diario del Conte lo portarono
a Ginevra, città religiosa, anzi città di lotte religiose
ferventi, iraconde, dove i principii della libertà reli-
giosa da un lato e dello Stato credente, rigidamente con-
fessionalista, dall'altro, si tramandavano, custoditi con
gelosia e purezza, nelle famiglie discendenti dagli ita-
liani rifugiati in Svizzera all'epoca della contro-riforma
e nelle famiglie calviniste pure. Lo storico dell'idea del-
la libertà religiosa, perseguendo lo studio delle origini
della formula cavouriana s'incontrò così con le fami-
glie ginevrine strettamente imparentate col Conte di
Cavour : nei De Sellon, nei De la Rive. Fu allora che
quella che egli chiama fortuna e che è invece intuito
geniale di scienziato lo assistè : principalmente metten-
do a sua disposizione un grosso manipolo di lettere pos-
sedute dal barone Leopoldo Maurice, discendente, per
via di donna, dalla famiglia De Sellon. Da questa pri-
ma nacquero altre fortune, che gli fecero rinvenire nel-
l'archivio famigliare di Santena, nelle carte di Stato
— 255 —
di Vienna documenti importantissimi, coi quali e colle
lettere egli compose due volumi. I quali sono epistola-
rio e biografia insieme; documento storico riprodotto
con cura scrupolosa e narrazione biografica, commento
delle idee cavouriane, ricostruzione dell'ambiente fa-
migliare e storico, illustrazione degli avvenimenti e dei
movimenti politici e spirituali, in mezzo a cui visse Ca-
millo Cavour negli anni che volsero dal 1826 al 1844,
dai 16 ai 34 anni di sua età. È il Conte stesso che ci
parla, colla sua parola fresca e vibrante, col suo stile
nervoso, per nulla simigliante allo stile letterario, ac-
cademico, compassato degli epistolari anche più cele-
bri degli italiani suoi contemporanei, e ci narra i suoi
affetti, le sue passioni, gli avvenimenti a cui ha assi-
stito da spettatore entusiasta, voglioso di mescolarsi
colla gente, di discutere e di abbaruffarsi con gli altri
uomini.
Sono gli anni della preparazione, in cui egli ha tem-
prato la sua natura di uomo politico combattente, di
studioso dei problemi sociali, di finanziere rotto alle im-
prese agricole ed industriali, tetragono alle disillusioni
speculative. Sono gli anni in cui si formava, con pa-
zienza meravigliosa negli studi, nei viaggi e nelle espe-
rienze pratiche, quell'uomo che doveva far stupire, per
la rapidità della carriera, i contemporanei e far senten-
ziare gravemente e leggermente allo Sclopis che egli
era divenuto ministro « senza aver preso cognizione pra-
tica degli uomini e delle cose ».
Il libro del Ruffini dimostra stupendamente come i
contemporanei a torto si stupissero e si scandalizzas-
sero per la subita apparizione del grande uomo di Sta-
to : Camillo di Cavour era un genio politico a 20 anni
— 256 —
come a 40, ed avrebbe potuto governare il suo paese
nel 1830 così come lo governò dopo il 1850. Ma gli
anni della giovinezza non furono da lui spesi indarno.
Certamente egli non li spese soltanto vegliando sui libri.
Egli amò con ardore parecchie donne, dall'animosa ed
appassionata e colta incognita genovese, identificata ora
dal Rufnni nella marchesa Anna Giustiniani, nata Schiaf-
fino, alla misteriosa gentildonna francese, la quale ama-
va chiamare il giovane dai brillanti occhi cerulei, dai
biondi capelli, dal riso squillante, fresco ed appassiona-
to e lusingatore nel volto, così come ce lo raffigura il
ritratto onde è adorno il volume del Ruffìni e così di-
verso nell'aspetto da quello che ci apparve dappoi :
« Uitalien au teint rose et au sourire d'enfant ».
Ma le donne e il gioco e le cure mondane non gli
fecero mai perdere di vista l'ideale mèta che egli, pur
negli anni più foschi, pur nell'esilio dalla vita pubblica
al quale l'animosità del Principe e la saldezza nei prin-
cipii liberali l'aveano condannato, voleva raggiungere.
Uomo di Stato in un governo rappresentativo egli vo-
leva essere fin dagli anni più giovanili; primo ministro
responsabile davanti al Parlamento. Deriso dagli invi-
diosi, amorevolmente ammonito dai suoi, parve allora
superbo; mentre la sua era superbia radicata nell'ani-
mo di chi sentiva di possedere le qualità innate che
fanno l'uomo politico e sapeva d'averle fortificate e
raffinate con una educazione politica, quale nessun uo-
mo in Piemonte e pochissimi in Europa avevano sa-
puto procacciarsi.
Se l'era procacciata viaggiando in Francia ed in In-
ghilterra, facendo lunghe dimore in Svizzera presso suoi
— 257 —
parenti, attendendo in patria alle cure agricole dei gros-
si possessi terrieri della sua famiglia. Se io volessi rias-
sumere in una parola l'impressione più forte avuta leg-
gendo questi due volumi, direi che da essi balza fuori,
circondata di luce vivissima, una figura nuova di Ca-
millo di Cavour : il cadetto. Discendente di una antica
e grande famiglia piemontese, imparentato con la fa-
miglia savoiarda dei Des Salles, che aveva dato alla
Chiesa S. Francesco, con le famiglie ginevrine dei conti
de Sellon, protestanti cacciati di Francia dall'editto di
Nantes, dei De La Rive e coi Maurice, che avevano
tradizioni universitarie nella calvinista accademia di Gi-
nevra, nipote di un duca francese, che portava il gran
nome dei Clermont Tonnèrre, abituato a vivere in ville
settecentesche come a Santena, in castelli feudali, co-
me a Grinzane, o in latifondi che come Leri portavano
intatta fin dentro il secolo decimonono l'impronta me-
dievale della corte feudale, della massa conventuale,
Camillo di Cavour era tutt' altro che un deraciné. Anzi
egli si sentiva profondamente radicato alla terra che
l'aveva visto nascere, tanto che, mentre lo sconforto lo
assaliva e gli veniva alle labbra l'amaro rimpianto di
non essere nato inglese, subito soggiungeva : « mais je
suis piémontais... Malheur à celui qui abandonne avec
mépris la terre qui l'a vu naitre, qui renie ses frères
comme indignes de lui! Quant à moi, j'y suis décide,
jamais je ne separerai mon sort de celui des Piémontais.
Heureuse ou malheureuse, ma patrie aura tonte ma vie,
je ne lui serai jamais infidèle; quand mème je serais
sur de trouver ailleurs de brillants destinées ».
Pur essendo profondamente radicato al suolo, alla
famiglia e all'aristocrazia militare e governante, di cui fa-
17
— 258 -
ceva parte per ragion di nascita, egli era un cadetto. In
Piemonte i cadetti di famiglie nobili si facevano soldati
o preti. Egli non volle essere ne l'una cosa ne 1* altra.
L'amore del paese, la coscienza dei servizi che era chia-
mato a rendere alla patria, la piccolezza dello Stato pie-
montese, privo di possessi coloniali, gli impedirono di
andare a cercar fortuna, come talvolta facevano e fanno
i cadetti inglesi, nelle colonie d'oltremare. Volle però,
come i cadetti d'Inghilterra, conquistare l'indipendenza
economica. « Je suis cadet » scrive al congiunto pro-
fessore De La Rive, « ce qui veut dire beaucoup dans
un pays aristocratiquement constitué; il faut que je me
crée un sort à la sueur de mon front. Il vous fait bon
à vous autre richards, qui avez des millions à foison,
de vous occuper de sciences et de théories; nous autres
pauvres diables de cadets, il nous faut suer sang et eau
avant d'avoir acquis un peu d'indépendance ». L'indi-
pendenza! ecco il sogno del Conte degli anni di sua
giovinezza. Egli la sognava, non per mania di lucro;
ma perchè l'indipendenza economica gli doveva pa-
rere come la condizione necessaria per dedicarsi intie-
ramente alla cosa pubblica; ma perchè riteneva che la
classe politica non potesse realmente riuscire utile alla
patria, ove non fosse composta di persone indipen-
denti nel giudizio, non costrette ad adulare il popolo
per accattarne stipendi e favori.
È una concezione aristocratica della vita politica;
e suppone, naturalmente, che la classe politica non sia
composta di ricchi aspiranti a crescere la propria ric-
chezza impadronendosi del meccanismo governativo.
L'indipendenza cui anelava Cavour era quella di una
aristocrazia che vive dei redditi aviti od accumulati nel-
— 259 —
l'età giovane, che non cerca di accrescerli colla propria
influenza politica, e se ne giova per il bene pubblico.
Al cugino De La Rive, che egli riteneva « un des cer-
veaux les mieux organisés de l'Europe », Camillo di
Cavour scriveva incitandolo a diventare il conduttore
supremo della politica ginevrina e così diceva i motivi
dei suoi incitamenti : « Plus que tout autre à Genève
vous ètes par votre position indép end ante et par les
titres nombreux que vous avez acquis à l'estime et à
la reconnaissance de vos concitoyens, en mesure de
combattre avec avantage cette minorité factieuse qui
n'a pour elle que de l'impudence et de l'audace; qui
n'est forte que de la timidité et de la couardise de ses
adversaires. Vos paroles ont un grand poids dans le
Conseil et dans le public, et pour peu que vous vouliez
vouz en donner la peine, vous deviendrez le leader du
parti sage et raisonnable, qui veut le bien possible et
toutes les réformes salutaires ». Scritte a 25 anni,
queste parole dipingono quale fosse il concetto che del
leader politico si faceva il Conte di Cavour : indipen-
dente di censo, capo di notabili e notabile egli stesso
per intelligenza, studi e, se possibile, per tradizioni fa-
migliari, il leader doveva mettersi a capo di tutte le
riforme ragionevoli, ossia realmente utili al popolo.
Egli è assai scarso estimatore della piccola bor-
ghesia come forza politica. Parlando della rivoluzione
che nel 1841, per l'impulso della associazione del tre
marzo, abolì a Ginevra la costituzione aristocratica del
1844, accenna, al « petit noyau d'hommes à ambition
décue1, et à amour propre blessé » che insieme a « tout
ce que le cantori contient de mécontents et de mau-
vaises tètes » formava il nocciolo del partito vincitore;
— 260 —
ma dimostrava che la rivoluzione non avrebbe potuto
riuscire pel malcontento dei politicanti, irritati dalla
lunga aspettazione, se non si fossero aggiunti altri fat-
tori d'indole sociale : « Le gouvernement, qui vient
d'étre renversé, quoique démocratique de droit, était
olygarchique de fait, puisque le pouvoir se perpétuait
entre les mains d'une certaine caste, ou pour mieux
dire dune certaine société. Le résultat de l'ancien ordre
de choses irritait tout ce qui appartenait aux couches
sociales inférieures. C'est ìancienne querelle du bas
contre le haut, de la petite bourgeoisie contre l'aristo-
cratie. Le trois mars devenant puissant attira à lui toute
cette masse bourgeoise, à esprit étroit, à passions me-
squines, qui jalouse la classe supérieure, tout en dé-
ployant vis-à-vis de l'inférieure cent fois plus d*exclusi-
visme, que raristocrarie à son égard. Il parait que la
masse des boutique» se rallia plus ou moins ouver-
tement au trois mars, moìns pour obtenir un chang©-
ment politique quei pour taquiner les dames et les élé-
gants du haut ». Qui c'è tutto il concetto mediocre
che il discendente di grande famiglia si faceva della
piccola borghesia bottegaia e avvocatesca, insieme alla
consapevolezza dei doveri — troppo spesso dimenti-
cati — dei leaders verso il popolo. Egli, che riconosce
e proclama la decadenza irrimediabile delle vecchie
aristocrazie, condannate dai loro errori ad « hàter elles-
mèmes l'oeuvre de destruction » della loro classe, non
è avaro di sarcasmi verso la nuova classe politica fatta
di avvocati, professionisti, energumeni da comizio : « Je
commence par y compter (nell* assemblea costituente
ginevrina del 1842) une trentaine de trois marfc (membri
dell' associazione la quale aveva rovesciato il vecchio
— 261 —
governo aristocratico), parmi lesquels il y a dix énergu-
mènes, et vingt niais qui de tems en tems s'arrètent et
regardent avec effroi le but où leurs collègues veulent
les entrainer. Viennent ensuite vingt ou trente trem-
bleurs, conservateurs au fond du coeur, radicaux par
peur, n'ayant ni couleur ni opinion tranchée, princi-
pale cause de la difnculté du moment. Enfin il faut
ranger les conservateurs, à la tète desquels se place le
banc des professeurs. C'est la partie le plus distinguée
de l'assemblée. Elle compte dans ses rangs les hommes
les plus éminents de la répubblique, qui étaient pro-
gressifs lorsque les retardataires dominaient, et qui sont
maintenant conservateurs que l'ordre est menacé. Les
catholiques complètent l' assemblée ». Egli, a cui nes-
suna audacia politica sarà ignota, non sarà del partito
degli energumeni, ne dei radicali ciechi, incoscienti, ne
dei conservatori trembleurs, contro di cui egli parecchie
volte si eleva con accento che sa la collera. Ben diverso
da queste pallide figure, che ci rivivono dinnanzi agli
occhi nelle parole scultorie di Camillo di Cavour, egli
voleva essere il tipo del leader naturale!
Non potendo, in regime di monarchia assoluta, de-
dicarsi alla carriera politica, vi si apparecchia cercando
innanzitutto l'indipendenza economica. Si fa guidatore
di contadini, allevatore di porci a Leri; 3Ì occupa di
foresti cultura perchè la zia de Tonnèrre gli affida la cul-
tura delle sue selve; va in Stiria e nel Friuli a comprare
cavalli ed arieti da spedire in Egitto, s'interessa in una
compagnia savoiarda di navigazione fluviale, compra a
credito una ragguardevole tenuta in risaia, guadagna
una prima volta 20.000 lire e ne perde altrettante una
seconda volta a Parigi speculando in Borsa. Questo è
— 262 —
uno degli episodi culminanti messi in luce, con docu-
menti nuovissimi, dal Ruffini. Ingannato da una falsa
notizia di guerra, la quale avrebbe dovuto far precipi-
tare la rendita francese, ne vende una grossa partita,
sperando di guadagnare 200.000 lire. Invece la pace
si rafferma e la rendita aumenta, sicché egli teme di
dover liquidare l'operazione, ricoprendosi con una per-
dita di 45.000 lire. Era una perdita enorme per lui,
privo a a quel tempo (1840, a 30 anni) di beni di for-
tuna, perdita che ingoiava quel piccolo margine attivo
tra il valore della tenuta di risaia acquistata quattro
anni prima a credito e l'ammontare dei debiti contratti
per l'acquisto. Altri si sarebbe disperato ed avrebbe
incolpato la fortuna avversa, le manovre degli aggio-
tatori. Egli si apre invece col padre e gli afferma « que
la lecon que je viens de recevoir me " rendra meilleur
sous tous les rapports. Peut-ètre un jour la considérerai-
je comme un événement heureux ». Quando sa che la
perdita è di sole 20.000 lire invece delle 45.000 temute
ne è ben lieto; ma conclude che, sebbene il colpo sia
meno grave, non sarà meno profittevole : « L'effet
moral n'en sera pas moindre, je vous le promets; j'aurais
payé moins cher la lecon, mais elle ne m'en profitera
pas moins le reste de ma vie. Si j'avais réussi, ...j'aurais
maintenant plus de 200.000 francs à moi; au lieu de
cela j'en perds 20.000; mais j'ai gagné de respérience,
et pris des résolutions, qui valent 1.000.000 ». Uomini
di questa tempra hanno in pugno la vittoria. Se a treni-
t'anni il Conte di Cavour si credeva, come amorevol-
mente gli ricordava, con consigli di prudenza, il padre,
ben conscio però della grandezza del figlio, « le seul
jeune homme fait poutr devenir Mir^istre d*emiblée,
— 263 —
pour ètre banquier, industriel, spéculateur », gli atti
suoi, la sua costanza, la sua indomita energia nelle av-
versità dimostrano che egli era di quelli che possono
diventare, a lor posta, grandi agricoltori, grandi indu-
striali o banchieri, ovvero conduttori di uomini.
La storia di Camillo Cavour finanziere, iniziatore di
un'epoca nuova nella vita economica) del suo paese,
dopo il 1848, è ancora da scrivere. Chi la farà, dovrà
studiare nei libro del Ruffini i primi passi che il Conte
mosse nteir applicazione delle dottrine da lui imparate
nei libri classici, nelle conversazioni e nel commercio
epistolare col Senior, nella riflessione sui fatti econo-
mici che intorno a lui si svolgevano. È del 2 novembre
1840 una lettera al padre che è uni vero capolavoro di
analisi elegante di quell'elegantissimo problema di eco-
nomia che è il monopolio della domanda da parte di
un unico possibile consumatore. Volendo cercare il
prezzo che suo padre poteva pagare per certe acque
sopravanzanti al vicino dopo la irrigazione della sua
risaia, comincia a stabilire, eliminando ad uno ad uno
tutti i possibili concorrenti nella domanda dei coli, che
il fondo del padre era l'unico adatto a consumare
questi; e « cette vérité bien établie » ne deduce che,
avvantaggiandosi il lor fondo di un maggior valor ca-
pitale di 60.000 lire, ben potevasi offrire un canone di
1000 lire, nella sicurezza che il fondo dominante non
avrebbe saputo ricusare. Non per nulla s*era approfon-
dito, mentr'era ufficiale del genio, nelle matematiche
e nel calcolo; e di qui era passato allo studio delle
scienze sociali. Benché a 16 anni dichiarasse al Plana
che '( non era più tempo di matematiche ma bisognava
occuparsi di economia politica » per prepararsi degna-
- 264 —
mente alla carica di primo ministro a cui fin d'allora
aspirava, la forma sua mentale era rimasta diritta, lo-
gica, divinatrice. I problemi più complessi sono da lui
scomposti nei loro elementi primi, sì da renderli cri-
stallini e trasparenti. Per ora il suo è un lavorìo men-
tale, che si rivela nelle lettere famigliari, che forse ancor
meglio si rivelerà negli abbozzi di un trattato di eco-
nomia politica che io spero il Ruffini, col tempo, vorrà
pubblicare. Dopo, assurgendo dagli studi dottrinali e
dalle applicazioni ai problemi della vita privata ai
grandi problemi di Stato, egli analizzerà le forze poli-
tiche e le forze sociali esistenti in Italia e in Europa,
le scomporrà, le valuterà e saprà giovarsene pel gran-
de suo gioco della risoluzione del problema dell'unità
politica italiana.
(Da La Riforma Sociale, maggio 1912).
LA CONQUISTA DEI CONFINI NATURALI
DALLA PARTE D* OCCIDENTE
ED I SUOI INSEGNAMENTI
Perchè la repubblica di Venezia siasi per cosi lun-
ghi anni rassegnata agli infelici suoi confini di terra
con gli Stati ereditari d'Austria è problema storico, il
quale meriterebbe di essere studiato. Forse, se la Se-
renissima avesse colto ogni propizia occasione per ret-
tificare la sua frontiera; se essa fosse stata deliberata a
lottare in terraferma con quella tenacia che l'aveva resa
forte e potente sui mari, la unità d'Italia sarebbe stata
compiuta da tempo. Confini giusti e saldi non si con^
seguono senza lotte aspre, combattute con animo virile
e col proposito di rendere la vita più bella e sicura alle
generazioni venture.
In questo momento, in cui l'Italia si accinge all'im-
presa di conquistare a sé stessa i suoi confini naturali
d'oriente, non è inutile ricordare come i padri nostri pie-
montesi abbiano conquistato, con guerre asprissime,
alla nuova Italia un confine occidentale adatto ad assi-
curarci le spalle ed a far venir meno antiche, potentis-
sime ragioni di dissidio con la vicina Francia, simiglianti
a quelle che oggi ci traggono a guerra con l'Austria.
Per lo più, al Piemonte viene data gloria, e meritata
gloria, per l'opera sua di iniziatore delle guerre di in-
dipendenza'; dimenticando così che quest'opera non
— 266 —
avrebbe neppure potuto essere concepita se con un la-
voro tenace, durato un secolo e mezzo, i Principi di
Casa Savoia ed i popoli piemontesi non avessero com-
battuto e sofferto ed armeggiato per assicurare a se
stessi il confine naturale delle Alpi.
^
DUCATO
*
Di
^ SA VO tA
"^rétntCCJtfé, 'A/fa rO
fra n ce ss
^♦PV-nerolo
Km 0 io . 2 0 io
>
40 ìfe-J
' oHrmàono/à
:ìi::m
Cl' 1>V x ' -/. M S'ALUZJÓ. Alba
Conquisa succe^iveL/^^^
160 ì . Hdrchesdto di5ax
/uzzo .
1 696. P/nerolo e Perosa
\l\ò. Castel atei fino.
De/fmalo / fallano-
- Pràgelaio.
— 267 —
Oggi, a noi Piemontesi sembra naturale che il con-
fine debba andare sino al culmine della catena al-
pina. Dimentichiamo che sino al 1601 il Re Cristianis-
simo di Francia protendeva i suoi domini bene al di
qua delle Alpi col marchesato di Saluzzo, acquistato,
non senza frode, nel 1548, il quale, con Carmagnola,
giungeva a poche marce da Torino, minacciando la
capitale medesima degli Stati piemontesi. Ciò che oggi
è il saliente Tridentino per la pianura Padana e per
Verona, era allora il marchesato di Saluzzo per l'alto
Piemonte e per Trino. Carlo Emanuele I, assertore
della libertà d'Italia contro Francia e Spagna, non risto
sinché questa spina, confitta nel cuore del Piemonte,
non fosse tolta; e vi riuscì, dopo guerre e negoziati
lunghi, dopo avere, in campagne variabilmente fortu-
nose, portato le sue armi nel Delfinato e nella Pro-
venza, col trattato di Lione del 1601. Cedette, è vero,
due ampie Provincie in Savoia, la Bressa e il Bugey,
dando l'esempio ad altri cambi fortunati più vicini a
noi; ma chiuse, o quasi, le porte d'Italia a quello che
per secoli fu il nemico ereditario del Piemonte.
Per poco; che, alla fine della guerra di successione
di Mantova e del Monferrato (1627-1631), il figlio suo
Vittorio Amedeo I, di tanto a lui minore, dovette ac-
conciarsi, pel trattato di Cherasco del 31 marzo 1631,
ad aprire, anzi a spalancare un'altra porta agli eser-
citi di Francia, colla cessione di Pinerolo e della valle
di Perosa. Acquistava, è vero, il Duca di Savoia Alba,
Trino, Nizza, della Paglia ed altre 74 terre del Monfer-
rato, tolte ai due pretendenti alla successione manto-
— 268 —
vana, i Gonzaga ed il Duca di Nevers, vassallo quest'ul-
timo di Francia. Ma era un acquisto ottenuto a ben caro
prezzo. Il lettore gitti uno sguardo su una carta del Pie-
monte e vegga quale specie di indipendenza rimanesse
al nostro Stato di fronte ai prepotenti Re Cristianis-
simi. Pinerolo, subito fortificata da Francia, dominava
Torino e teneva in soggezione i suoi reggitori. Per
65 anni dovettero i Savoia mordere il freno; ed era duro
freno. Anticipando i metodi di Napoleone, il quale a
Tilsit doveva imporre invano alla Prussia di non tenere
in arme più di 40.000 uomini, Luigi XJV ordinava nel
1688 al Duca Vittorio Amedeo II di non tenere più di
2000 uomini sotto le armi. Come poi i prussiani, Vit-
torio Amedeo II finge di obbedire; ma ricorre allo spe-
diente di rinnovare ogni quattro mesi nell'anno i due-
mila uomini, sicché ne ha effettivamente seimila, di cui
quattromila sempre, ma alternatamente, in congedo.
Domenico Guerrini, lo storico della brigata dei Grana-
tieri di Sardegna, nota a questo punto con ragione co-
me tutti conoscano e lodmo l'esempio prussiano, men-
tre il nostro, più antico di 120 anni, è noto a po-
chissimi.
Così, il più grande dei sovrani della prima dinastia
dei Savoia si preparava a riconquistare il dominio delle
porte di casa sua; e le riconquistò cogliendo l'occasione
della guerra del 1690-96, combattuta contro la strapo-
tenza egemonica di Luigi XIV dalla maggior parte dei
sovrani europei stretti nella Lega cosidetta d'Augusta
dalla abilità di Guglielmo di Orange. Fu guerra terri-
bile pel Piemonte; ma gli animi dei subalpini non
potevano più a lungo sopportare l'insolenza del ne-
mico accampato con 15.000 uomini, grosso esercito per
— 269 —
quei tempi, a Pinerolo agli ordini di Catinat. Vittorio
Amedeo li fa scrivere sulla bandiera di un reggimento
valdese il motto : Patientia laesa fit furor; Louvois, in-
ferocito, ordina al Catinat : Brùlez, brùlez bien leur
pays. Sconfitto a Staff arda nel 1690, e poi di nuovo alla
M arsagli a nel 1693, malgrado prodigi di valore, il Duca
non si disamina e per sei anni continua a combattere
con alterne vicende. I contadini piemontesi lo seguono
fidenti; e quand'egli se li vede dintorno, laceri e smunti
per la molta miseria cagionata dalla guerra, distribuisce
tra di loro quanto denaro si trova indosso ed infine fa
a pezzi e dona il ricco collare dell'Annunziata che gli
pende dal collo.
Contro un sovrano ed un popolo siffatti, ostinati,
rudi e parchi, non v'è forza umana che possa preva-
lere; e persino il Re Sole deve venire a patti e cedere,
col trattato di Torino del 29 agosto 1696, confermato a
Ryswick il 10 settembre 1697, Pinerolo e la Valle di
Perosa.
Ma la liberazione dei confini occidentali d'Italia
del dominio straniero non era ancora compiuta. Rima-
nevano in potere di Francia tre teste di valle, non unite
storicamente ed amministrativamente al marchesato di
Saluzzo ed al Pinerolese; ma da secoli, alcune da 360
anni, aggregate al Delfinato francese. Come oggi i te-
deschi parlano di « Tirolo italiano », così allora i fran-
cesi discorrevano del Delfinato italiano, il « Dauphiné
aux eaux pendantes vers l'Italie » dei documenti fran-
cesi dei secoli XIV-XVH. Nella storia della formazione del
confine occidentale d'Italia, il Delfinato italiano ha una
importanza comparabile a quella odierna della Valle
delle Giudicarle e di Cortina d'Ampezzo lungo Tat-
— 270 —
tuale confine politico fra l'Italia e l'Austria. Malgrado
la perdita successiva dei due grandi salienti di Saluzzo
e di Pinerolo, il Re Cristianissimo conservava tre pas-
saggi attraverso le Alpi, grazie ai quali le sue truppe
potevano fare irruzione in Piemonte. Anche qui uno
sguardo ad una carta dei confini d'Italia basta ad indi-
care il pericolo a cui erano esposti gli Stati sabaudi.
A venti chilometri sopra Pinerolo, nella Valle del Chi-
sone, al punto in cui la valle si chiude in una selvaggia
gola, dominata dal Bec Dauphin, cominciavano le terre
di Francia : Meana, Mentoulles, Fénestrelles, Pragelato,
sino al colle di Sestrières. Subito dopo la perdita di
Pinerolo, i francesi fortificarono Fénestrelles e di lì mi-
nacciavano uno degli sbocchi principali delle Alpi sulla
pianura torinese.
Al di là del colle di Sestrières si apre un'altra val-
lata, quella della Dora Riparia. Tutta la sua testata,
con Cesana, Bardonecchia, Oulx, Exilles, Salbertrand
e Chaumont era parte del Delfinato italiano in potere
di Francia. A pochi chilometri di distanza la fortezza
di Exilles minacciava Susa e consentiva di muovere
tranquillamente un altro esercito all'assalto della pia-
nura piemontese.
Finalmente, di minor importanza ma neppure tra-
scurabile, era in mano di Francia, la testa della Val
Varaita, la quale sbocca nella pianura tra Cuneo e Sa-
luzzo. Erano ivi in mano dei francesi i quattro comuni
detti di Casteldelfino : Sant'Eusebio, Ponte Chi anale,
Chianale e Bellino.
Con un'altra guerra lunga e fortunosa, quella detta
di successione spagnuola, durata dal 1701 al 1713 e glo-
riosa per l'assedio di Torino e l'eroismo di Pietro
— 271 —
Micca, Vittorio Amedeo II conquista finalmente all'Ita-
lia i suoi confini naturali dalla parte d'occidente : il
Delfinato aux eaux pendantes vers l'Italie diventa ve-
ramente italiano e la catena delle Alpi segna alfine i
confini dello Stato piemontese.
Si può dire che, d'allora in poi — sono oramai pas-
sati due secoli — l'Italia non abbia più avuto contese
per ragioni di confini con la sua vicina d'occidente. Le
guerre rivoluzionarie e la conquista napoleonica ebbero
altra origine; e la cessione di Savoia e Nizza fu volon-
taria, voluta per conseguire un più alto fine nazionale.
Ma la tranquillità della quale ora si gode dalla parte
del confine occidentale non è forse il frutto della te-
nacia veramente ferrigna con cui sei generazioni di
Principi colsero ogni occasione e corsero i più gravi
rischi, riducendosi talvolta alla più disperata guerra di
partigiani, pur di riuscire nell'intento di cacciare lo
straniero di là dalle Alpi? Se nel 1906, a distanza di
due secoli, italiani e francesi concordi si affratellavano,
a Torino, nel ricordo comune del valore dei loro ante-
nati, non forse ciò era dovuto alla giusta causa com-
battuta dai Principi di Savoia, a cui i discendenti degli
antichi nemici rendevano commovente omaggio?
Notisi che la conquista dei confini naturali d'Italia
dalla parte occidentale non potè avvenire senza una
qualche offesa al principio di nazionalità. Se il dialetto
piemontese nel popolo e la lingua italiana nelle classi
colte erano dominanti nella parte più ricca e1 bassa dei
due salienti saluzzese e pinerolese, non così avveniva
— 272 —
nella montagna e specialmente nel cosidetto Delfinato
italiano. Ivi la parlata era indubbiamente francese; in
francese si redigevano tutti gli atti pubblici; in francese
avvenivano le discussioni e si scrivevano i verbali dei
consigli delle comunità. Linguisticamente quelli erano
territori francesi, come sarebbero francesi la Valle
d'Aosta e le Valli Valdesi.
Anche qui il Piemonte e poi l'Italia videro giusto
rispetto al metodo da tenere per la trasformazione na-
zionale di quelle popolazioni : e fu l'ossequio più largo
al loro diritto di parlare, di scrivere e di insegnare in
lingua francese. Il problema fu risoluto colla libertà.
Come in Valle d'Aosta la, parlata francese lentamente,
ma naturalmente si va ritirando dallo sbocco della val-
lata, quasi presso Ivrea, ove due secoli or sono i ver-
bali dei consigli comunali si redigevano ancora in fran-
cese, verso Aosta, per l'infiltrazione crescente di genti
della pianura e per l'influenza della cultura italiana,
così accadde nei comuni del Delfinato italiano. I mo-
narchi sabaudi riconoscono e confermano i vecchi pri-
vilegi ed usi, a cui quei comuni erano attaccatissimi.
Fra gli altri, l'uso ed il diritto di scrivere in lingua fran-
cese i verbali del consiglio comunale durano a Féne-
strelles sino al 1871. Ed in quest'anno l'usanza muore,
non per un ordine brutale del governo italiano, ma per
spontaneo volere di popolo. Ciò che i prussiani non
riuscirono ad ottenere colla forza nella Posnania dai po-
lacchi, noi italiani avemmo colla libertà. Nella seduta
del 21 marzo 1871 il consiglio comunale di Fénestrelles,
divenuta oramai italianamente Fenestrelle, si pone il
quesito se convenga continuare ad adottare, come lin-
gua ufficiale, il francese, secondo la tradizione. E si de-
— 273 —
libera di sostituirla con l'italiano « qui est la langue de
notre patrie ».
Questo semplice e commovente trapasso dal francese
all'italiano, come lingua ufficiale degli atti verbali di
un comune di montagna è un trionfo dell'incivilimento
concepito alla maniera nostrana; è un trionfo della per-
suasione spontanea e della nostra virtù di espansione.
Io sono certo che se l'Italia racchiuderà nei suoi nuovi
confini orientali qualche minoranza di lingua tedesca
o slava, l'unico mezzo di assimilazione che noi por-
remo in opera sarà quello del rispetto alla lingua, alle
tradizioni, agli usi ed agli interessi delle minoranze in-
cluse nei confini del regno. È il metodo che a noi diede
magnifici frutti verso il confine occidentale; ed è il solo
il quale sia degno di una nazione, come l'italiana, ne-
mica di ogni oppressione e di ogni persecuzione.
(Dal Corriere della Sera, 31 maggio 1915).
18
PER LE PORTE D'ITALIA
Soldati Piemontesi! Soldati Italiani!
Chi di voi, contemplando la maestosa catena delle
Alpi, che cinge tutt' intorno il nostro Piemonte, non si
è sentito sicuro per la protezione che quelle montagne,
dominate per lunghissimo tratto dalla punta del Mon-
viso, danno alla nostra indipendenza ed alla nostra li-
bertà?
Quante volte non avrete voi pensato : di qua dal
Monviso gli Italiani, di là i Francesi, amendue contenti
nel proprio paese e viventi accanto da buoni amici, de-
cisi a stare ognuno a casa propria, coltivando i campi,
lavorando nelle fabbriche e curando V allevamento e la
educazione delle famiglie!
Eppure, le cose non andarono sempre così.
Francesi ed Italiani, che oggi sono amici e fratelli,
un tempo si combatterono e forse si odiavano. E la
causa di queste discordie, oggi fortunatamente cessate,
era sempre la stessa : non si volevano rispettare, spe-
cialmente da parte dei potentissimi Re di Francia, i
confini naturali, che i nostri piccoli Duchi di Savoia,
diventati poi grandi Re di Sardegna e d'Italia, volevano
portare fino alla linea divisoria delle Alpi.
I nostri Duchi, sovrani di un piccolo ma animoso po-
polo, combatterono per centinaia di anni per assicurarsi
il confine delle Alpi. Sarebbe troppo lungo narrarvi
tutte quelle guerre. Vi ricorderemo solo alcuni avveni-
menti principali.
— 276 —
Che cosa direste, voi che conoscete bene il Piemon-
te, se il Monviso e le vallate del Po e della Varaita e
la pianura sottostante fino a Saluzzo ed a Carmagnola,
appartenessero non alVItalia ma alla Francia? Voi di-
reste che una simile condizione di cose sarebbe intolle-
rabile; che il non essere padroni delle porte di casa
nosha, che il lasciar arrivare gli eserciti stranieri fino
a Carmagnola minaccerebbe gravemente Torino, la ca-
pitale del Piemonte, e rischerebbe di tagliare in due
il nostro paese, impedendo le comunicazioni fra Cuneo
e Mondovì da una parte e Torino, Pinerolo, Susa, Biel-
la, Ivrea, Aosta dall' altra parte.
Ciò compresero i nostri vecchi; ma fu solo dopo lun-
ghe lotte, guerre e trattative che il Duca Carlo Ema-
nuele I nel 1601 riuscì a far ripassare le Alpi ai Francesi
col trattato di Lione.
Ma i Re di Francia, che erano ostinati e volevano
conquistare il dominio dell'Europa, come oggi vogliono
fare gli Imperatori di Germania e d* Austria-Ungheria,
nel 1631 conquistarono Pinerolo, con le Valli del Chi-
sone e del Pellice, e subito costrussero a Pinerolo una
formidabile fortezza da cut minacciavano ad ogni mo-
mento Torino. Il Piemonte era quasi diventato vassallo,
servo della Francia, e, finche Pinerolo era francese, noi
piemontesi dovevano mordere il freno. Di nuovo i Du-
chi di Savoia, assecondati da tutto il popolo, nobiltà,
borghesia, contadini, colsero ogni occasione per libe-
rarci da questa schiavitù. La più lunga delle guerre
combattute per liberare Pinerolo fu quella che durò dal
1690 al 1696. Sei lunghi anni di guerra, con le battaglie
della Staffarda e della Marsaglia, sostennero i Piemon-
tesi contro le agguerrite truppe del Maresciallo Catinai,
— 277 —
il quale aveva ricevuto ordine dal suo Ministro della
Guerra: Bruciate tutto, bruciate bene in Piemonte! Ma
i nostri bravi soldati, quasi tutti contadini, non si per-
dettero di coraggio, scalzi e laceri seguitarono a com-
battere, sostenuti dalla presenza e dall'aiuto del loro
Duca Vittorio Amedeo II, il quale giunse a spezzare
fra di loro il suo ricco collare dell' Annunziata perchè
potessero comprare di che sfamarsi, e tennero testa ai
nemici. Finalmente, nel 1696, colla pace di Torino, Pi-
nerolo ci venne restituita e fu così chiusa un'altra gran-
de porta d'Italia.
Ne rimanevano aperte ancora tre, molto più pìccole
di quelle di Saluzzo e Pinerolo; ma capaci sempre di
lasciar passare le truppe straniere per venire ad inva-
dere il nostro caro Piemonte. Queste tre porte, che si
trovavano ancora in mano dei Francesi, erano Castel-
delfino, su su in capo alla Valle Varaita, da cui i ne-
mici potevano calare nella pianura fra Cuneo e Saluz-
zo; il Pragelato con la fortezza di Finestrelle, da cui
si poteva discendere, per la valle del Chisone, su Pi-
nerolo; e il Delfinato Italiano, con Oulx, Cesano, Bctr-
donecchia ed Exilles, da cui per la valle della Dora Ri-
paria si era a quattro passi da Susa.
Di nuovo i Piemontesi si decisero ad andare in guer-
ra per liberare definitivamente le Alpi dalla dominar
zione straniera; e fu guerra lunga e durissima, che durò
dal 1701 al 1713 e che tutti voi conoscete per l'assedio
di Torino e per l'eroismo di Pietro Micco, oscuro figlio
del popolo, come popolani e contadini erano quelli che
avevano giurato, insieme al loro Duca, di liberare il
Piemonte. Alla pace di Utrecht, nel 1713, Casteldelfino,
Pragelato ed il Delfinato furono ceduti al Piemonte ed
il confine delle Alpi era raggiunto.
- 278 —
Dopo d'allora, i confini delle Alpi dalla parte del
Piemonte sono stati sicuri; e noi da oramai duecento
anni siamo tranquilli nelle nostre case, perchè i nostri
Vecchi non hanno temuto di sacrificare le loro vite ed
i loro beni per il vantaggio dei loro figli e dei loro di-
scendenti. Noi oggi siamo amici colla Francia, perchè
allóra si ebbe il coraggio di farla finita con la prepo-
tenza dei loro Re, i quali volevano dominare su di noi.
E noi sappiamo benissimo che i francesi sono contenti
di essere tornati a casa loro; ed i loro uomini migliori
ce lo dissero francamente nel 1906, quando insieme e
di buon accordo festeggiammo il secondo centenario
dell'assedio di Torino.
Vorremmo adesso noi essere da meno dei nostri
vecchi? // Trentino, che è oggi dominato dall'Austria
ed è abitato da italiani, desiderosi di riunirsi alla ma-
drepatria, è per la Lombardia ed il Veneto ciò che un
tempo era per noi Pinerolo in mano dei francesi; ed il
Friuli orientale, con l'Istria, Gorizia, Gradisca e Trie-
ste, abitati anch'essi da italiani, ci ricordano i tempi
in cui Saluzzo con Carmagnola era in possesso di stra-
nieri. Allora Torino era esposta ad un colpo di mano
dei francesi, che potevano tranquillamente in tempo di
pace ammassare truppe al di qua delle Alpi; adesso
Brescia, Verona, Vicenza, Padova, Venezia, Udine so-
no esposte agli assalti degli austriaci, i quali possono
accumulare eserciti a Trento, Riva e Gorizia e venirci
addosso quando meno ce lo aspettiamo.
Allora i nostri Duchi erano indipendenti solo di no-
me; ma in realtà dovevano obbedire ai Re di Francia.
Adesso. l'Italia negli ultimi dieci o quindici anni ha do-
vuto subire umiliazioni senza fine. Tutti sanno che ab-
biamo dovuto le ultime due volte rinnovare l'alleanza
— 279 —
con la Germania e l'Austria per forza, sotto la minaccia
di una dichiarazione di guerra da parte delle nostre al-
leate. Tutti sanno che, all'epoca della guerra libica, il
Duca degli Abruzzi dovette rinunciare a bombardare i
porti turchi dell'Adriatico, e la nostra flotta non potè
fare nulla contro Salonicco ed i Dardanelli, perchè
l'Austria aveva posto il veto. E noi dovemmo chinare
la testa perchè noi avevamo due porte d'Italia — il
Trentino ed il Friuli con V Istria — in mano all'Austria.
La nostra guerra non è una guerra di conquista, ma
di liberazione. Quando avremo ricacciato per sempre
gli Austriaci al di là delle Alpi, noi vivremo in pace
con loro. Noi non vogliamo opprimere nessuno, ma
non vogliamo essere oppressi. Ma perciò abbiamo bi-
sogno che la cerchia delle Alpi sia nostra. Quando l'a-
vremo conquistata, noi potremo dire di aver compiuto
il nostro dovere. / nostri padri faticarono 150 anni per
liberare le Alpi piemontesi dal giogo straniero, e so-
stennero guerre sanguinose e devastazioni per intieri
decenni. Oramai il dado è gettato; se noi non voglia-
mo che la pianura veneta e la lombarda siano deva-
state, che le soldatesche austriache e tedesche violino
le nostre mogli e le nostre sorelle e le nostre figlie, noi
dobbiamo opporre saldo e animoso il petto contro il
nemico.
Ricordate, soldati, che voi conquisterete così pace
e sicurezza per voi e per i vostri discendenti, per ora
e per i secoli avvenire; e ridonando all'Italia le sue
porte, la renderete veramente amica di tutti i suoi vi-
cini! Con la guerra d'oggi, voi create la pace duratura
del domani!
(Pubblicaz. (N. 1) deH'/sfitufo Nazionale per le Bi-
blioteche dei soldati, Torino, 1916).
CHE COSA SIGNIFICA
LA LOTTA SUL TRENTINO
Gli avvenimenti militari, i quali si sono succeduti
recentemente nel Trentino, avranno almeno questo be-
neficio : di far comprendere a tutti, anche a coloro i
quali hanno bisogno di toccare con mano prima di cre-
dere, quanto fosse iniquo il nostro confine e quanto la
nostra guerra sia stata un necessario seguito delle guerre
che i nostri padri ed avi combatterono per l'indipen-
denza d'Italia.
L'Austria possedeva e possiede le porte d'Italia!
Questa la verità, che oggi anche i ciechi sono costretti
a vedere. L'abitudine storica di secoli, le gelosie fra
potenze italiane rivali, l'abilità degli stranieri domina-
tori, la minore potenza degli Stati stranieri confinanti!
avevano a volta a volta addormentato gli italiani e li
avevano persuasi che il Trentino in mano dell'Austria
ed il confine orientale capricciosamente serpeggiante
al di qua dell'Isonzo su terra piatta e sottoposta al for-
midabile baluardo del Carso non fossero un pericolo
quotidiano, sempre imminente. Venezia, nei suoi se-
coli di gloria e di forza, badava al mare e poco si cu-
rava se ad Oriente i conti di Gorizia possedessero più
o meno terre o se il vescovo-principe di Trento pre-
stasse un nominale omaggio all'imperatore di nazione
germanica piuttostochè al Doge della laguna. Il sa-
— 262 —
liente Tridentino in mano ad un principe ecclesiastico
poteva parere persino un baluardo contro le ambizioni
dei signori di Lombardia. E poi! da tanti secoli la
Germania era così divisa e debole, l'imperatore di na-
zione germanica, sebbene si dicesse erede del titolo
degli imperatori romani e conservasse una vaga pretesa
all'eminente dominio d'Italia, era così lontano, era di-
venuto tale un fantasma che si poteva comprendere co-
me in Italia nessuno se ne curasse.
Ne gli Absburgo avevano ancora riunito i loro Stati
ereditari in un corpo compatto di Stato, pericoloso ai
vicini per le sue mire di espansione. All'Austria si guar-
dava da tutti con fiducia e con riconoscenza, come al
baluardo d'Europa contro l'invasione mussulmana.
La rivoluzione francese, come tutti sanno, cambiò
questo stato di cose. Quando l'Italia si risvegliò dal so-
gno napoleonico, la situazione ai confini nord-orientali
era profondamente mutata : scomparsa la Repubblica
di Venezia; morta la larva di impero di nazione germa-
nica; scomparsi molti dei vassalli semi-indipendenti del-
l'impero e, fra essi, scomparso il pricipato vescovile di
Trento; gli Stati ereditari d'Austria, prima slegati tra
loro ed in parte compresi ed in parte esclusi dall'im-
pero di nazione germanica, trasformati in un nuovo
Impero d'Austria, e cioè in uno Stato ancora variegato
per razze, ma compatto per formazione geografica e
tenuto saldamente insieme da un corpo di impiegati
devoti alla dinastia. Con l'Austria padrona del Lom-
bardo-Veneto, la sorte dell'Italia pareva decisa per
sempre: diventare la lunga mano, quasi un molo get-
tato nel Mediterraneo a profitto dei paesi germanici.
Mezzo secolo di sforzi eroici valsero a distruggere in
— 283 —
parte il sogno tedesco : l'unione dell'Italia in un solo
regno dimostrò la ferma volontà degli italiani di vi-
vere liberi ed indipendenti.
Ma erano sul serio liberi ed indipendenti? La storia
della triplice alleanza dimostra il contrario. Fu neces-
sità allearsi coi nostri oppressori di ieri; ma fu neces-
sità dolorosa, la quale è la prova che noi non avevamo
il potere di decidere liberamente della nostra azione e
dei nostri destini. L'Italia nuova, in ciò dissimile ed in-
feriore alla Repubblica Veneta, aveva ai propri confini
nord-orientali un impero austriaco forte, popoloso, esso
medesimo la lunga mano di un altro nuovo impero,
quello germanico, ancora più forte, compatto ed am-
bizioso. E questi due imperi avevano le porte d'Italia
in poter loro. Dalle Alpi, dalle testate delle vallate
prealpine, dal bastione dell'Isonzo, essi potevano scen-
dere su di noi, e minacciarci perennemente per costrin-
gerci ad arrenderci al loro buon volere. All'Italia invero,
la nazione germanica, che da se stessa si credeva de-
stinata alla dominazione del mondo, assegnava una par-
tecipazione al banchetto : la Corsica, Nizza, forse una
parte dell'Africa francese. Ma a che sarebbe valso tutto
ciò? A renderci vieppiù vassalli dei nostri alleati, i
pupilli ed i soci minori della nazione dominatrice, la
quale, per essere sicura della nostra obbedienza, avreb-
be tenuto le chiavi di casa nostra in suo possesso.
Chi ricorda la storia, vede riprodursi la situazione in
cui durante il secolo XVII ed il principio del secolo XVIII
si trovò il Piemonte di fronte alla monarchia francese,
giunta allora al fastigio della sua potenza con Luigi XIV.
Anche allora i re francesi offrivano ai principi di Casa
Savoia allargamenti verso la Lombardia, isole e regni
— 284 —
fuori d Italia. Ma volevano tenersi in mano le porte che
dalle Alpi scendono sulla pianura piemontese : Saluzzo,
Pinerolo, il Delfinato italiano, il Pragelato, Casteldel-
fino. I nostri Principi, prima di rivolgersi ad oriente e
mangiare le foglie del carciofo italiano, vollero assicu-
rarsi le spalle; e con guerre lunghe ed incessanti, alcune
delle quali durarono dieci e più anni, riuscirono a con-
quistare a se ed all'Italia il confine delle Alpi.
Da allora in poi 1* Italia fu sicura della porta d'occi-
dente. Chi di noi oserà dire che gli stessi sacrifici non
si debbano lietamente sopportare per assicurarsi le
spalle dalla parte d'oriente?
Chi rifletta a questa vicenda di cose, non può non
rimanere convinto che la nostra fu una guerra imposta
dalla dura necessità, una guerra di difesa e non di
offesa.
Ancor oggi all'estero, e purtroppo tra qualche ita-
liano tremebondo e troppo memore delle vecchie in-
clinazioni neutraliste, si mormora : la guerra italiana è
diversa dalla guerra che si combatte al confine di Fran-
cia. Francesi e belgi furono aggrediti e difendono il
suolo della loro patria; e con essi lo difendono gli al-
leati inglesi. Ma noi siamo stati gli aggressori, perchè
fummo noi e non gli austriaci a pretendere il territorio
che apparteneva alla Casa d'Austria.
Mai fu detta cosa tanto sostanzialmente falsa.
Aggressore ed offensore è colui, il quale pretende
tenere soggette popolazione indubbi amente di stirpe
e di lingua italiana, che^ la nazione italiana risorta è
deliberata a stringere al suo seno.
Aggressore è colui il quale vuole giovarsi di queste
terre nostre per avere le porte aperte in casa altrui, per
— 285 —
esercitare un alto dominio, che il tempo avrbbe reso
sempre più assoluto, appunto perchè circondato dalle
apparenze della indipendenza.
Aggressore è colui il quale pretende di essere, in
nuove circostanze storiche, l'erede di innocui principati
antichi ed afferma che queste eredità stanno al disopra
della volontà dei popoli, delle ragioni della lingua e
delle esigenze della difesa nazionale.
Aggressore è colui il quale non ci vuole amici, ma
pretende tenerci vassalli sottomessi.
Noi non siamo nemici dei tedeschi e degli austriaci
perchè tali. Sarebbe un sentimento irragionevole. Noi
vogliamo soltanto che essi non siano padroni in casa
nostra. Ci siamo decisi oggi a combatterli, perchè era-
vamo persuasi che questo era il momento più propizio
per respingere l'offesa permanente, continua, esercitata
da essi contro la nostra reale indipendenza e contro
quelle maggiori offese che l'avvenire ci avrebbe ar-
recato.
Supponiamo che Germania ed Austria fossero riu-
scite nel loro tentativo di conquistare la supremazia
suir Europa. Ed il tentativo avrebbe certamente avuto
maggiori probabilità di riuscita se non fossimo interve-
nuti noi per tempo ad immobilizzare parte delle forze
austriache. Lo confessò l'arciduca Federico nel suo ira-
condo proclama alle truppe austriache nell'atto di ini-
ziare l'offensiva del Trentino : « a quest'ora, senza il
tradimento degli Italiani, noi avremmo già avuto la
pace! ». E sarebbe stata la pace austro^tedesca; la pace
la quale avrebbe fondato lai grande federazione dell'Eu-
ropa di mezzo (Mirtei Europa) da Amburgo sino al
Golfo Persico.
— 286 —
Quale sarebbe stata la nostra situazione dopo una
pace siffatta?
Creda chi vuole che l'Austria avrebbe condisceso a
donarci il formidabile saliente del Trentino, a spo-
gliarsi delle fortezze, costrutte con decenni di lavoro e
con centinaia di milioni di lire di spese, ad abbando-
nare la linea aggressiva dell'Isonzo! Ai traditori — e
noi agli occhi dell'Austria eravamo dei traditori — non
si dà il prezzo del tradimento; sibbene si dà disprezzo
e punizione.
Con qualsiasi pretesto, una spedizione punitiva sa-
rebbe stata allestita contro l'Italia; e rufro l'urto formi-
dabile degli eserciti uniti del nuovo impero medio-
europeo avrebbe gravato sulle nostre forze, sole, isolate,
situate in una posizione strategica di gran lunga infe-
riore. Inglesi, Francesi e Russi avrebbero lasciato fare;
tanto, che cosa avrebbe importato ad essi delle sorti di
un popolo che non si sapeva battere?
La conclusione della guerra combattuta in così di-
sgraziate condizioni non poteva essere dubbia: l'Italia
sarebbe diventato un paese di protettorato reale, se non
formale, germanico. Venezia e Genova e Spezia avreb-
bero cessato di essere porti italiani. Sarebbero dive-
nuti per il commercio e per la dominazione marittima
del Mediterraneo a prò della Germania, quello che è
ora Amburgo e quello che i tedeschi vorrebbero fare
di Anversa e di Rotterdam.
Gli italiani avrebbero dovuto ricominciare la lunga
e dolorosa fatica delle cospirazioni, delle rivolte, dei
martiri per riacquistare la perduta indipendenza.
L'Austria, memore sempre della gloria acquistata con
le forche di Belfiore, avrebbe tornato ad applicare
— 287 —
i metodi che in passato le furono tanto cari e che nel
Belgio, nella Serbia, nella Dalmazia, in Boemia oggi
sono freddamente usati dagli austro-tedeschi contro gii
uomini più invitti delle razze che essi vogliono domi-
nare o fare scomparire.
E, forse, lottare contro gii adescamenti di vantaggi
materiali ai più torpidi ed il terrore della forca ai più
generosi, sarebbe diventato impossibile. A chi chie-
dere aiuto, quando la Francia fosse scomparsa dal no-
vero delle grandi nazioni, l'Inghilterra avesse perduto
il dominio dei mari e la Russia fosse stata risospinta in
Oriente?
La disperata situazione dell'Italia sarebbe stata così
evidente, che non avrebbe neppure fatto d'uopo al-
l'Austria combattere una guerra per raggiungere l'in-
tento. Isolata e sfiduciata, l'Italia insensibilmente
avrebbe condisceso a trasformare a poco a poco, sotto
la pressione di minaccie militari-diplomatiche ignorate
dal gran pubblico, i vincoli di apparente alleanza in
vincoli di reale unione e di ancor più reale sudditanza
di noi più deboli agli altri più forti.
Coloro che in Italia si spaventano e si lagnano delle
imposte nuove che dovremo pagare per far fronte alle
spese della guerra, dimenticano che delle imposte ci
si può lamentare soltanto quando ad esse non corri-
sponda alcun vantaggio o servizio fornito dallo Stato
ai nostri cittadini. Re Bomba faceva scrivere dai suoi
ministri opuscoli per dimostrare che i napoletani erano
il più felice popolo della terra, perchè pagavano poche
imposte; mentre, secondo lui, i piemontesi dovevano
ritenersi prossimi alla rovina, perchè il conte di Cavour
— 288 —
ogni anno aumentava le imposte per correre dietro alla
fìsima della indipendenza italiana. Ma i fuorusciti napo-
letani a Torino vittoriosamente replicavano che i pie-
montesi traevano vantaggio materiale e morale dalle
imposte gravi; perchè ottenevano, in cambio di esse,
ferrovie, strade, istruzione e quella preparazione mili-
tare che doveva portare nel 1859 alla cacciata dello stra-
niero dall'Italia.
Oggi noi paghiamo imposte, è vero; ma per procu-
rare a noi stessi giustizia, sicurezza, scuole, strade, fer-
rovie ed un esercito il quale difenda il suolo della no-
stra patria. Forsechè cessando di essere un popolo li-
bero, cesseremmo di pagare imposte? Quando mai si
è veduto che i popoli vassalli siano stati esenti da im-
poste? La storia anzi ci ammaestra che su di essi gra-
varono sempre imposte durissime ed odiosissime.
Quand'anche le imposte rimanessero uguali, esse sa-
rebbero più pesanti di prima per i contribuenti, perchè
impiegate a mantenere un esercito altrui ed a fare spese
fuori del paese. Quando l'Austria dominava nel Lom-
bardo-Veneto erano ogni anno centinaia di milioni che
i contribuenti italiani pagavano a Vienna senza rice-
vere nulla in cambio : vero tributo di vassallaggio che
gli austriaci esigevano col pretesto di far contribuire
i lombardo-veneti ad una parte delle spese generali
dell'impero.
Il pagar tributo allo straniero non è solo odioso dal
punto di vista morale, ma anche dal punto di vista ma-
teriale. È ricchezza che, invece di rimanere nella na-
zione, è pagata a favore della nazione dominatrice. E
poiché l'Austria ha molte Provincie povere, ognuno
— 289 —
comprende quanti pretesti essa troverebbe per gravare
di balzelli sproporzionati le ricche Provincie italiane,
specie dell'Alta Italia.
Balzelli di denaro, e tributo di sangue. Chi conosce
lo strazio delle famiglie italiane del Trentino, di Trie-
ste e dell'Istria, i cui figli e padri furono mandati a
morire in Galizia ed in Serbia per una causa non loro?
E gloria morire per la patria; ma è strazio inenarrabile
morire per la patria altrui e contro la patria nostra!
Perciò noi, combattendo sulle balze del Trentino e
sulla fronte dell' Isonzo, difendiamo il nostro suolo, i
nostri averi, le nostre case, le nostre famiglie. Difen-
diamo ciò che a noi sovratutto è caro, la nostra lingua,
la nostra esistenza come popolo indipendente, la no-
stra volontà di vivere non come animali beatamente
tenuti all'ingrasso, ma come uomini liberi, uniti da vin-
coli volontari in una nazione che ha dietro di sé alcuni
millenni di storia e di gloriose tradizioni, e che vuole
continuare a vivere in perpetuo.
(Pubblicazione (N. 29) dell'Istituto Nazionale per
ìe Biblioteche dei soldati. 1916).
19
ACHILLE NECCO
Giovanni Lorenzoni, segretario generale dell'Istituto
internazionale d'agricoltura — ora, per arruolamento
volontario, sottotenente negli alpini — così mi narra in
una lettera angosciata la dolorosa notizia appresa nella
prima missione avuta sulla più avanzata linea del no-
stro frante :
«Arrivo in un'alta valle circondata da picchi altissimi. Trovo
delle truppe e mi dicono che il giorno 9 era morto 1) vicino, colpito
da una palla in fronte, mentre perlustrava un canalone, un ufficiale
degli Alpini. Ne chiedo il nome. Figurati il mio profondo dolore
quando sentii ch'era Achille Necco !
« Si trovava colà solo dal 26 agosto. Ma era già riuscito a con-
quistarsi la stimai e la simpatia dei suoi colleghi e l'affetto dei suoi
soldati.
« Uno degli ufficiali suoi colleghi diceva scultoriamente di lui-
ch'era un «valoroso di tutti i giorni». Sempre pronto, volonteroso,
andava avanti a tutti, incoraggiava i suoi uomini colle parole e
coli 'esempio. Mori il giorno 9 al mattino. I suoi alpini lo calarono
giù nella valle; poi un corteo di soldati lo accompagnò nel paese
più vicino.
« Or egli è 11 sepolto nel cimitero di Padola, la fronte anche ora
rivolta al nemico ; le belle montagne intorno gli fanno custodia e
il cielo gli sorride come a uno dei molti eroi di questa guerra che
tanti nobili fasti ha scritto, e che ha portato molto in alto l'anima
italiana.
« Ho visitato oggi la sua tomba segnata da una croce di legno
ed ornata da una corona. Sulla croce scrissi nome, cognome e qua-
lità, ed aggiunsi queste parole : « Era forte e sapiente, valoroso e
buono. Fu proposto per la medaglia al valore».
Così scrive chi è stato per parecchi anni il capo ama-
to di Achille Necco all'Istituto internazionale di agri-
— 292 —
coltura. Io, che lo ebbi studente, amico, collaboratore
amatissimo in questa rivista, compilatore del mio corso
di lezioni universitarie, fui sempre sicuro che egli avreb-
be fatto, senza sfoggio, con semplicità e spontaneità,
grande onore al suo paese. Non lo avevo sentito parlare
in favore della guerra con l'Austria; ma non mi meravi-
gliai il giorno che mi comunicò di non avere voluto at-
tendere venisse il turno della chiamata della 3a cate-
goria della sua classe e di avere fatto domanda di es-
sere nominato sottotenente della territoriale. Del pro-
posito attuato non menava vanto, poiché aveva obbe-
dito soltanto alla voce del dovere. E quando, dopo il
periodo di istruzione in un battaglione di alpini nella
Carnia era stato assegnato ad un reggimento di fan-
teria per l'istruzione delle reclute, parendogli il nuovo
posto più arretrato in confronto alle prime file, aveva
chiesto di essere nuovamente assegnato ai suoi alpini.
Non per sfoggio di bravura; ma perchè, essendo stato
prima nel luogo del pericolo, la coscienza gli diceva
che doveva seguitare ad essere là dove era stato prima-
mente mandato dai suoi capi. Così, serenamente, per
un senso altissimo e silenzioso del dovere, egli offriva
la sua vita alla patria. Apparteneva, egli di umile fa-
miglia di lavoratori, alla razza dei gentiluomini piemon-
tesi che accorrevano, senza discutere, sotto le bandie-
re, ogni volta che il loro Re li chiamava a versare il
sangue per la difesa del paese.
All'arnica suo dott. Attilio Garino-Canina, il giorno
prima di un fatto d'arme a cui doveva prendere parte,
scriveva dandogli alcune disposizioni di ultima volontà
rispetto alla sua biblioteca : « Se questa mia ti giungerà,
ti sia d'annuncio della mia morte sul campo o in qual-
— 293 —
che ospedaletto avanzato. Te la scrivo ora, mentre sto
per raggiungere la mia destinazione. Un mio collega,
partito con me da Pinerolo, è già morto : potevo be-
nissimo essere stato designato io al suo posto. E ti
scrivo per pregarti di salutarmi tutti gli amici coi quali
speravo di festeggiare il ritorno. Ti confesso che il sa-
crifìcio della vita non mi è stato lieve; ma non lo rim-
piango, perchè sentivo che l'esporla era un dovere mo-
rale ».
Come andò incontro serenamente alla morte per un
ideale, così serenamente egli trascorse gli anni troppo
brevi della sua vita. Aveva cominciato ad essere noto
tra gli studiosi di cose statistiche ed economiche alcuni
anni più tardi dei suoi coetanei; ma gli amici, i quali
sapevano quanto dura fosse stata la sua giovinezza, stu-
pivano dei risultati del suo lavoro. Fino a quando fu
chiamato a Roma, redattore all'Istituto internazionale
di agricoltura, Achille Necco aveva studiato e lavorato
superando difficoltà che ad altri sarebbero parse insor-
montabili. Gran parte del lavoro preparatorio, fatico-
sissimo e paziente, per gli scritti sui prezzi delle merci
e sui valori di borsa in Italia fu compiuto rubando le
ore al sonno e riducendo a pochi minuti la colazione
per potere, durante l'ora meridiana, che il modesto uf-
ficio d'ordine alla Cassa di risparmio di Torino gli la-
sciava libera, correre nelle biblioteche o negli uffici pub-
blici dove trovava il materiale per i suoi lavori.
Ai nostri occhi, che sapevano con quanto disagio egli
lavorasse, la sua continua allegria, la naturalezza tran-
quilla con cui egli compieva gli sforzi maggiori, tene-
vano del miracoloso. Era forte, sobrio, non aveva vizi;
e lavorava per il padre, per la madre, per il fratello e
— 294 —
per le sorelle. 1 auto accanita e materiale era stata la
sua fatica di ogni giorno, e tanto care ed afferrate con
gioia le ore che aveva potuto dedicare allo studio, che
la chiamata all'istituto intemazionale di agricoltura, do-
ve pure gli affidarono subito compiti delicati e conti-
nui, parve a lui un rinascere alla vita. Parlava con le-
tizia dell'agio che il nuovo ufficio gli dava di applicarsi
a fatti e studi per lui interessanti e di trascorrere alcune
ore di ogni giorno nella disinteressata fatica intellettua-
le. Seguitò a studiale ed a scrivere, perchè lo studio
gli piaceva. Ne, come tanti fanno, studiava e scriveva
colla mente intenta alla carriera accademica da percor-
rere. Gli amici che lo apprezzavano, gli studiosi che lo
leggevano erano sicuri che un giorno gli sarebbe toc-
cata una cattedra, meritato guiderdone dei suoi studi
coscienziosi. Egli invece non ne parlava; non aveva
impazienze; e niente in lui ricordava il tipo comune del
concorrente universitario. Mentre altri novera a mesi il
tempo occorrente per condurre a termine l'iniziato « ti-
tolo » da concorso, egli discorreva tranquillamente de-
gli anni che ancora gli sarebbe costata la compilazione
del suo lavoro sui valori di borsa in Italia. Lavorava
non per ottenere un fine pratico col suo lavoro, ma per-
chè riteneva che il lavoro dovesse riuscire compiuto en-
tro i limiti in cui lo aveva concepito.
Perciò i suoi scritti resteranno nella nostra lettera-
tura statistico-economica. Dovranno essere continuati;
ma il suo punto di partenza rimarrà fermo.
Anche il suo scritto minore, su alcuni meno avver-
titi aspetti del movimento della popolazione in Italia,
che fu quasi un lavoro d'occasione e doveva essere rie-
laborato da lui, affrontava un problema meritevole di
— 295 —
essere approfondito. Mosso forse dalle sue vive condi-
zioni religiose, gittò, tra i primissimi, un grido d'allar-
me quando i dati dell'ultimo censimento gli additarono
la diminuzione preoccupante della natalità nel na-
tivo Piemonte, inquinato dalla mala vicinanza e dal-
1* importato' esempio della sterilità francese, e segnalò
le ragioni morali del morbo che da lontano minaccia
l'avvenire demografico del nostro paese.
Ma, sovratutto, egli tracciò un solco fecondo nel
terreno, in Italia ancora male dissodato, delle indagini
sui prezzi delle merci e dei valori.
Mancava per l'Italia un numero indice dei prezzi
delle merci, che corrispondesse a quelli del De Foville
per la Francia, dell' Economist e del Sauerbeck per l'In-
ghilterra e di altri insigni maestri per i principali paesi
del mondo. Alcuni l'avevano iniziato; ma poi, impa-
zientitisi, avevano abbandonato a mezzo l'opera. Achil-
le Necco*, che era un lavoratore perseverante, acuto,
preciso, volle compiere il lavoro necessario e desidera-
to; e sarà sempre vanto di questa rivista di averlo in-
coraggiato nel pubblicare il suo saggio sulla curva dei
prezzi delle merci in Italia negli anni 1881-1909. La
materia prima esistente da noi per calcoli di questo ge-
nere era imperfetta e grossolana; ma il Necco ne trasse
fuori tutto quanto essa poteva dare. Egli espose il me-
todo tenuto, gli artifizi adoperati, le cautele osservate,
le restrizioni che devono essere presenti alla mente di
coloro che vogliono adoperare i suoi indici. Dopo ave-
re compiuta la ricerca retrospettiva, volle di anno in
anno continuarla, con grande comodità degli studiosi e
vantaggio della scienza. Oramai i numeri indici dei
prezzi « Necco » avevano acquistato diritto di cittadi-
— 296 —
nanza nella scienza internazionale; studiosi italiani e
stranieri li usavano come un ferro corrente del mestiere,
così come si usano altri famosi numeri indici. Era per
lui cagione di letizia vedere riconosciuta universalmen-
te la utilità del suo lavoro; non di superbia, come ac-
cade spesso in altri, pure meno benemeriti di lui. Pa-
reva quasi si compiacesse di essere un semplice anello
di una catena mondiale di studiosi, intenti, coi mede-
simi metodi precisi ed esatti, a raggiungere un fine
comune.
Appena ebbe compiuto il lavoro sui prezzi, volse
l'animo ad un'altra impresa di lunga lena. Parve a lui,
traendo lo spunto da una osservazione di Maffeo Pan-
taloni in un assai favorevole riassunto dei suoi numeri
indici pubblicato sul Giornale degli Economisti, che la
conoscenza dei prezzi delle merci doves.se essere inte-
grata dalla conoscenza dei prezzi dei valori. Se fosse
stato possibile, avrebbe vagheggiato altre integrazioni;
mercè le quali soltanto si potrà col tempo riuscire ad
avere una pallida idea di quelle variazioni del potere
d'acquisto della moneta, che sono il tormento di tanti
indagatori e la cui notizia è così essenziale per la ri-
soluzione di tante questioni teoriche e pratiche.
11 suo ultimo scritto, finito di pubblicare in questo
stesso anno da lui, come supplemento alla Riforma So-
ciale ed insieme al Giornale degli Economisti, poco
prima di vestire la divisa di ufficiale degli alpini, è un
contributo prezioso, definitivo allo studio delle varia-
zioni dei prezzi dei valori mobiliari. Il lavoro è purtrop-
po incompiuto; poiché riflette solo i valori a reddito
fisso emessi dallo Stato o colla sua garanzia. Ma anche
così incompiuto, quale somma di calcoli dovette egli
— 297 —
compiere, quante difficoltà minute e sottili dovette su-
perare! Egli si compiaceva in questi lavori, i quali pos-
sono parere poco brillanti solo a chi non ha il vero
temperamento scientifico. Necco non era un grande
teorico; ma poiché i grandi teorici sono rarissimi, egli
poteva vantarsi di essere un vero studioso : aveva cioè
la passione delle verità sicure; voleva applicare i prirv
cipii generali ai fatti specifici e ne sapeva saggiare così
la vera importanza, Poco amava discorrere di metodo
in generale ed insegnare altrui come le cose dovrebbero
essere fatte; ma, quelle imprese a cui si accingeva, ese-
guiva con metodo rigorosamente scientifico. Ai suoi due
scritti si ricorre oggi e si ricorrerà fra venti e cinquanta
anni come ad una fonte sicura. Chi vorrà sapere quale
sia stato il tasso di frutto dei capitali impiegati a red-
dito fisso nel primo cinquantennio dell'unità nazionale
dovrà ricorrere all'ultimo scritto del Necco. Fin dove
egli giunse, l'opera sua non è più da rifare. Nessuno
in Italia aveva tentato di manipolare le migliaia e mi-
gliaia di quotazioni quotidiane, che egli ci presentò in
poche nitide tabelle; pochissimi lavori stranieri possono
sostenere il confronto col suo.
Io credo che il migliore omaggio che da noi si possa
rendere all'indimenticabile memoria del compianto estin-
to sia di proseguire l'opera sua. La nostra rivista con-
tinuerà a pubblicare, finche essa duri, ogni anno i nu-
meri indici dei prezzi delle merci e li intitolerà al nome
del loro iniziatore. Nelle carte lasciate dal Necco è da
augurare si trovino gli spogli in parte già compiuti delle
quotazioni dei valori mobiliari a reddito fisso non di
Stato (obbligazioni comunali, fondiarie, industriali) ed a
— 298 —
reddito variabile (azioni). Sarebbe doloroso che l'opera
rimanesse tronca a mezzo e non trovasse un seguitatore.
Achille Necco era un credente, un animo retto e
semplice, il quale nobilitò la sua fede con l'olocausto
della vita fatto alla patria; uno dei molti appartenenti
alle generazioni nate dopo 1*80, che oggi lottano e muo-
iono contenti, con di nuovo sulle labbra le grandi pa-
role « religione », « famiglia », « patria ». Il suo ricordo
rimarrà scolpito nel cuore di quelli che lo conobbero
buono, forte, sereno, studioso; l'opera sua sarà se-
guitata sicuramente da qualcuno dei giovani, il quale
non abbia l'egoismo sterile della lotta per la carriera
e sia persuaso che i risultati scientifici duraturi si con-
seguono soltanto collegando le indagini nuove alle in-
dagini antiche, collaborando fraternamente con i conv
pagni e poco promettendo e farneticando di novità.
Achille Necco non pensò mai con superbia di se stesso;
prima di scrivere, volle conoscere tutto ciò che era stato
pubblicato nel campo da lui intrapreso a studiare; ne
si giovò dei suoi nuovi studi per gittare, come spesso
accade ai copiatori ed ai rimaneggiatori, lo sprezzo
sulle verità superate o sui metodi invecchiati dei prede-
cessori. E poiché egli amò di seguitare l'esempio altrui,
così vi sarà indubbiamente chi seguiterà l'opera sua.
Ora, due parole di biografìa e bibliografia, brevi, so-
brie, com'Egli era. Achille Necco nacque a Torino il
15 ottobre 1887 da Giuseppe e da Emilia Grazzini, da
Pisa. Iniziò i suoi studi elementari presso i « Fratelli
della Scuola cristiana » e compiè il ginnasio inferiore
nell'Istituto Salesiano di Sampierdarena. Questo pe-
— 299 —
riodo della sua istruzione ed educazione intellettuale
ebbe un'influenza decisiva sulla sua vita spirituale fu-
tura, preparando quella fede cattolica, non solo reli-
giosa, ma politica e sociale, di cui fu, fin dalla prima
gioventù, milite austero, forte, mai settario. Dal 1901
al 1906 percorse, sempre tra i primi, quando non era
il primo, a Torino, il ginnasio superiore ed il liceo al
Gioberti, brillantemente mostrando fin d'allora le ma-
gnifiche qualità della sua mente. A pena finito il liceo,
l'on. Mauri, direttore del Momento, lo inviò nel Treiv
tino a studiarvi le condizioni di tutto il movimento eco-
nomico-sociale-politico clericale, specialmente il coope-
rativismo agricolo. Il Necco girò allora tutto il Trentino
e ne raccolse un ricco materiale di osservazioni, che fu
poi utilizzato dal giornale torinese.
Mentre s'iscriveva nella facoltà di legge dell'uni-
versità di Torino, vinceva (1906) il concorso di impie-
gato alla cassa di risparmio di questa città, dove ri-
mase fino al 1913. Contemporaneamente egli continua-
va a collaborare su periodici cattolici, specie sul Mo-
mento, ed a partecipare al movimento cattolico, specie
alle organizzazioni economico-sociali .
Benché occupato nel suo impiego alla cassa di ri-
sparmio, compieva, sempre con votazioni lusinghiere,
i suoi studi universitari, coronandoli colla laurea con-
seguita nel luglio 1910 a pieni voti e lode, colla presen-
tazione del suo studio sui prezzi italiani, che con pic-
coli ritocchi è diventato il più apprezzato ed autorevole
lavoro che in Italia si abbia sull'argomento.
Continuava intanto a collaborare sulla Riforma So-
ciale, sulla Rivista delle Società commerciali, sul Gior-
nale degli Economisti. Nel 1913 passava all'istituto in-
— 300 —
ternazionale d'agricoltura, chiamatovi dal Lorenzoni e
dal Ricci, che lo destinavano alla ufficio di statistica »
dell'istituto, dove rimase collaboratore apprezzatissimo,
fino al 1915.
Venuta la guerra, presentò volontaria domanda da
ufficiale : appassionatissimo della montagna, scelse l'ar-
ma degli alpini. Mandato al fronte nella seconda metà
di agosto, cadeva il 9 settembre al passo della Senti-
nella, con la fronte rivolta alla valle di Sexten. Ora
dorme sepolto a Padola, frazione di Comelico Su-
periore.
I suoi principali scritti di carattere scientifico sono i
seguenti :
1910. « La curva dei prezzi delle merci in Italia negli anni 1881-
1909». (Torino, supplemento della Riforma Sociale). L'ar-
ticolo di M. Pantaleoni, che lo segnala e riassume, è «La
curva dei prezzi delle merci in Italia negli anni 1881-1909,
del dott. A. Necco » (Giornale degli Economisti, die. 1910).
1911. «Il prezzo delle merci nel 1910. Continua la tendenza all'au-
mento?». (Riforma Sociale, fase. 1).
«Le società per azioni in Italia». (Riforma Sociale, fase. 5).
«I prezzi delle merci in Italia nel 1910». (Riforma Sociale,
fase. 8).
1912. «Le società per azioni italiane nel 1911 ». (Riforma Sociale,
fase. 5).
1913. «Attraverso gli Annuari (Rassegne)». (Riforma Sociale, fa-
scicolo 5).
« Il problema della popolazione in Italia : perchè la popola-
lazione declina più rapida in Piemonte e Liguria)). (Ri-
forma Sociale, fase. 6-7).
«I prezzi delle merci in Italia nel 191 1 ». (Riforma Sociale,
fase. 8-9).
«L'esportazione dei capitali in Francia ed in Italia». (Rivista
delle Società commerciali, fase. 6).
1914. « Il movimento delle società italiane per azioni nel 20 seme-
stre 1913 ». (Rivista delle Società commerciali, fase. i°).
« Attraverso gli Annuari ». (Riforma Sociale, fase. 4).
301
ci I prezzi delle merci in Italia nel 19 12 ». (Riforma Sociale,
fase. 5).
«L'industria del granito nel Canton Ticino». (Riforma So-
ciale, fase. 5).
«-11 movimento delle società italiane per azioni nel i° seme-
stre 1914». (Rivista delle Società commerciali, fase. 6).
«L'ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni».
(Rivista delle Società commerciali, fase. 4).
191 5. « I prezzi delle merci in Italia nel 1913 ». (Riforma Sociale,
fase. 4-5).
« La questione irlandese e il nostro problema meridionale ».
(Giornale degli Economisti, marzo).
« Il corso dei titoli di Borsa in Italia dal 1861 al 1912. —
I. I titoli di Stato». (Torino, supplemento della Riforma
Sociale e del Giornale degli Economisti).
(Da « La Riforma Sociale », settembre 1915).
CESARE JARACH
Dopo Achille Necco, Alberto Caroncini e poi At-
tilio Begey ed oggi Cesare Jarach : la lista dei colla-
boratori della nostra rivista morti sul campo per la di-
fesa della patria si allunga. Cresce il cordoglio per la
perdita di tanti valorosi ingegni e cresce la speranza
che un paese, le cui classi intellettuali seppero con fer-
mezza e semplicità far seguire alle parole il sacrificio
personale, abbia nell'avvenire a dimostrarsi degni di
superare più aspri cimenti e conseguire una più no-
bile mèta.
Nato a Casale Monferrato il 9 marzo 1884, fu allievo
del R. Collegio Carlo Alberto per gli studenti delle an-
tiche provincie e seguì i corsi universitari nell'ateneo
torinese, conseguendovi la laurea in leggi nel luglio
1904, con una dissertazione intomo ai rapporti fra trusts
e protezionismo, che fu pubblicata poi su questa rivista.
Durante gli anni universitari ed in quelli seguenti curò
la compilazione delle mie lezioni e di quelle del profes-
sore Alessandro Garelli. Nell'anno scolastico 1904-905
ebbe l'incarico' dell'insegnamento dell'economia poli-
tica e della scienza delle finanze nell'istituto tecnico
G. Sommeiller di Torino.
Scelto dal senatore Faina e dal prof. Coletti come uno
dei delegati tecnici per l'inchiesta parlamentare sulle
condiziona dei contadini nelle provincie meridionali e
— 304 —
nella Sicilia scrisse la relazione sugli Abruzzi; e le sue
doti di studioso ed indagatore, che in tale ufficio si ri-
velarono, lo fecero chiamare nel 1909 all'Istituto inter-
nazionale di agricoltura, dove fu prima segretario par-
ticolare del senatore Faina, allora presidente dell'isti-
tuto ed attese poi a studi sulla organizzazione della sta-
tistica agricola e sulla cooperazione nell'agricoltura. Nel
frattempo teneva nel 1911 l'incarico dell'insegnamento
dell'economia politica nell'istituto tecnico di Roma.
Nel 1911 passò, in qualità di ispettore, al commissa-
riato dell' emigrazione a Roma, e fu segretario del con-
siglio, incaricato di riferire sulle questioni del controllo
dei noli dei vettori, sui vari progetti di colonizzazione
interna ed estera, su provvedimenti -sanitari, ecc. Nel
1913, sempre nella sua qualità di funzionario del com-
missariato, passò a dirigere l'ufficio di emigrazione per
gli uffici di terra in Milano, dove rimase fino al giorno
della chiamata alle armi. Nominato aspirante ufficiale
e mandato sul Carso, cadeva pochi giorni dopo, alla
testa dei suoi soldati, colpito da una granata austriaca.
Sopravvisse alcune ore e morì serenamente, col pen-
siero rivolto alla moglie ed ai tre figli, che egli lascia in
tenerissima età.
Le necessità della vita non gli consentirono di de-
dicare tutta la propria attività alla scienza economica,
sebbene non gli siano mancate lusinghiere attestazioni
di eleggibilità e di apprezzamento in concorsi univer
sitari. Ma servì, forse ancor più utilmente, il paese negli
uffici pubblici. Appartenne alla schiera, la quale va
purtroppo facendosi sempre più rara in Italia, dei fun-
zionari i quali onorano l'ufficio coperto con la auste-
rità nell'adempimento del proprio dovere e con la co-
— 305 —
scienza che a questo non si soddisfa se non si entra nel-
l' arringo con una solida preparazione scientifica e se
questa non si affina ognora più. La guerra odierna ha
dato la dimostrazione di un vuoto terrorizzante nel-
l'intelligenza e nella capacità tecnica del ceto burocra-
tico dirigente italiano, sicché non ho dubbio che se, in-
vece di non troppo numerose decine, i funzionari colti,
studiosi, animati da devozione alla pubblica cosa, come
era Cesare Jaraeh, fossero qualche centinaio e se essi
potessero essere messi a capo delle pubbliche ammini-
strazioni, mirabili risultati si potrebbero ottenere; e ces-
serebbe il disordine che oggi segue all'incompetenza
degli uomini politici ed all'arrivismo non meno incom-
petente dei funzionari, il cui unico ideale sembra es-
sere quello di far1 carriera, servendosi e facendosi servi
delle fantasie e degli interessi degli uomini e dei grup-
pi, i quali si succedono al potere.
Cesare Jaraeh diede il suo nome alla non numerosa
falange di nazionalisti, la quale ben presto scisse la
sua azione da quella del partito nazionalista e, duce
Alberto Caroncini, volle richiamare il nazionalismo alle
sue origini nazionali e liberali. Sull'organo di questa fa-
lange scelta, L'Azione di Milano, scrisse egli succosi
articoli, per lo più collo pseudonimo di Vtridis, riven-
dicando, tra il blatteramento incomposto dei troppi na-
zionalisti analfabeti, le ragioni della scienza economica
nelle sue immediate applicazioni pratiche.
Fu scrittore di cose teoriche, in economia e finanza,
sobrio, acuto, elegante. Ai suoi saggi sui rapporti fra
trust e protezionismo, sulla teoria della speculazione,
sugli effetti di una imposta generale ed uniforme sui
profitti si ritoma volentieri colla mente, come quelli chef
— 306 —
sono il frutto di una meditazione personale accurata,
che spoglia la trattazione di ogni elemento estraneo su-
perfluo e riduce il problema ai suoi dati essenziali ed
alle sue conclusioni logiche più semplici. Nel che ai
riscontra il vero abito dello studioso.
I suoi scritti di economia descrittiva e di statistica
economica rimarranno. Altre relazioni dei delegati tec-
nici della inchiesta sulle condizioni dei contadini nel
Mezzogiorno ed in Sicilia possono eccellere sulla sua
per la vastità del tocco, per la complessità della visione
del problema (Lorenzoni); nessuna supera quella del
Jarach sugli Abruzzi per la precisione dello studio del-
l'aspetto economico del problema. Egli era un econo-
mista; ne, giustamente, conoscendo sé stesso, amava
fare incursioni nei campi vicini. Gli stadi sullo sviluppo
ed i profitti delle società per azioni italiane dal 1882
al 1903, ripresi poi nello studio sui bilanci del 1911
sono un monumento di indagine scrupolosa, condotta
con cura ed abnegazione grandissime. Essi non hanno
bisogno di essere rifatti; ed ogni indagatore, il quale
in avvenire voglia studiare gli stessi fatti, dovrà rifarsi
ancora alle fondamenta poste dallo Jarach ad un edi-
ficio che prima di lui nessuno aveva cominciato a co-
struire.
Scritti del Dott. Cesare Jarach.
Aggio, circolazione e riserva delle Banche di emissione. (Estr.
dalla Riforma Sociale, fase. i°, anno x, voi. xn, seconda serie,
pag. 7. Torino, 1903).
I rapporti fra trusts e protezionismo. (Estr. dalla Riforma So-
ciale, anno xi, voi. xiv, seconda serie, pag. 34. Torino, 1904).
Lo sviluppo ed i profitti delle Società per azioni italiane dal
1882 al 1903 (nella collezione degli «Studi del laboratorio di economia
— 307 —
politica S. Cognetti De Martiis, della R. Università e del Museo in-
dustriale di Torino», n. i° della collezione, pag. 114. Torino, 1906,
Roux e Viarengo).
La distribuzione topografica delle Società per azioni italiane e
l'incremento relativo della grande e piccola industria (in Riforma
Sociale, anno xn, voi. xv, pag. 909-915, 1905).
L'industrializzazione della viticultura francese (in Riforma So-
ciale, anno xiv, voi. xvu, pag. 538-545, 1907).
Come funziona la nostra imposta sulla ricchezza mobile (Estr.
dalla Riforma Sociale, fase. 7, anno xiv, voi. xvu, seconda serie,
pag. 16. Torino, 1907).
Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle Pro-
vincie meridionali e nella Sicilia (Abruzzi e Molise, voi. 11, tomo 1.
Relazione del delegato tecnico dott. Cesare Jarach, pag. xv-300.
Roma, 1909, Tipografia Bertero).
Institut International d'Agriculture. L'organisation des services
de statistique agricole dans les divers pays. (Tome premier, pag. 446.
Rome, 1909, Imprimerie de la Chambre des Députés).
Il problema economico della disoccupazione. (Estratto dal fasci-
colo di febbraio 1910 della Rivista d'Italia, pag. 323-331. Roma,
1910, Tip. Unione Editrice).
Gli effetti di una imposta generale ed uniforme sui profitti. (Nota
presentata nella adunanza del 12 febbraio 191 1 alla Reale Accademia
delle Scienze di Torino. Estratto dagli Atti, voi. xlvi, pag. 18. To-
rino, 191 1, Tip. Bona).
Appunti sulla teoria dello speculazione. (Supplemento alla Ri-
forma Sociale, gennaio-febbraio 1912, pag. 36. Torino, 1912, So-
cietà Tip.-Edit. Nazionale).
L'emigrazione transoceanica durante il 1912 (in Giornale degli
Economisti, anno xxiv, voi. xlvi, pag. 55-59, 1913).
Relazioni varie presentate su progetti di colonizzazione nella Ba-
silicata e nello Stato di Vittoria (Australia) in Rendiconti sommari
delle adunanze del Consiglio dell'emigrazione. (Bollettino dell'Emi-
grazione, n. 9. Roma, 1912).
Le Società italiane per azioni attraverso i loro bilanci chiusi
entro l'anno 191 1. (Estretto della Rivista delle Società Commerciali,
in-40, pag. 124. Roma, 1914).
Compilazione delle lezioni tenute nella R. Università di To-
rino dai professori Luigi Einaudi ed Alessandro Garelli :
Scienza delle finanze e Diritto finanziario ; lezioni del prof. Luigi
Einaudi (un volume a stampa di pag. 430. Casale, 1907, Tipografia
Operaia).
Finanze locali. Appunti sulle lezioni del prof. Alessandro Ga-
308 —
relli (un volume a stampa di pag. 433-551, con indice ai due volumi,
Pag- 553"558- Casale, 1908, Tipografia Operaia).
Articoli pubblicati sulla Rassegna settimanale L'Azione di Mi-
lano :
Firmati Cesare Jarach :
L'Imposta sul reddito (anno 1, n. 11, 19 luglio 1914).
Firmati col pseudonimo I. Viridis :
' Il programma del protezionismo nazionalista : Esportazione sen-
za importazione. Contro il dazio sul grano? (anno 1, n. 12, 26 lu-
glio 1914).
Ancora sull'imposta globale. L'esperienza tedesca (anno 1, n. 13,
2 agosto 1914).
Provvedimenti commerciali e finanziari (anno 1, n. 21, 27 set-
tembre 1914).
La scadenza della moratoria. Cautele (anno 1, n. 29, 22 no-
vembre 1914).
Recensioni varie in Riforma Sociale, fra cui si ricordano quelle su :
— W. Stanley Jevons, The principles of economics (anno xn,
voi. xv, pag. 970-1, 1909).
— Viscount Goschen, Essays and addresses on economie ques-
tions (anno xm, voi. xiv, pag. 90-1, 1906).
— Zorli, L'elemento giuridico e morale della convenienza econo-
mica (id., pag. 815-16, 1906).
— Effertz, Lcs antagonismes économiques (id., pag. 992-94, 1906).
(Da « La Riforma Sociale », gennaio-febbraio 1917).
AMMONIMENTI
Adesso che è giunta l'ora della prova, bisogna che
ciascuno interroghi la sua coscienza e cerchi una rispo-
sta alla domanda : ho io fatto tutto il mio dovere? Uf-
ficiale, ho cercato di inspirare fede, disciplina, corag-
gio nei miei soldati? Cittadino privato, ho intensificato
il mio lavoro affinchè la vita del paese non venisse tur-
bata ed i soldati alla fronte e le popolazioni dell* in-
terno potessero avere, per quanto stava in me, tutto il
bisognevole? Amministratore della cosa pubblica, rap-
presentante di italiani in consessi alti o modesti, ho da-
to opera affinchè la compagine morale del paese ri-
manesse salda? Ho recriminato, ho mormorato, ho fatto
passare l'ambizione personale dinanzi all'interesse pub-
blico?
(4 novembre 1917).
Non dobbiamo addolorarci e deprimerci troppo se
in un punto della nostra fronte sono avvenuti fatti do-
lorosi nell'esercito. Fatti simili sono successi in tutti gli
eserciti. Ma dobbiamo chiedere a noi stessi : come ab-
biamo contribuito noi ad elevare il morale dei nostri
soldati? Li abbiamo incoraggiati quando parlavano con
compiacenza delle gloriose gesta compiute, abbiamo
fatto comprendere loro che noi eravamo profondamente
— 310 —
riconoscenti per la grandezza dei sacrifici che essi com-
pievano per noi; ovvero ci siamo compiaciuti principal-
mente nel fare eco ad espressioni di stanchezza, natu-
rali in chi soffre, ma che noi non dovevamo acuire con
la nostra importuna commiserazione?
(5 novembre 1917).
Perchè i soldati siano tenaci, pazienti e risoluti oc-
corre che essi sentano di avere dietro di sé un popolo
fiero, paziente ed esemplare. Quale spettacolo abbia-
mo dato noi ai soldati, i quali tornavano in licenza?
Ci siamo lamentati che i viveri erano cari, che la vita
era dura? Abbiamo detto che così non si poteva du-
rare innanzi e frattanto abbiamo riempito le sale dei
teatri, dei cinematografi, dei ristoranti, abbiamo scia-
lacquato danari che si potevano risparmiare in consumi
non assolutamente necessari? Ovvero, ai figli nostri, agli
amici che tornavano dai luoghi dove si difendeva la
patria abbiamo mostrato che anche noi si era frugali,
che anche noi si sopportavano volentieri e con animo
sereno privazioni materiali allo scopo di contribuire,
ciascuno nella misura dei propri mezzi, alla causa co-
mune?
(6 novembre 1917).
Oggi si vede anche dai ciechi che la guerra si fa
per difendere le nostre case, i nostri focolari, le nostre
famiglie. E perciò tutto il popolo è balzato in piedi, ri-
soluto a guardare negli occhi il nemico. Ma, anche
prima, lo scopo della guerra era sempre stato di difesa.
Avevamo noi adempiuto al dovere di spiegare a chi
— 311 —
non sapeva, a chi per le sue condizioni sociali non po-
teva sapere che noi avevamo preso le armi per difen-
dere l'Italia contro il pericolo di una dominazione uni-
versale? Quale paese poteva sentirsi sicuro contro le
mire di chi assaliva la Serbia, si impadroniva del Bel-
gio, voleva schiacciare la Francia? Eravamo insorti per
non diventare servi senza combattere. Oggi si deve con-
tinuare a combattere per serbare la libertà e l'onore no-
stro, delle nostre famiglie e del nostro paese.
(8 novembre 1917).
Il suono di certe parole che pareva fioco, di frasi
che parevano retoriche per la lunga ripetizione diventa
oggi nuovamente vibrante. Si ripercote nell'animo nostro
e ci fa balzare il cuore nel petto. Libertà, indipenden-
za, onore sembrano ricordi di scuola quando i confini
sono sicuri. Ma quando il nemico calca col suo piede
le nostre terre, quelle parole vogliono dire la possibilità
di vivere senza vergogna, di pensare e parlare nella
lingua dei nostri padri, di crearci un mondo ed una vita
quale piace a noi e non quale piace ai dominatori no-
stri. Vogliono dire la possibilità di lasciare ai nostri fi-
gli intatta l'eredità ricevuta dai padri, non macchiato il
retaggio tramandatoci a prezzo di tanti sacrifici.
(10 novembre 1917).
Nell'autunno del 1792 l'esercito sabaudo abbando-
nava la Savoja dinnanzi all'invasione delle truppe rivo-
luzionarie francesi. I soldati del reggimento di Moriana,
in seguito ad un ordine equivoco, s'erano sbandati, ri-
— 312 —
tornando ognuno alle sue case, dopo essersi tuttavia dati
appuntamento a Susa per il 1° gennaio del 1793.
Pochi credevano che la parola sarebbe stata man-
tenuta. La guerra si annunciava lunga e durò infatti an-
cora quattro anni. I soldati vivevano in paese occupato
dal nemico; e questi prometteva ricompense ai deboli
e minacciava dure rappresaglie contro i fedeli alla ban-
diera sabauda.
« Tuttavia il colonnello del reggimento il 1° gennaio
del 1 793 era a Susa, e faceva tracciare sulla neve i con-
fini d'un posto di bivacco, disporre i fuòchi e costruire
alcuni baraccamenti. Dopo ciò, il colonnello, malgrado
il freddo atroce, si diede a passeggiare avanti ed indie-
tro sulla piazza di Susa, come fosse un padrone di casa
che attende gli invitati passeggiando nel salone. Non
attese a lungo. Alle dieci del mattino un soldato giun-
geva per il primo; era un certo Grillet e veniva da
Lanslevillard, uno dei villaggi più vicini al Moncenisio.
Il bravo ragazzo era partito da casa la vigilia ed aveva
tutta la notte camminato per sentieri, buoni per rom-
persi il collo. Dopo di lui, due caporali, che, per sfug-
gire al nemico, avevano rivoltato le uniformi; e dopo
ancora a gruppi di tre o quattro, continuarono a giun-
gere soldati dalle strade più rimote. Come i ruscelli fi-
niscono per formare il fiume, così era meraviglioso ve-
dere ìe compagnie a poco a poco ricostituirsi. In cin-
que giorni, il reggimento aveva ritrovato i due terzi dei
suoi effettivi ».
Così il marchese Costa de Beauregard, in un libro
dove è tutta l'anima del fedele servitore detto Stato pie-
montese d'un tempo, narra uno dei pia meravigliosi epi-
sodi di quella storia sabauda, che è il tronco vivo della
— 313 —
storia italiana moderna. Il sentimento del dovere, cht
spingeva i poveri montanari del 1793 ad abbandonare
volontariamente, per obbedienza alla parola data, le fa-
miglie e le case in balìa del nemico, non è spento nel
soldato italiano d'oggi. ,
(12 novembre 1917).
(( Ben ciechi sono coloro i quali pretendono di averci
distrutti perchè essi hanno spezzato i nostri blasoni e
disperso i nostri archivi. Finche però non ci avranno
strappato il cuore essi non potranno impedirgli di lot-
tare per tutto ciò che è virtuoso e grande, non potran-
no impedirgli di preferire la verità alla menzogna e
l'onore a tutto; finché non ci avranno strappato il cuore,
essi non potranno impedirgli di essere riscaldato da un
sangue che giammai tremò; finché non ci avranno strap-
pato la lingua, non potranno impedirci di insegnare ai
nostri figli che la nobiltà consiste soltanto nel senti-
mento raffinato del dovere, nel coraggio posto nell'a-
dempierìo e nella fedeltà alle tradizioni di famiglia ».
Così scriveva nelV inverno del 1793 da un ricovero
del Piccolo San Bernardo un nobile ufficiale savoiardo,
mentre difendeva il Piemonte contro le soldatesche ne-
miche, le quali gli avevano devastato il castello avito e
costretto ali* esilio la moglie ed i figli.
Gli italiani d*oggi sono una razza antica e fine, ed
ctncKessi dicono fieramente al nemico : finché non ci
avrete tolta la vita e strappata la lingua, noi preferire-
mo Vonore a tutto; perchè noi sappiamo che la vera
vita consiste nelV adempimento del dovere e nel conse-
— 314 —
gnarc intatto ai figli il retaggio di tradizioni nazionali,
di libertà e di indipendenza tramandatoci dagli avi a
prezzo di tanti sacrifici.
(12 novembre 1917).
Dicono i nemici agli italiani, sperando di trovare
un'eco in cuori deboli : « Noi veniamo a salvarvi dalla
tirannide inglese. Noi non combattiamo contro di voi,
ma contro chi vuole asservirvi ad un impero di egoisti
e di mercanti, il quale copertamente mira al dominio
universale ».
// discorso pronunciato da chi dovette essere caccia-
to a viva forza dalla mala signoria del Lombardo-Ve-
neto, da chi opprime polacchi e francesi, danesi e ro-
meni, czechi e ruteni, da chi ha steso le unghie grifa-
gne sul Belgio e sulla Serbia ha un suono falso. Ma sup-
pone anche che gli italiani siano degli smemorati, i
quali non ricordino che da pia di quattrocento anni l'In-
ghilterra si è ritirata dal continente d'Europa e com-
batte solo per impedire all'Europa di cadere sotto il
dominio e la tirannia di uno Stato solo prepotente. Ha
combattuto contro la Spagna di Filippo II, contro la
Francia di Luigi XIV e di Napoleone, e combatte oggi
contro i sogni di monarchia universale di Guglielmo II.
E così combattendo salva sé stessa e la civiltà del mon-
do. L'Inghilterra, con la sua flotta, ha serbato la Sarde-
gna alla Casa di Savoja, la Sicilia ai Borboni, quando
i Borboni rappresentavano un'idea nazionale, ha resa
possibile la vittoriosa riscossa della Spagna contro Na-
poleone. Occupò le Isole Ionie, per restituirle volonta-
riamente alla Grecia. L'Inghilterra vuole avere le mani
— 315 —
nette in Europa, perchè essa non è un impero. Essa è
una società di molte nazioni, libere ed indipendenti,
unite da legami morali, sciolte da qualsiasi obbligo di
tributi e di servizio militare verso la madrepatria. Ed
una nazione siffatta, la quale pone ogni studio nel non
imporre alcun obbligo alle consorelle le quali vivono
sotto la protezione della sua bandiera, dovrebbe desi-
derare di asservire noi, italiani e francesi, al suo gfogo?
(12 novembre 1917).
***
« Guardatevi dall'Inghilterra e dagli Stati Uniti » —
dicono i tedeschi ed i loro amici — ; « guardatevi da
alleati, i quali mirano ad arricchire colla guerra, a di-
ventare padroni di tutta la flotta mercantile del mondo,
creditori vostri, vostri fornitori e padroni ». E trovano
ascolto in tutti coloro i quali disprezzano gli ideali e ri-
tengono che le lire, i soldi ed i denari Steno le sole
cose reali esistenti nel mondo, e che la guerra presente
sia in fondo una cosa che non ci riguarda, poiché si
tratta di una lotta fra Inghilterra e Germania per il do-
minio economico del mondo.
Se la guerra fosse stata voluta per arricchire uno dei
contendenti sarebbe una cosa infame. Ma abbietto è
invece il pensiero di chi ad un fatto così solenne dà una
causa così bassa. Forse la Germania assalitrice sperava
di fare un buon affare con la rapidità della vittoria e
la enormità delle taglie sperate dal vinto. Ma gli assa-
liti, ma coloro che mossero in loro aiuto, quale speran-
za di arricchimento potevano mai avere? Sapeva l'In-
ghilterra che avrebbe profuso tesori, che si sarebbe im-
poverita, che avrebbe dovuto alienare le sue ricchezze
— 316 —
investite all'estero; sanno gli Stati Uniti che la guerra
costerà loro centinaia di miliardi, di gran lunga più dei
più grandi profitti sperabili con le forniture di guerra.
Potevano contemplare indifferenti lo schiacciamento del
Belgio e della Francia. Non vollero, a prezzo di gravi
danni economici, perchè i popoli sani sanno che la ric-
chezza è nulla quando Vonore è perduto.
(12 novembre 1917).
Italiani! Le generazioni che nei secoli ci precedet-
tero, che a poco a poco fecero riemergere dalla inon-
dazione barbarica del primo medio evo le antiche pro-
fonde masse italiche, guardano a noi e ci scongiurano
di non perdere in un istante di debolézza il frutto di
tanti sforzi, di così lunghe aspirazioni, di martirii così
atroci. Guardano a noi i lombardi che sconfissero l'im-
peratore tedesco che aveva cosparso di sale il suolo
della fiera Milano. Guardano a noi i piemontesi di Pie-
tro Micca che resistettero ai tentativi di dominazione
universale di Luigi XIV e di Napoleone. Guardano a
noi i martiri delle galere borboniche, gli impiccati di
Belfiore. Di sotto alla terra recentissima guardano a noi
i giovani che sulle Alpi Trentine, sul Carso petroso, nei
tanti luoghi santi oramai nelle nostre memorie, hanno
dato il loro sangue per compiere il risorgimento nazio-
nale. E tutte queste voci, vecchie di secoli e fresche di
ieri dicono : Italiani, tenete fermo, che l'Italia vivrà
solo se i suoi figli oggi avranno un cuore di bronzo!
(17 novembre 1917).
— 317 —
Sempre, ma in special modo in tempo di guerra, lo
Stato deve rendere giustizia a tutti; e procurare che le
derrate necessarie alla vita siano distribuite imparzial-
mente ed a chi ne ha più bisogno.
Ma abbiamo noi sempre riflettuto abbastanza che
la giusta distribuzione non si fa da se; e che è inutile
ed ingiusto accusare il governo, seminare il malconten-
to, scrivere lettere scoraggianti ai figli, ai parenti, agli
amici i quali combattono per noi in campo, se non si è
fatto tutto il possibile per ridurre al minimo le nostre
pretese e per prestare la più fervida collaborazione af-
finchè i pochi bisogni possano essere soddisfatti? Lo
Stato siamo noi; il governo è una nostra creatura; e la-
mentarsi del governo senza far nulla per renderlo mi-
gliore, è segno di animo fiacco.
(18 novembre 1917).
/ contadini i quali scrivevano ai figli sotto le ban-
diere lamentandosi del governo che loro requisiva il
grano, le bestie ed il fieno; i cittadini che si lagnavano
con gli stessi soldati per la insufficienza dei 250 o dei
500 grammi di pane al giorno, pensino al triste effetto
che le loro lettere e i loro discorsi facevano sull'animo
dei combattenti, disanimandoli e facendo loro credere
quasi che nell'interno nessuno si curasse dei loro figli,
delle loro mogli, dei loro genitori. Si doveva e si deve
invece ringraziare i soldati perchè il loro braccio ha
consentito al contadino di seminare e di mietere, al ma-
rinaio e al ferroviere di trasportare i milioni di quin-
— 318 —
tali di frumento necessari per far vivere la popolazione.
Dove il nemico giunge, il contadino deve lavorare per
mantenere l'aggressore ed a lui la razione assegnata è
di fame vera.
Nei territori occupati dai nemico più non giungono
derrate dall'estero. Quale spaventosa decimazione di
donne, di fanciulli, di vecchi non è avvenuta in Serbia!
(18 novembre 1917).
Maestro di scuola elementare, insegnante nei ginna-
si, nei licei, nelle scuole tecniche e commerciali, nelle
università, ho fatto ogni sforzo per fare intendere alle
nuove generazioni la missione dell'Italia? Ho fatto com-
prendere ai ragazzi ed ai giovani quanto sforzo sia co-
stato questa nostra augusto patria, quanto sangue sia
stato sparso per essa, e quali doveri noi abbiamo verso
il retaggio tramandatoci dai nostri genitori? Abbiamo
noi detto ai figli dei ricchi, dei borghesi, degli agiati
che essi non vivrebbero sicuri negli agi se i loro avi
non avessero condotto una vita dura, e, senza fiatare,
non avessero sacrificato la vita per il loro paese?
(19 novembre 1917).
/ profughi delle Provincie friulane e venete, che oggi
vediamo dintorno a noi, in cerca di asilo nelle nostre
città, desiderosi di lavoro nelle campagne ci dicono in
modo parlante che cosa significhi l'invasione del terri-
torio nazionale da parte dello straniero. Non più sol-
tanto dal Belgio e dalla Serbia ci vengono le notizie dei
giornali sulle sofferenze dei popoli soggetti al dominio
straniero. Sono i nostri fratelli, sono italiani fieri e pa-
— 319 —
triotti i quali ci parlano di famiglie disciolte, di vecchi
e malati rimasti per l'impossibilità di fuggire, di madri
che cercano affannosamente i loro bambini. Volere, alta
fronte ed all'interno, che si resista significa volere che
queste sciagure abbiano fine e che ai nostri fratelli siano
ridate case e famiglie.
(22 novembre 1917).
// nemico fa dire sui suoi giornali e tenta di dire a
noi in libelli e fogli gittati nelle nostre trincee e diffusi
di nascosto : « Voi italiani combattete per gli altri. Che
deve importare a voi dell' indipendenza del Belgio, del-
la questione dell' Alsazia-Lorena, delle colonie inglesi,
del dominio del mare, della lotta fra Serbi e Bulgari? ».
Ma gli italiani non combattono per gli altri. Unendo
la loro causa a quella dei popoli alleati, essi hanno ve-
duto il pericolo di una dominazione universale ed han-
no voluto difendere la loro indipendenza e la loro na-
zionalità. Come i loro avi l'hanno difesa contro Carlo
Vili, contro Luigi XIV, contro Napoleone, così oggi la
difendono contro chi si proclama erede di Roma e va-
gheggia di averci servi umili e soddisfatti. Che cosa
vale essere grandi, quando si è imbelli? Meglio liberi
e poveri che ricchi e vassalli.
(24 novembre 1917).
Alcuni territori intorno al Piave furono inondati di
acque per difendersi meglio contro la pressione nemica.
Così gli italiani ripetono quanto gli inglesi ed i belgi
hanno compiuto attorno alVYser, quanto i piemontesi
nel 1859 fecero nelle risaie del Vercellese e del Nova-
— 320 —
rese, quanto gli olandesi su vasta scala seppero fare
per difendersi contro le soldatesche del Duca d'Alba e
di Filippo II : sommergere il proprio paese pur di non
vederlo soggetto allo straniero. Segno di animo forte.
Ma difendendo a passo a passo il territorio nazionale,
che i nostri padri con lavoro di migliaia d'anni fecero
emergere dalla grande palude che copriva tutta la valle
padana, limitando al minimo la sommersione delle terre
d'Italia, i nostri valorosi soldati sanno di impedire la
distruzione di una delle più meravigliose opere della
mano dell'uomo : la terra nostra, che dopo di essere
stata creata dai nostri antenati ci è ora madre benigna.
( 25 novembre 1917).
« Per il lavoratore, l'impiegato, il commerciante, par
cifico ed inoffensivo, è indifferente vivere sotto un go-
verno che si dica « italiano » ovvero porti un altro no-
me ». Contro questo ragionamento, che ci viene da
fonte nemica e che pretende di essere pratico, bisogna
ribattere : No, questa non è soltanto un'offesa atroce al
sentimento patrio, alle idealità per cui gli uomini si di-
stinguono dalle bestie; ma è anche una pessima pra-
tica. Se i nostri avi avessero ragionato così, se non aves-
sero combattuto contro i tiranni interni e stranieri, se
non avessero sostenuto sforzi indicibili per costituire l'I-
talia unita, il nostro paese sarebbe ancora diviso in
tanti staterelli piccoli, invidi e poveri, sarebbe ancora
immiserito dalle dominazioni straniere; e la nostra vita
sarebbe assai più miserabile di quella che oggi condu-
ciamo. La miseria è il retaggio di coloro che hanno l'a-
nima del servo, ha prosperità tocca solo a quei popoli
— 321 —
che se ne sono dimostrati degni, offrendo il sacrificio
della vita e degli averi per una causa ideale.
(27 novembre 1917).
(( L' erede del più grande impero del mondo » è ac-
corso alla fronte italiana, insieme con i valorosi soldati
inglesi, i quali, fronteggiando il medesimo nemico, dan-
no pegno della solidarietà che insieme stringe tutte le
nazioni dell'Intesa.
Ma chi è venuto fra noi è qualche cosa di più del-
l'erede di un grande « impero ». Se fosse soltanto que-
sto, male potrebbe distinguersi dai principi imperiali,
i quali da anni minacciano ai confini francesi ed italiani
di sostituire il diritto brutale della forza alla legge della
giustizia. Il principe di Galles è invece il figlio di chi
rappresenta la più grande confederazione di nazioni li-
bere che vi sia al mondo. Mentre i boemi, gli slavi me-
ridionali, gli italiani, i romeni, i polacchi, i francesi
soggetti al dominio austro-tedesco furono costretti dalla
forza a brandire le armi in difesa di una causa odiata,
i francesi del Canada, i boeri dell' Africa del Sud, gli
indiani, i muori della Nuova Zelanda accorsero volonta-
riamente sotto le bandiere britanniche. Nelle cosidette
colonie inglesi, che sono in realtà nazioni indipendenti,
non vi è coscrizione, né si pagano imposte per ordine
della madrepatria. I soldati vennero volontari a difen-
dere l'Inghilterra minacciata; l'India votò spontanea-
mente contributi di uomini e di sangue. Questi sono i
nostri alleati : uomini liberi, i quali insieme con noi vo-
gliono impedire V asservimento del mondo ad un impero
militare.
(30 novembre 1917).
I DISFATTISTI DELLA VITTORIA
Non ci sono più disfattisti in Italia. Od almeno sem-
brano scomparsi. Dopo che già si era delineato il ri-
volgimento delle sorti della guerra, dopo la battaglia
della Piave e la seconda vittoria della Marna, ma prima
del 24 ottobre, i loro discorsi avevano preso l'aria di
gemiti sull'immensità dell'opera di ricostituzione eco-
nomica, sulla difficoltà di sopperire al servizio dei de-
biti di guerra, sulla situazione favorevole della Spagna
nel provvedere all' attuazione di grandiosi programmi
sociali col mezzo dei lucri della neutralità. Dopo la di-
struzione militare dell'Austria compiuta dal nostro eser-
cito, le querimonie sono cessate. Hanno visto che la
fiducia della nuova Italia in sé stessa basterà a realiz-
zare qualunque programma serio di elevazione intellet-
tuale ed economico. Un popolo che ha durato tanta
fatica in quattro anni di guerra, che si è risollevato dopo
Caporetto, non può venir meno ai nuovi compiti civili
che lo attendono. Perciò i disfattisti intervengono alle
manifestazioni nazionali e si sbracciano a plaudire.
Bisogna stare in guardia contro i loro plausi. È la
nuovissima tattica che essi adottano per rendere vani
i sacrifici compiuti, per distruggere la vittoria conqui-
stata a prezzo di tanto' sangue. Essi gridano alle enormi
cose che l'Italia nuova potrà fare nel dopo-guerra per-
chè sanno che le cose enormi — non le cose ideali che
324
paiono assurde a chi fa i conti della lira, soldo e de-
naro — sono impossibili e che alle promesse sconfinate
seguirà la disillusione ed il malcontento. Non sperano
più di venir su per il malcontento dei contribuenti chia-
mati a pagare gli interessi dei debiti di guerra; e cer-
cano di aprirsi una nuova via al potere ed alla vendetta
sfruttando il malcontento di coloro che non avranno
saggiato l'intravveduto frutto del paradiso terrestre.
Promettendo la felicità a tutti gli uomini, la terra ai con-
tadini, gli alti salari agli operai, i prezzi bassi ai consu-
matori; e tutto ciò in breve tempo; ed accusando i « con-
servatori )), i « capitalisti » di resistere all'attuazione dei
grandiosi piani che la loro immaginazione si compiace
di dipingere ai lettori dei loro fogli, essi seminano il
germe dell'odio invece che della cooperazione, essi pre-
parano l'esplosione del malcontento per il giorno in cui
si vedrà che nemmeno 1* Italia unita può compiere in
breve ora i miracoli che sono soltanto il frutto della per-
severanza, della perizia, della buona volontà di tutti,
della attuazione graduale di piani bene studiati e tra-
dotti in atto da tecnici esperti.
Ci sono alcuni strumenti infallibili per scoprire il
disfattista, per lo più consapevole, almeno dello scopo
suo finale, nell'atto di esporre i suoi piani di palingenesi
sociale. Egli dice così : « si è stampata una dozzina di
miliardi di biglietti a corzo forzoso per fare la guerra;
perche non si stamperebbero uno o due altri miliardi
per compiere lavori pubblici a favore degli operai di-
soccupati dopo la licenza dall' esercito e dagli stabili-
menti ausiliari e per dare buoi e strumenti di lavoro,
insieme colla terra dei latifondi e delle opere pie, ai
contadini? ». Chi parla così, semina malcontento e ri-
— 325 —
votazione. Perchè invece di invocare i soli mezzi onesti
per compiere il suo programma, che sono le imposte
ed i prestiti, le prime assai meglio, oggi, dei secondi,
invoca un mezzo disonesto: la stampa di biglietti.
Questa fu una delle caratteristiche finanziarie non belle
della guerra presente. Tutti i governi vi indulsero, salvo
in parte gli Stati Uniti, più o meno in proporzioni supe-
riori a quanto fosse consigliato dalla necessità. Tutti i
governi furono deboli nella condotta finanziaria della
guerra, valutando troppo timidamente la capacità di
sacrificio dei loro popoli. Temettero di parlar franco; e
non chiesero imposte a sufficienza, neppure l'Inghil-
terra : la quale tuttavia, tra i paesi europei, seppe far
meglio degli altri. Credettero opportuno di non irritare
i popoli già chiamati a duro sacrificio di sangue, crean-
do l'illusione di una ricchezza monetaria crescente,
sgorgante senza posa dai torchi delle officine carte-
valori. Ed acuirono il caro- vi veri, ingigantendo, senza
necessità, un problema che la guerra sottomarina e le
deficienze del tonnellaggio navale e dei carri ferroviari
e la mancanza di mano d'opera agricola rendevano già
abbastanza grave. Molta parte del malcontento popo-
lare a cagione del caro- vi veri, dell' irritazione dei red-
ditieri fissi contro i beneficati dalla fortuna i quali pos-
sono accaparrare per sé la miglior parte delle derrate
disponibili è dovuta alla timidezza dei governi nel non
aver osato ordinare imposte a sufficienza. Coloro che
oggi invocano la stampa di qualche miliardo di più di
carta-moneta, in sostanza vogliono che i prezzi conti-
nuino a salire. Non paghi di vederli già così alti, vo-
gliono che essi diventino ancor più alti; cosicché la
gente minuta dica : a che cosa ha servito la pace, se
— 326 —
non è nemmeno stata buona a far ribassare i prezzi?
E questo è puro disfattismo. Perciò quando si ode ta-
luno chiedere a gran voce l'attuazione di un programma
grandioso bisogna replicare: con quali mezzi?
£ con quali uomini? fa d'uopo soggiungere. Di pro-
grammi grandiosi non fu mai difetto in Italia. Ne eb-
bimo a sacchi ed a sporte. Ogni candidato al Parla-
mento, ogni pubblicista ha avuto in tasca, dall'avvento
della Sinistra al potere in poi, il piano beli* e pronto
per rigenerare l'Italia. Giornali, riviste, libri ne sono
pieni. Se poco si è operato in confronto del molto pro-
gettato, la colpa è in gran parte la mancanza di uomini
atti a concepire piani sensati ed a tradurli in realtà.
Questo è il vero limite infrangibile alla rinnovazione ci-
vile ed economica della nuova nuova Italia. Per rinno-
varsi e progredire bisogna prima sapere. È vero che
le cose si imparano facendole. In parte fu così per la
guerra. Si imparò a farla bene, a durarla ed a vincerla,
facendola, ricevendo dei colpi, ritirandosi ed avanzando
a vicenda. Anche nella vita civile certe cose si impa-
rano facendole. Molte no. Non si può lasciar fabbri-
care un ponte, costruire una ferrovia, risanare una pa-
lude, imbrigliare le acque delle montagne a qualunque
uomo di buona volontà, pensando : imparerà facendo.
Probabilmente non imparerà nulla e intanto sprecherà
milioni. Sarebbe assurdo/ ricominciare ogni volta da
Adamo ed Eva, quando ci sono libri, ci son scuole,
ci sono esperienze vecchie, ci sono principi noti, i
quali ci possono trarre d'impaccio. Il che vuol dire che
la via più corta per rialzare le condizioni economiche
del nostro paese, quella che può dare, dopo un pe-
riodo di aspettazione, i frutti più grandi, è ancora
— 327 —
quella della diffusione dell'istruzione. Istruzione di ogni
sorta : scientifica pura, tecnica, professionale. Non è
un'impresa direttamente ed immediatamente produttiva,
l'impiegare centinaia di milioni in scuole; ma è forse
quella più sicuramente redditizia in un non lungo vol-
gere d'anni. Ed il reddito cresce in modo cumulativo.
Una nuova generazione più colta non si contenta per
i suoi figli del livello raggiunto; ma vuole attingere a
vette più elevate. Né per scuole si intenda la sola aula
scolastica. Non ci sarebbero oggi abbastanza inse-
gnanti per attuare d'un colpo un vasto programma sco-
lastico. Non si ripeta l'errore del ministero dell'istru-
zione pubblica, il quale invitò le facoltà di belle lettere
a fargli proposte per la istituzione di cattedre di lette-
ratura inglese, in segno di simpatia ai nostri alleati
anglo- sassoni. Dimenticava quel ministero che, per co-
prire una cattedra, ci vuole un insegnante che sappia;
e che se si trovano molti camerieri di albergo che sanno
parlare inglese, non esistono oggi cultori di letteratura
inglese in Italia, salvo pochissimi, quasi tutti già prov-
veduti di cattedra; e che quindi bisogna, prima di co-
prire le auspicate nuove cattedre, formare gli inse-
gnanti. Impresa non facile e non rapida. Fortunata-
mente non si impara solo nelle aule scolastiche. Ma-
gnifica scuola di disciplina morale, che è il fondamento
di ogni seria cultura, fu la trincea. Magnifiche scuole
tecniche saranno le fabbriche. Io non troverei strano
che, invece di pagare sussidi di disoccupazione agli
operai licenziati dalle fabbriche di munizioni ed ai sol-
dati che non trovassero immediatamente occupazione,
il governo pagasse un sussidio di tirocinio nelle fabbri-
che medesime, i cui dirigenti volessero tentare la tra-
— 328 —
sf orinazione in industrie di pace. Per qualche mese la
mano d'opera sarebbe in parte a carico dell'erario, in
guisa da rendere meno costoso e rischioso il periodo
di trasformazione agli industriali. Il governo dovrebbe
garantirsi che quei mesi siano effettivamente utilizzati
per la rieducazione tecnica degli operai e dei soldati.
In certi rami dell'ingegneria, per cui in Italia mancano
scuole specializzate, converrebbe moltiplicare le borse
di studio a favore dei giovani ufficiali, aventi certi re-
quisiti di studio, i quali desiderassero passare qualche
semestre all'estero. E frattanto apparecchiare le scuole
in cui essi dovrebbero, al ritomo, essere utilizzati co-
me insegnanti ed i piani dei lavori, a cui potrebbero
essere addetti. Un gruppo di industriali .si è già impe-
gnato a trovar lavoro nei propri stabilimenti a quegli
ufficiali mutilati che avessero seguito certi corsi di istru-
zione professionale. Vi è in Italia e fuori una vera fame
di uomini capaci a fare le cose umili, modeste e mag-
giori. Lo spettro della disoccupazione è una chimera,
quando non la si provochi con una condotta dissennata
e precipitosa. Non vi è un limite fisso al lavoro che vi
è da fare in un dato paese in un dato momento. Prima
viene il saper fare. Poi quel che si è saputo fare si
vende sicuramente. In un dato momento un contadino
pigro ed ignorante fa produrre poco il campo, perchè
adopera un aratro di legno, disprezza i concimi chimici
ed utilizza malamente il letame. Costui va scalzo. Egli
ed il calzolaio del villaggio, che ha una clientela com-
posta di contadini scalzi, conducono una vita misera-
bile. Se quel contadino profitta delle lezioni del catte-
dratico ambulante di agricoltura e dell'esempio del vi-
cino più intelligente e lavora più e meglio il terreno,
— 329 —
con un aratro di ferro, voltorecchio, usando concimi
chimici e utilizzando convenientemente il suo letame,
forsechè il suo' lavoro più intenso ed intelligente non
ha creato da se il suo sbocco? Egli sentirà il bisogno
di scarpe ed il calzolaio gliele produrrà in cambio del
suo frumento, delle sue ortaglie, del suo vino, delle sue
uova. Contadino e calzolaio staranno meglio. La ca-
pacità crea lavoro ed il lavoro crea il suo sbocco. I di-
sfattisti sperano di creare malcontento, spargendo l'idea
che lavoro, ricchezza, benessere possono essere un
frutto diretto della vittoria, ostacolato solo dall'ingor-
digia e dall'egoismo delle classi dominanti. Ma la gente
vittoriosa d'Italia, che sa di essersi meritata la vittoria
con le sue fatiche, colle sue rinuncie, col suo sangue,
non bada ai falsi profeti e sa che nessuna meta le è
irraggiungibile, purché essa la voglia e si disponga a
fare lo sforzo necessario per giungere alla meta. Essa
è pronta a fare lo sforzo. Spetta al governo di appre-
stare le condizioni, di creare l'ambiente in cui lo sforzo
potrà essere fatto.
(Dalla Rivista di Milano, 20 dicembre 1918).
CONTRO LA SVALUTAZIONE
DELLA VITTORIA
Si è andata purtroppo determinando nella opinione
pubblica italiana una tendenza a svalutare i risultati rag-
giunti colla guerra ed a trasformare una grande vit-
toria in una sconfitta. Peggio : si diffonde, anche per
opera di giornali interventisti, l'impressione che l'Italia
esca male dalla guerra, rimpicciolita in un mondo di
giganti, senza alleati, senza colonie, senza possibilità
di sviluppo economico. Coloro che non riuscirono a
far sconfiggere l'Italia in campo dal nemico, oggi fanno
ogni sforzo per persuadere gli Italiani che la vittoria
degli alleati fu una grande sventura per noi. Si vuole
ad ogni costo creare l'atmosfera della sconfitta, affinchè
da essa nascano il dissolvimento, la occasione di ven-
dette personali e, per taluni, la palingenesi sociale.
Sovratutto la sconfitta della Germania e la vittoria
del mondo anglosassone sembrano disastrose per gli
antichi neutralisti e per i socialisti.
Come potrà — osserva taluno — essere ricostruito
l'equilibrio europeo, il quale solo ci consentiva di fare
una politica estera? Erano due imperialismi, quello te-
desco e quello inglese, « per il conquisto dei mari e
delle materie prime, gli è a dire per l'egemonia del
mondo »; e noi commettemmo insanamente Terrore fu-
nesto di aiutare l'uno a soprrimere l'altro, ed oggi noi
— 332 —
siamo inermi di fronte a quell'uno che davvero, per la
prima volta nella storia dei mondo, domina il mondo.
Altri, il quale pretende alle grandi visioni storiche, in-
tona il finis Europae, la fine della civiltà dell'Europa
moderna, quale era stata foggiata da Atene e da Roma,
da Cristo e dai Germani. Ma neppure l"« alleanza atlan-
tica », conquistatrice oggi della signoria sul mondo, è si-
cura di se. Che le infinite moltitudini oppresse, dall'Ir-
landa, dall' Egitto, 'dall'India, domani dalla Cina e dalle
terre musulmane, tendono l'orecchio- alle voci di rinno-
vaménto le quali vengono dalla Russia. Leviathano
e Spartaco, barbarie dai denti d'oro e barbarie lacera,
si appprestano, con i nervi tesi, all'ultimo conflitto, da
cui nascerà il secondo medioevo dejl' Europa. Ne i
nostri occhi hanno speranza di potere, uscendo dalla
notte buia, contemplare l'alba di un nuovo rinasci-
mento.
***
Ben a ragione avremmo dovuto gemere sotto l'in-
cubo di somiglianti visioni apocalittiche se vittoria piena
avesse arriso ad una Germania favorita dal nostro in-
tervento ai suoi fianchi o dalla nostra neutralità; poiché
avrebbe vinto un tipo di governo, al quale noi repu-
gniamo e che i più veggenti tra i tedeschi considera-
vano, fin da prima della sconfitta, cagione della bassa
educazione politica del loro popolo, della sua assoluta
abdicazione in mano di una casta burocratica, della
sua incapacità a creare in se stesso valori spirituali degni
di reggere il mondo. Ahimè! perchè dimentichiamo così
presto le lezioni della esperienza e, appena usciti dal
pericolo tremendo di diventare i vassalli di un impero
— 333 —
fondato sulla esaltazione di una casta eletta, sul di-
ritto divino di. essa a guidare e ad organizzare le plebi
del suo paese e quelle componenti i popoli forestieri,
ci spaventiamo dei risultati necessari e sommamente be-
nefìci della vittoria? Di ciò han colpa, insieme ai fogli
della borghesia neutralista, quelli della borghesia pa-
triottica; i quali, perchè a noi viene negato un nostro
diritto, non si attardano ad indagare le cagioni parti-
colari del rifiuto, e proclamano l'ignominia della pace
di Versaglia e gridano alla nuova tirannia dei mari e
delle materie prime, la quale sarà esercitata dalla santa
alleanza dei popoli anglo-sassoni. Fanno il gioco, co-
desti fogli patriottici, della stampa neutralista e comu-
nista, la quale ha interesse a persuadere i popoli che
la guerra fu iniziata per turpi motivi di dominio eco-
nomico e si chiude con la appropriazione di beni ma-
teriali a prò del vincitore; e vuole convincere altresì gli
italiani che per essi non vi ha salvezza fuorché nell'al-
talena tra Francia e Germania, tra alleanze anglo-
russe e tedesco-magiare, fuorché nella contrapposizione
a mano armata fra Inghilterra marinara ed Europa mi-
litare guidata dalla Germania. La parentela spirituale
tra Bismarck. Marx e Lenin è più profonda assai che
non si creda : credenti tutti tre nella pura forza bruta
del braccio, nella conquista del potere politico colla
forza delle armi, nell'irrisione ai motivi spirituali d'azio-
ne, nell'ossequio al ventre. La guerra ci aveva fatti
uscire, con la vittoria di parte inglese e nostra, da
questa età buia, che ancor s'attarda sulla Russia, ed
ora codesti laudatori dei tempi andati ci voglion far cre-
dere che noi abbiamo combattuto per una illusione, ed
— 334 ~
abbiamo invece ribadito su di noi le catene della ser-
vitù dei mari e delle materie prime.
No. La servitù delle materie prime è una chimera
la quale rende affannoso il sonno degli uomini nell'alba
della pace, quando i vincoli creati della guerra ancor
tardano ad essere infranti. Se il comunismo vincesse
nel mondo, ferro e carbone, frumento e cotone, lana
e pelli diventerebbero davvero oggetto di negoziati di-
plomatici; ed i Bismarck dell'avvenire potrebbero illu-
dersi di costringere con quei mezzo le nazioni recalci-
tranti alla resa. Ma, sino a quando il trionfo della domi-
nazione comunistica non accada, fino a quando di
giorno in giorno la bardatura di guerra negli Stati Uniti
rumorosamente cade a terra e gli Hoover annunciano
il lor ritomo a vita privata, la paura di rimanere privi
di materie prime resterà un fatto transitorio ed una chi-
mera storica, della quale fra qualche anno noi ride-
remo. Per secoli, per millenni, popoli forniti solo delle
loro braccia e della loro intelligenza, dimoranti in
luoghi sterili, sprovveduti di miniere e di ampie pra-
terie, ateniesi, cartaginesi, romani, veneziani, fioren-
tini, olandesi, seppero arricchire con le materie prime
altrui. Sempre, in passato fin dove rimontano i ricordi
storici, le materie corsero volontieri verso i popoli che
dalla loro intelligenza e dalla loro perizia eran fatti abili
ad acquistarle a più alto prezzo dai vicini incapaci e
pigri : e vorremmo che d'un tratto, solo per far comodo
a chi gioisce di proclamare la sconfitta di noi vittoriosi,
il processo logico e ferreo dell'economia si capovol-
— 335 —
gesse? Ben fanno i nostri negoziatori, finche dura an-
cora il comunismo di guerra, ad assicurare al paese con
trattati precisi la fornitura di alimenti, di carboni, di co-
tone, di lana. Ma assai più efficacemente opereranno
ad assicurare agli italiani la libertà di poter contrattare
liberamente con gli inglesi, con gli americani e con le
genti di qualsiasi contrada, la facoltà di comprare,
senza divieti di governi, senza disparità di trattamento,
ciò di cui avremo bisogno. Basta questa sicurezza, per
guardare fidenti all'avvenire. Poiché la vittoria, che fu
nostra sui campi di battaglia per virtù di uomini, sarà
nostra nelle gare della pace per la perizia dei nostri
artefici. Facciasi valente il popolo nelle arti della pace;
e le materie prime spontaneamente verranno a noi, in-
vece che ai lidi di Francia, d'Inghilterra o di Germania,
e le nostre navi correrranno i mari, fatti sicuri dalla po-
lizia esercitata dalle potenze marinare.
Sempre fu necessario che la polizia dei mari fosse
esercitata da una sola potenza o da un gruppo di po-
tenze alleate. Il mediterraneo fu libero ai naviganti,
quando Roma ebbe distrutto i nidi di pirati, ed il suo
naviglio dominò indisturbato dall'Ellesponto alle colon-
ne d'Ercole. Di nuovo, ofopo il primo tumulto delle in-
vasioni barbariche, dal VI all'xi secolo, il mediterraneo
fu sede di traffici perchè ridivenuto un lago bizantino.
Quando Bisanzio, dopo lotte secolari e grandiose, ar-
retrò dinnanzi all'invasione araba e turca, Venezia e
Genova discordi furono impotenti a mantenere la sicu-
rezza dei mari; ne meglio vi riuscirono Francia e
— 336 —
Spagna, perennemente in lotta tra loro. Sol dopo la
vittoria di Trafalgar, ed il dominio del mare conqui-
stato dall'Inghilterra, ridivennero veramente liberi i
mari ai naviganti; e ad uno ad uno i nidi barbareschi di
pirati e quelli di corsari del Mar delle Antille furono
schiacciati per sempre. Negare che il dominio dei mari
da una sola o da un gruppo di potenze sia necessario
per creare la vera libertà dei mari è ipocrisia stolida
e vana. Che cosa sarebbe accaduto di noi, quando an-
cora eravamo neutrali, se davvero le flotte germaniche
e franco-inglesi si fossero tenute in rispetto, e nessuna
avesse osato solcare tranquillamente i mari a spazzarli
dalla bandiera nemica? I mari sarebbero stati aperti solo
a corsari ed a sottomarini; e le navi mercantili sareb-
bero rimaste alla lor mercè senza difesa. Neppure una
tonnellata di carbone avrebbe potuto salpare dai lidi
d'Inghilterra per Genova e per Napoli; ed i noli altis-
simi del tempo della guerra che fu, sarebbero parsi
un'inezia in confronto a quelli che per aver frumento
dall'America avremmo dovuto pagare nella guerra da
corsari, che non fu per merito della flotta britannica la
quale rinchiuse le navi, tedesche nei loro porti, e della
flotta italo -franlcia che costrinse le navi austriache ali ri-
poso di Pola. Pura ipocrisia è questo vociferare delle
gazzette contro il dominio dei mari delle potenze mari-
nare; poiché in tempo di pace è urgente che a qual-
cuno sia affidata la polizia delle acque contro i mal-
viventi, ed in tempo di guerra è infantile supporre che
la potenza provveduta di naviglio più forte dell' avver-
sario non si giovi della sua potenza per distruggere
questo ed esercitare incontrastato il dominio dei mari.
Dunque è cosa certa che gli odierni piagnoni sul con-
— 337 —
quisto dei mari operato dall' « alleanza atlantica »
versan lagrime di coccodrillo ed avrebbero voluto il con-
quisto dei mari a prò della Germania. In tempo di pace
il dominio britannico' dei mari, come prima quello bi-
zantino e romano, non ha mai impedito alle navi nostre
di portar lungi la bandiera italiana, quando noi era-
vamo capaci di darle alimento di traffici lucrosi. In
tempo di guerra, la scelta non è fra dominio e libertà
dei mari, ma fra questo o quel dominio.
Sicché si torna al medesimo punto : la pace di Ver-
saglia, la quale non toglierà a nessuno, che se le sappia
meritare, le materie prime utili alla sua operosità e darà
il dominio dei mari alla bandiera anglo-sassone, è mi-
gliore o peggiore della pace di Berlino, la quale avrebbe
dato i mari e le materie prime ad un'Europa organiz-
zata dalla classe governante tedesca? Qui è il vero, il
grande problema. La guerra non fu combattuta per la
vittoria di una o di un'altra avidità di ricchezze e di
dominio. Avremmo potuto dinanzi ad essa rimanere in-
differenti. Fu combattuta invece tra due principi, tra
due metodi di usare le ricchezze del mondo e di con-
vertirle a beneficio economico e a vantaggio spirituale
dei popoli.
L*un metodo, che nacque modernamente in Inghil-
terra ed a faticai si estese nella parte del mondo gover-
nata dalla razza anglo-sassone — ne dappertutto ha po-
tuto ancora affermarsi, — dice che le ricchezze della
terra sono dei popoli che l'abitano, di quelli che vi
possono giungere e dimostrino maggior capacità di
— 338 —
utilizzarle, e di quanti altri sul mondo ne facciano, pa-
gandone il valsente, seria richiesta. Sono i popoli stessi,
che, attraverso alla dura scuola della esperienza e dei
liberi dibattiti, ubbidendo alla legge che essi medesimi
si sono creata, esaltando ai sommi fastigi ed a volta
a volta buttando nella polvere gli uomini che ne incar-
nano le passioni e le aspirazioni, si rendono via via ca-
paci a governar sé stessi, a lavorare, ad arricchirsi, a
grandeggiar nel pensiero.
L'altro metodo, che non è tedesco per indole sua
connaturata, ma era diventato tedesco nella Germania
militare-comunista forgiata da Bismarck e da Marx, pro-
clama la incapacità dei popoli a governare liberamente
se stessi, sbagliando ed inciampando, rizzandosi e cor-
reggendosi; ed affida il compito ad alcuni eletti, unti
del Signore, come l'imperatore, il cancelliere e la
schiera dotta e perita dei funzionari, dei professori, dei
capi dello stato maggiore, dei grandi proprietari della
Pomerania e della Prussia orientale e degli imprendi-
tori dell'industria pesante; ovvero dittatori in nome del
proletariato, nella repubblica che Marx auspicava per
la Germania e Lenin creò nella Russia. Terribile sa-
rebbe invero stata la sorte dei popoli « inferiori », come
era riguardato l'italiano, se codesto tipo di governo
fosse rimasto vittorioso; perchè essi avrebbero avuto
non i beni materiali ed i cibi spirituali, molti o pochi,
che avessero saputo procurarsi coi loro meriti, ma quelli
soltanto che la classe governante, i saggi dell'areopago
mondiale avrebbero ritenuto giusto concedere loro. Non
un libero acquisto sarebbe stato, ma una largizione a
norma di meriti valutati da altri.
— 339 —
Perciò io dico che nor invano combatter l' no la guer-
ra, e che il principio della ripartizione comunistica dei
beni della terra, comunistica perchè deliberata in se-
guito a consigli di sapienti, giustamente fu sconfitto.
Non la Germania giacque vinta in questa guerra, ma i
falsi principi in cui essa s'era irretita, per esaltazione
satanica d'orgoglio, contro le grandi tradizioni del suo
pensiero. Non l'Inghilterra vinse, ma il principio da essa
bandito dell' auto-educazione degli uomini, di tutti gli
uomini, a governare se stessi, a creare lo Stato entro di
sé, entro il proprio spirito, e ad ubbidire alla propria
creazione, invece che al verbo della sapienza esterna..
Or questa è vittoria non dell'Inghilterra, ma del
mondo intiero e della vera Germania medesima. Ben
può darsi che nella febbre della lotta, nei torbidi sogni
di paventate rivincite, nella collera del sangue inno-
cente sparso, talvolta si passi il segno, ed il vincitore
per un istante faccia suo il pensiero del vinto. Ma son
parvenze fuggitive. Il morto principio non ritorna. In-
vano i corifei della dittatura proletaria piangono sulla
vittoria conseguita. Questa rimane. I nostri figli, noi
stessi ne assaporeremo i frutti divini.
(Dalla Minerva del 16 luglio- 1 agosto 1919).
VERSO LA CITTA' DIVINA
L'articolo che Giuseppe Rensi (1) intitola alla « bel-
va bionda » è lo sfogo appassionato, ansioso di chi si
sente sperduto nel disordine, nell'anarchia, in mezzo
all'odierno ammattimento convulsionario di tutto e di
tutti. Si vuole un po' di ordine; si desidera l'unifor-
mità, il comando, l'idea unica a cui tutti obbediscano,
il Napoleone. La borghesia sembra incapace a ricreare
la disciplina; i borghesi hanno il temperamento critico
e corrosivo. Lasciamo dunque il passo al proletariato
ignorante, crudele, ma risoluto e deciso a far trionfare
il proprio ideale, ad ammazzare quanta gente basta,
perchè tutti gli ideali scompaiano e soltanto il suo ri-
manga e domini e dia agli uomini ciò di cui essi hanno
sovratutto bisogno : una autorità, una disciplina, una
religione, dia alla società un'unità viva e vera.
Giuseppe Rensi ha scritto, in una pagina di prosa
irruente e magnifica, un vero inno alla forza che uni-
fica, che uccide il dubbio e segna la strada. Il suo inno
risponde ad un bisogno dell* animo umano il quale ri-
fugge dai contrasti, dalle lotte di uomini, di partiti, di
idee, e desidera la tranquillità, la concordia, la unità
degli spiriti, anche se ottenuta coi ferro e col sangue.
Se ne fossi capace, vorrei scrivere un inno, irruente
ed avvincente come il suo, alla discordia, alla lotta, alla
(i) Vedi Rivista di Milano, n. 33, del 5 marzo 1920
— 342 —
disunione degli spiriti. Perchè dovrebbe essere un idea-
le pensare ed agire nello stesso modo? Perchè dobbia-
mo esaltare il proletariato ignorante e crudele, il quale
non critica, ma vuole; vuole ciò che non sa e vuole
tanto più fortemente quanto meno conosce la mèta ver-
so cui tende? Qual mai ragione sostanziale vi è perchè
lo Stato debba avere uni proprio ideale di vita, a cui
debba napoleonicamente costringere gli uomini ad uni-
formarsi? Perchè una sola religione e non molte, perchè
una sola opinione politica o sociale o spirituale e non
infinite opinioni?
Il bello, il perfetto non è l'uniformità, non è l'unità,
ma la varietà ed il contrasto.
Coloro i quali si lamentano del disordine odierno
degli spiriti ed anelano ad un ordine nuovo, non sanno
interpretare se stessi, si lagnano di ciò che amano, sof-
frono di ciò che li fa vivere. L'aspirazione all'unità, al-
l'impero di uno solo è una vana chimera, è l'aspirazione
di chi ha un'idea, di chi persegue un ideale di vita e
vorrebbe che gli altri, che tutti avessero la stessa idea
ed anelassero verso il medesimo ideale. Egli una sola
cosa non vede : che la bellezza del suo ideale deriva dal
contrasto in cui esso si trova con altri ideali, che a lui
sembrano più brutti, dalla pertinacia con cui gli altri
difendono il proprio ideale e dalla noncuranza con cui
molti guardano tutti gli ideali. Se tutti lo accettassero,
il suo ideale sarebbe morto. Un'idea, un modo di vita,
che tutti accolgono, non vai più nulla. Noi economisti
applichiamo questo concetto ai beni economici, dicendo
che un bene, per acquistare il quale non fa d'uopo fare
alcun sforzo, non è più un bene economico, vale zero.
Così è anche dei beni morali. Se un Napoleone proleta-
— 343 —
rio riuscisse ad imporre il suo impero all'Europa, se
distruggendo tutti gli avversari e tagliando la testa a
tutti coloro che pensassero diversamente, imprimesse
le idee del proletariato a tutti gli europei, in quel gior-
no vi sarebbe forse l'unità, ma l'unità del nulla. L'idea
nasce dal contrasto. Se nessuno vi dice che avete torto,
voi non sapete più di possedere la verità. Il giorno
della vittoria dell'unico ideale di vita, la lotta ricomin-
cerebbe, perchè è assurdo che gli uomini si contentino
del nulla.
No. Gridiamolo alto. La vita disordinata, affannosa,
antiunitaria, antidisciplinata che noi conduciamo pare
insopportabile a noi che ne soffriamo i duri contraccolpi
individuali, economici e morali. Parrà bellissima alle
venture generazioni, le quali godranno i frutti delle ve-
rità politiche, economiche e morali che i contrasti odier-
ni avranno' fatto trionfare.
O non è forse una concezione dello Stato che vuole
trionfare contro un'altra? Trionfo non definitivo, pre-
cario, ognora combattuto e contrastato da tendenze av-
verse? Ma la volontà di trionfare esiste; ed il tragico
del momento sta in questo che molti, che troppi uomini
non vedono che una lotta grandiosa si combatte tra
due opposti principii e in che cosa stia la lotta.
C*era un tipo di Stato, il quale aveva un ideale re-
ligioso, e voleva imporlo agli uomini tutti viventi in
Europa. La riforma protestante spazzò via quel tipo
di Stato; e la vita religiosa divenne un problema indi-
viduale, intimo, sottratto al controllo altrui. Fu, pen-
sano molti, un riamn amento della religiosità.
Ci furono, dopo, Stati i quali vollero imporre agli
uomini un ideale unico di vita politica. A volta a volta
— 344 —
Spagna, Francia, Germania credettero di avere la mis-
sione di governare il mondo; di plasmare 1* umanità se-
condo un proprio schema ideale politico, economico,
spirituale : il mondo divenuto spagnuolo, francese, te-
desco. Senza dubbio l'ideale era grandioso. Terribil-
mente bello. Ho scritto tante volte prima, durante e
dopo la guerra, che la vittoria dei tedeschi sarebbe
stata una fortuna, economicamente e politicamente, per
l'Europa e per l'Italia. E torno a scriverlo. Governo di
dotti, poveri ed onesto; economia ben diretta; progressi
tecnici meravigliosi; incrementi del sapere e del be-
nessere straordinari, mai più visti ed a breve scadenza;
una classe governante consapevole di se, dura coi ri-
voltosi, ma benefica alla gente tranquilla : ecco quali
sarebbero state le conseguenze di una vittoria dell'idea
contenuta nello Stato tedesco.
Non ho altrettanta fede, anzi non ho alcuna fede che
risultati consimili si possano mai ottenere in seguito
alla vittoria dell'ideale comunista russo. Dall'ignoranza
e dalle barbarie, da una classe priva di dirigenti non
può nascere l'ordine e la disciplina. Ma dalla Germa-
nia vittoriosa questo poteva sperarsi, questo era certo
si sarebbe ottenuto : che per un secolo l'Europa e forse
rumanità avrebbero parlato, pensato ed operato in te-
desco, secondo modi di pensare e di vivere tedeschi,
secondo una disciplina ed una volontà unica. L'uma-
nità per un secolo sarebbe stata contenta. Così come
sarebbe accaduto se avesse vinto Napoleone. Epperciò
quell'uomo di genio non riuscì mai a comprendere per-
chè mai i popoli d'Europa repugnassero alla felicità
che egli voleva ad essi procurare.
— 345 —
La rifiutarono anche stavolta. Milioni di uomini mo-
rirono per allontanare dall'Europa l'amaro calice della
felicità e dell'unità spirituale. Morirono per far trion-
fare un altro ideale. L'ideale dello stato, il quale si
astiene dall'imporre agli uomini una foggia di vita.
Con le guerre di religione, gli uomini vollero che non
ci fosse una unità religiosa imposta dallo Stato. Con
le guerre di Luigi XIV, di Napoleone, e con quella ora
terminata gli uomini combatterono contro l'idea dello
Stato il quale impone una forma di vita politica, di
vita economica, di vita intellettuale. Vinse, e non a
caso, quella aggregazione di forze militari, presso cui
lo Stato è concepito come l'ente il quale assicura agli
uomini l'impero della legge, ossia di una norma este-
riore, puramente formale, all'ombra della quale gli
uomini possono sviluppare le loro qualità più diverse,
possono lottare fra di loro, per il trionfo degli ideali
più diversi. Lo stato limite; lo Stato il quale impone li-
miti alla violenza fisica, al predominio di un uomo
sugli altri, di una classe sulle altre, il quale cerca di
dare agli uomini le opportunità più uniformemente di-
stribuite per partire verso mete diversissime o lonta-
nissime le une dalle altre. L'impero della legge come
condizione per l'anarchia degli spiriti; la forza limitata
alla vita estrinseca; l'unità ristretta alle forme ed alle
condizioni di vita. Ma dentro, ma nella sostanza, nello
spirito, nel modo di agire, lotta continua, pertinace,
ognora risorgente. Questo è ciò che vollero gli uomini,
i quali si trovarono da una parte della trincea.
La creazione del nuovo tipo di Stato è, tuttavia,
lenta e difficile e dolorosa. È più semplice comandare
ed ubbidire; è meno doloroso — nonostante il taglio
— 346 —
delle teste discordi — creare un'unità spirituale colla
forza del braccio. Ma gli uomini sono nati per creare
soffrendo. L'unità, auspicata da Rensi, la disciplina nel
lavoro, la società vera di uomini noi la raggiungeremo
quando gli uomini, lottando e scagliando gli uni con-
tro gli altri i propri ideali, avranno compiuta la propria
educazione; quando si saranno persuasi, con l'amara
esperienza propria, con il dolore degli insuccessi, quale
via debba tenersi per ascendere. L'unità imposta dai
comunisti sarebbe la morte spirituale- Noi vogliamo
l'unità, ma conquistata vivendo e soffrendo, elevandoci
al di sopra della materia, del godimento bruto. Quando
avremo compiuto lo sforzo di veder chiaro dentro ai
nostri dissensi, quando li avremo superati col pensiero,
avremo raggiunto l'unità spirituale, avremo creata la
città divina, quella in cui vivono gli spiriti liberi che
sanno le passioni ed avendo sacrificato all'idolo falso,
hanno trovato la via della verità.
(Dalla Rivista di Milano del 20 aprile 1920).
IV.
REGOLE DI GALATEO
TORNIAMO AL " SIGNOR „ !
Il giorno 4 febbraio era diramato da Versailles il
seguente comunicato :
(( Dal 30 gennaio al 2 febbraio il Consiglio supe-
riore di guerra, sotto la presidenza del signor Clemen-
ceau, ha tenuto sette sedute plenarie a Versailles. Era-
no presenti : per la Francia : il sig. Clemenceau, il sig.
Pichon, il gen. Foch, il gen. Pétain, il gen. Weygand;
per la Gran Bretagna : il sig. Lloyd George, Lord Milner,
il gen. Sir W . Robertson, il feldmaresciallo Sir D. Haig,
il gen. Sir H. Wilson; per l'Italia : il sig. Orlando, il
barone Sonnino, il gen. Alfieri, il gen. Cadorna; per gli
Stati Uniti: il gen. Bliss, il gen. Pershing ».
Se quel comunicato, invece che daWHavas e da
Versailles, fosse stato diramato dalla Sefani e da Ro-
ma, innanzi al nome di ogni ministro sarebbero state
messe le sacramentali S. E. (Sua Eccellenza) ed a quello
di ogni generale i titoli cavallereschi di cui essi sono
forniti. Accadde non di rado leggere, nei rendiconti
dei pranzi ufficiali offerti dal governo italiano ai mi-
nistri alleati, che i ministri italiani cominciavano i loro
brindisi con le parole che da noi, per la oramai lunga
abitudine, suonano naturali : Eccellenza! , come se que-
sto titolo competesse ai ministri in Francia & in Inghil-
terra. E nei giornali italiani, quando si parla del signor
— 350 —
Clemenceau e del signor Lloyd George, per lo più si
prefigge al nome la sillaba on., quando addirittura non
si qualifica di lord qualsiasi ministro inglese, anche se
si chiama Lloyd George o Asquith e come se non fosse
per un premier liberale inglese un punto d'onore il
non accettare di far parte della Camera dei Lordi.
Ho voluto fare queste osservazioni, che solo in ap-
parenza paiono formalistiche, perchè mi sembra che i
maggiori contatti con Testerò provocati dalla guerra
presente dovrebbero almeno, fra gli altri, produrre que-
sto utile risultato : di ricordare agli Italiani come essi
inavvertitamente nei sessantanni di vita nazionale siano
scivolati in uno spagnolismo di linguaggio e di titola-
ture, quale non si usa forse in nessun paese d'Europa
e quale non si usava un tempo negli antichi Stati ita-
liani; e di persuaderli come questo linguaggio altiso-
nante, da basso impero, contrasti vivamente e non pos-
sa non produrre un'impressione direi quasi di grotte-
sco negli amici nostri appartenenti alle nazioni di ci-
viltà occidentale.
Soltanto in Italia — confronto, s'intende, le nostre
abitudini con quelle francesi, inglesi e nord-americane
— si usa nel discorso e nello scritto indirizzare la pa-
rola, la lettera, la relazione stampata ai ministri con la
formula : Eccellenza! In Francia si dice o si scrive sem-
plicemente Monsieur le ministre, in Inghilterra sempre
Sir nel parlare, e Sir o Mr. (Mister) a seconda della
qualità della persona nello scrivere; negli Stati Uniti
sempre Sir nel parlare e Mr. nello scrivere. Negli Stati
Uniti il signor Wilson medesimo è semplicemente il
signor Wilson o, nelle relazioni ufficiali, Mr. President,
signor Presidente.
— 351 —
Tutt'al più coloro che vogliono dare un titolo, ne/7o
scrivere, al loro Presidente lo chiamano Dr. Wilson, il
dottor Wilson, dal suo titolo accademico. Dire Sua Ec-
cellenza Wilson o Sua Eccellenza Lloyd George o Sua
Eccellenza Clemenceau sarebbe una stravaganza.
Soltanto in Italia si usa prefiggere al nome dei de-
putati alla Camera il titolo di on. I deputati alle Ca-
mere alleate sono dei signori senz' altra aggiunta. Sol-
tanto alla Camera dei Comuni, i deputati o members,
ai quali la consuetudine vieta di pronunciare il nome
e cognome dei colleghi, adoperano parlando dei — e
non ai — loro colleghi le qualifiche il mio onorevole
amico o, se si tratta di deputati che sono anche membri
del Consiglio privato della Corona, il mio molto onore-
vole amico, facendolo seguirei o no dall'indicazione del
collegio di cui il collega è rappresentante, a seconda
che tale indicazione è necessaria o no a identificare la
persona di cui ci si occupa. Gli italiani hanno imitata
dall'Inghilterra la qualifica di onorevole; ma, mentre
lassù, nella patria delle istituzioni rappresentative, quel-
la è una cortesia di discorso, un modo distinto di espri-
mere la propria stima personale verso il collega, forse
verso l'avversario politico, in Italia quella qualifica si
è trasformata in un titolo, che si usa nel discorso con
cui si interpellano i deputati e che si attacca alla loro
persona persino quando essi non fanno parte del Par-
lamento .
Soltanto in Italia si usa, nel parlare e nello scrivere
e persino nel semplice saluto, indirizzare il discorso o
le lettere agli insigniti di onorificenze cavalleresche con
le parole cavaliere! commendatore! Se da noi non si è
ancora giunti a salutare taluno col titolo di cavaliere
— 352 —
ufficiale, o di grand' uj fidale, o di cavaliere di gran cro-
ce, ciò è accaduto soltanto perchè la pronuncia di que-
sti titoli è un po' lunga e fastidiosa. Non manca però
la buona volontà di fare qualche progresso su questa
via. Tant'è vero che, nello scrivere, i puristi delle ti-
tolature già usano notare sugli indirizzi un cav. per i
cavalieri semplici, e invece un cavaliere per disteso per
i cavalieri di gran croce.
Alla brava gente che si compiace nel sentirsi salu-
tare per via coi titoli di cavaliere e di commendatore
può far dispiacere; ma sta di fatto che questa abitudine
spagnolesca — e forse io calunnio la Spagna! — dei
saluti in termini cavallereschi è una peculiarità tutta
nostra. Non parlo degli Stati Uniti, a cui si potrebbero
aggiungere la Svizzera e la Norvegia,, dove per somma
fortuna non esistono ordini cavallereschi ed è vietato
ai cittadini ricevere decorazioni da potenze straniere;
ma neanche in Francia e in Inghilterra non si usa nulla
di simile a ciò che è finito con diventare abitudinario
da noi. Non che quei popoli non siano ghiottissimi di
titoli cavallereschi; anzi, per la maggior difficoltà di
conseguire croci e commende nell'ordine della Legion
d'onore o in quello del Bagno, quei titoli sono ambitis-
simi e invidiati, più che le corrispondenti decorazioni
dell'ordine della Corona d'Italia. Ma coloro che ne so-
no insigniti hanno avuto il buon gusto di non deprezzare
l'onorificenza ricevuta facendosela ricordare ad ogni
passo, per via, negli uffici, nei negozi, nel parlar fa-
migliare, sugli indirizzi delle lettere e delle cartoline.
Il cavaliere della francese Legion d'onore tiene assais-
simo alla sua croce e ama fregiarsi l'occhiello della
giacca con il relativo nastrino; ma nello scrivere e nel
— 353 —
parlare egli rimane sempre Monsieur X. Sarebbe di cat-
tivo tono, anzi di pessimo gusto, chiamarlo Chevalier X.
Tutta questa schiera risuscitante di cavalieri borghesi
e a piedi basterebbe per affogare nel ridicolo l'istitu-
zione della Legion d'onore presso i nostri amici di
oltr'Alpe. Gli inglesi sono anche assai affezionati ai
loro ordini; e nelle sopracarte delle lettere si ha somma
cura, quando un Mr. Smith è stato insignito della qua-
lità di Knight (cavaliere) in un ordine cavalleresco, di
scrivere d'or innanzi il nome sotto la forma di Sir Her-
bert Smith. Ma a nessuno viene in mente di salutare un
Knight o un Knigth Commander inglese col titolo che
gli spetta. Ad essi il discorso continua a essere indi-
rizzato col sir, come si faceva prima quando egli era
un semplice mister. Dico continua, perchè è ben risa-
puto che, nel discorso, il sir o signore si dà a tutti, sem-
plici mortali, decorati o baronetti, salvochè a coloro che
hanno diritto, per ragion di nobiltà, al titolo di lord.
Soltanto in Italia è caduto in dissuetudine V antico,
bello, fine appellativo di signore. Tanto bello e tanto
fine che gli inglesi nessun maggior onore credono di
poter render a un italiano quando ne pronunciano il
cognome fuor di premettervi 1" appellativo signore. Essi
dicono e scrivono : signor Orlando, signor Salandra, si-
gnor Giolitti, ed a ragione credono di rendere onore ai
nominati. Così si faceva anche da noi quando si scri-
veva : messer Niccolò Machiavelli. Invece, tanta è la
degenerazione nostra a questo riguardo, tanta la mania
dei titoli e del parlare metaforico, enfatico e grosso-
lano, che quasi si considera come una persona da nulla
colui al quale non si possa parlare come ad eccellenza,
onorevole, commendatore, cavaliere.
25
— 354 —
Il buon gusto è siffattamente scomparso che vi sono
dei miei colleghi, a cui pure nessun titolo dovrebbe
esser più gradito di quello di professore — gradito co-
me quello che ricorda la missione, lo scopo della vita
loro, così come, negli altri campi, il titoli di avvocato,
di medico, di ingegnere, di mercante, di industriale,
di artigiano, — i quali preferiscono di essere apostrofati
in qualità di cavalieri e commendatori. Il brutto andaz-
zo si è così diffuso che oggi i giornalisti usano la pa-
rola signor soltanto per prefiggerla ai nomi di coloro
con cui essi capitano a polemizzare; quasi che quel
prefisso fosse un segno di disprezzo.
Non credo die neppure i tedeschi, pur così ado*-
ratori di ogni forma di autorità, così formalisti osser-
vanti di ogni ragione di gerarchie sociali e cavallere-
sche, siano giunti all'estremo abuso che dei titoli e
degli atti di adulazione verbale si è venuto a commet-
tere in Italia. I primi ufficiali dei ministeri piemontesi
indirizzavano al conte di Cavour i loro rapporti con la
formula : signor ministro! Sarebbe tempo che si tornas-
se, dappertutto, nelle costumanze ufficiali e sociali, nel
parlare e nello scrivere, all'antica semplicità, e abban-
donassimo le recenti non lodevoli abitudini di linguag-
gio arlecchinesco, che devono essere cagione di stupore
non piccolo ai nostri alleati, usi a vivere in paesi dove
la democrazia nuova non ha fatto dimenticare le anti-
che forme del vivere aristocratico, che vuol dire fine e
semplice.
(Dalla (< Minerva » del 1° marzo 1918).
FINITO DI STAMPARE
IL GIORNO 15 MARZO 1921
A CURA DI
RICCARDO GARRONI
TIPOGRAFO
IN ROMA, PIAZZA MIGNANELLl, 23
o
113 Einaudi, Luigi
177 Gli ideali di un
E55 economista
PLEASE DO NOT REMOVE
CARDS OR SLIPS FROM THIS POCKET
UNIVERSITY OF TORONTO LIBRARY